Il divenire dell'universo: l'uomo capace di intervenire in maniera non casuale
Il contesto in cui nasce il termine bioetica
Fino a pochi decenni or sono l'attività medica era concepita come un rapporto privatistico medico-paziente, mirato a sanare una situazione patologica. L'etica medica - o meglio: la deontologia medica - si basava su due semplici principi: "primum non nocere"; secondo, agire nell'interesse del paziente al meglio dello stato dell'arte (e degli strumenti concretamente disponibili). Si aggiungevano poi il tema del rapporto fra colleghi e le norme giuridiche in vigore. Solo la morale cristiana aveva prodotto alcuni trattati di etica medica (Scremin) o aveva introdotto alcuni temi essenziali nel quadro del settimo comandamento (aborto, trapianti) e nel trattato De usu matrimonii (tutela della riproduzione).
Nella seconda metà del secolo scorso la ricerca scientifica e la pratica medica si sono rivolte anche in altre direzioni: le possibilità di miglioramento o esaltazione di funzioni o di strutture corporee. Si pensi, per es., alla chirurgia estetica, a interventi contraccettivi, al miglioramento di prestazioni sessuali o agonistiche e, più di recente, a soddisfare una sorta di idolatria del corpo (il culturismo o - come oggi si dice - la fitness) sia come apparenza sia come prestazioni fisiche in genere. È sorta inoltre la possibilità della rianimazione e si è allargata in pochi anni la possibilità di trapianti di organi. Tutto ciò, e altro ancora, ha ampliato lo spazio di azione del medico. E infine oggi stiamo assistendo al frenetico svilupparsi della ricerca genetica e delle possibilità che essa offre o offrirà, con esiti futuri ancora indecifrabili sia nel breve che nel lungo termine. Gli interventi sull'organismo sono in genere opera del medico, ma gli strumenti sono offerti da altri ambiti della ricerca scientifica come la biochimica, l'ingegneria, la fisica, l'elettronica. Non si può più vedere il problema etico nei solo ambito dell'etica o deontologia medica: esso coinvolge molti ambiti della ricerca scientifica, implica conseguenze possibili anche se non del tutto prevedibili, e in ogni caso va ben oltre i problemi etici del trattamento terapeutico (in senso stretto: rimedio a uno stato patologico).
Bioetica ed ecologia
In questo contesto è nato il termine bioetica indicante - più o meno - i criteri di valutazione di comportamenti umani (singoli o collettivi) mirati a, o ragionevolmente prevedibili di, avere un impatto con la fisicità propria o altrui, dell'individuo o della specie umana. Io ritengo però che la limitazione alla specie umana sia indebitamente limitativa. Modificazioni di forme di vita animali o vegetali possono: a) produrre conseguenze sulla vita degli umani, e b) costituire un problema morale in se stesse con diverse motivazioni. Ma queste stesse due ragioni possono applicarsi anche alla modificazione di realtà fisiche non viventi (prive di struttura cellulare con Dna e capaci di riprodursi) sussistenti sulla terra e anche nel cosmo. Il confine fra bioetica ed ecologia mi sembra oggi rapidamente svanire.
Il problema preliminare per la tradizione morale cristiana, e per molti altri approcci etici sia filosofici che religiosi, è costituito dal rapporto fra uomo (capace di adattare mezzi a fini), e natura come realtà fisica organizzata e voluta tale da Dio creatore (o da altre concezioni demiurgiche o immanentistiche o panteistiche). Il creato manifesta la volontà del suo creatore e, quindi, la natura con le sue strutture e regolarità può apparire come inviolabile. Comportarsi secondo natura e rispettare la mia fisicità (organi e funzioni) e quella esterna a me diviene così un fondamento dell'etica normativa, da Aristotele attraverso lo stoicismo a S. Tommaso. Ma l'essere umano capace di adattare mezzi a fini, cioè capace di scelte mirate, non può esercitare questa sua capacità naturale se non interferendo con la fisicità propria e altrui.
Nella generalità dei casi si è ritenuto costantemente che il divieto etico di violazione della natura riguardasse solo l'essere umano nella sua fisicità, mentre il resto del creato (della natura) è stato ritenuto a servizio dell'uomo e sempre a esso subordinato. L'intervento sulla fisicità umana era consentito solo a scopo strettamente terapeutico: ripristinare al meglio la naturale fisicità umana quando essa fosse - per qualunque causa - degradata.
È da considerare, fra parentesi, con quanto rigore questo principio sia socialmente o giuridicamente imposto al medico e con quanto poco rigore si applichi alle violazioni dell'integrità umana dovute a guerre, uccisioni o lesioni per una difesa più o meno legittima, pena di morte e altri casi simili sicuramente di natura non medica. È impressionante notare come i gruppi socialmente più impegnati in campagne antiabortiste siano spesso i più impegnati in campagne militariste (fabbricazione, commercio, possesso incontrollato di armi da un lato; rigidità nei rapporti internazionali, pretesa di supremazia militare e conseguente corsa agli armamenti; corsi di sopravvivenza con addestramento paramilitare privato; esaltazione di trionfi bellici - cioè in genere di stragi - e disprezzo di qualunque cosa che si presenti come pacifista). Ciò è normale negli Usa; ma anche da noi esplode la rabbia popolare per un povero medico che ha sbagliato una diagnosi o un intervento (cosa che fa parte dei limiti umani), mentre nessuna rabbia popolare esplode di fronte a coinvolgimenti militari assai dubbi sia nelle finalità che nei mezzi. Chiudiamo qui questa triste parentesi.
La visione unitaria e dinamica del creato
Oggi si aprono piste di riflessione relativamente nuove. Oggi, al meglio delle nostre conoscenze scientifiche, sappiamo che il creato (l'universo) non è una somma di enti stabili e definibili dalla ragione umana una volta per tutte. L'universo creato è un sistema interattivo in continuo processo, anche con forti e imprevedibili salti di discontinuità; e di questo processo anche l'essere umano fa parte (come singolo e come specie): con il solo fatto di esistere con le sue specifiche funzioni vitali l'essere umano viola - modifica - il cosmo, ed è da esso modificato. E si osservi che ciò non riguarda solo il pianeta terra. In questa realtà di continuo processo interattivo l’essere umano è l'unico essere a noi noto capace di inserirsi in forma mirata e ciò fa parte della natura, del progetto e della volontà del creatore. Il problema morale non è dunque "è lecito modificare la natura?" ma è "come inserirsi in questo processo?". La Gaudium et spes, al n 50, definisce i coniugi, nelle loro scelte procreative. come "veluti interpretes" della volontà del Creatore. Spetta dunque all'essere umano decidere su finalità e mezzi di questo suo inevitabile e anzi doveroso intervento, tenendo conto delle conoscenze scientifiche e degli strumenti disponibili in epoche e in culture diverse, sia nel passato che nel presente e nel futuro. Varia la conoscenza che l'uomo ha del cosmo, in genere approfondendosi, insieme alla consapevolezza dei limiti e della stessa possibilità di una conoscenza oggettiva di fenomeni esterni all'osservatore. Ma varia anche - e in continuazione, sia pure in tempi talora non percepibili dall'interno di una vita o di una generazione umana - la natura dell'uomo e del cosmo. Questa doppia variazione, al meglio delle nostre conoscenze, appare oggi indubitabile, e rende perciò ben difficile giungere a conclusioni etico-normative assolute e valide per sempre.
Nel quadro che oggi si presenta come il più plausibile, nel quadro dell'universo come divenire sia a livello intergalattico sia a livello subatomico, sul pianeta terra (non sappiamo se anche altrove) è apparsa la vita e, all'interno delle infinite mutazioni di essa nel corso dei secoli (milioni di anni), tra le specie viventi ne è emersa gradualmente una capace di autocomprensione, autocoscienza, coscienza, scelte consapevolmente mirate. Io credo che il divenire dell'universo - un divenire che è la sua stessa essenza - sia fondamentalmente casuale.
All'interno di questa casualità è sorto sul pianeta terra (e probabilisticamente anche altrove) un qualcosa del tutto nuovo: la capacità di intervenire nel divenire casuale in modo non casuale. Le scelte consapevoli dell'essere umano sono anch'esse esposte alla casualità: ma sono da essa solo condizionate, non determinate. La situazione in cui l'essere umano sceglie è sempre condizionata dall'ambiente umano in cui un è nato e cresciuto, e dalle innumerevoli situazioni in cui è venuto casualmente a trovarsi (un incontro, un'emozione, un trauma ecc.): tutto ciò determina l'arco di scelte fisicamente o psicologicamente pensabili e possibili per una persona in un preciso momento, ma non determina il criterio della scelta. Per quanto ristretto possa essere l'arco di possibilità di comportamenti alternativi, l'essere umano deve decidere quale sia preferibile a un altro, e perché lo sia. Rifiutare la distinzione - per me essenziale ma spesso non chiaramente percepita - fra condizionamento e determinazione equivale alla rinuncia a ogni vita morale e all'insignificanza di ogni riflessione etico-normativa.
Nel creato (universo): principio casualistico e principio finalistico
Nell'universo, dunque, è apparso un elemento del tutto nuovo (almeno nel quadro delle conoscenze della specie umana), un elemento finalistico che si affianca, e in parte subentra, al principio della casualità. Se ora sostituiamo il termine caso con quello di contingenza, e se pensiamo teologicamente a un Dio Creatore, si può dire che tutto il creato (tutto ciò che sussiste nello spazio-tempo) è contingenza: il concetto di creazione come azione posta una volta per tutte deve essere sostituito col concetto di relazione costantemente operativa di un Assoluto, di un totalmente altro rispetto al contingente; del Creatore col creato. In questa visione, che qui non è possibile sviluppare ulteriormente, la capacità di scelte relativamente libere, tipica dell'attuale specie umana, presenta una singolare caratteristica: essa è al tempo stesso contingente e assoluta. È contingente perché tale è stato il sorgere di strutture fisiche (cerebrali) che la rendono materialmente possibile. Non è invece contingente perché il suo esercizio non deriva dal divenire casuale del cosmo, ma da criteri valutativi non riducibili a eventi cosmici. Informa molto approssimativa si potrebbe dire che la specie umana introduce un elemento extracosmico nel divenire del cosmo.
Qui è da vedere, io credo, il mistero del Verbo fatto carne: in Gesù Cristo noi vediamo con assoluta chiarezza un essere pienamente umano in tutte le sue strutture fisiche (Giovanni insiste su questo, usando il termine sarx) che è capace di esprimere perfettamente l'Assoluto: egli è l'immagine perfetta del Padre. Tutta la vita del Signore - parole, opere, atteggiamenti - è veramente rivelazione sopranaturale: eppure si tratta sempre di gesti e parole e scelte umane.
Qui è anche da vedere, io credo, nella contingenza del divenire cosmico l'ingresso dell'Assoluto e di un Assoluto che si manifesta come puro dono - "così Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio" -: di qui è possibile leggere il significato supremo della Croce ("li amò fino alla fine", "il mio corpo che è per voi") e il significato paolino della kaine ktisis.
Qui è infine da vedere la radice ultima dell'ecologia e della bioetica, che vanno considerate un unico problema morale: il problema di come essere l'unica creatura (per ora nota) nel divenire dell'universo, capace in qualche modo di pilotare questo divenire, interpretando il disegno di un Assoluto che si è rivelato come puro amore. E qui si vede anche l'assurdità di una contrapposizione di principio fra fede e scienza, fra bioetica cristiana (cattolica) e bioetica laica. La fede, per meglio comprendere la "revelata Veritas" (Gaudium et spes n. 44), ha bisogno della scienza: ogni passo avanti nella lettura del creato può costituire un passo avanti nella comprensione (mai esaustiva) del Creatore e del suo progetto o chiamata per noi. Penso che la mia breve esposizione abbia illustrato questo mio assunto. Ma anche la scienza non può divenire bioetica (o ecologia) senza introdurre nella sua argomentazione un elemento extrascientifico, e cioè un qualche criterio ultimo di valutazione. Dall'interno della ricerca scientifica non può nascere tale criterio. Può nascere un criterio utilitaristico, nel senso che è possibile prevedere la conseguenza (ciò che faccio succedere nel cosmo) di una scelta rispetto a un'altra, e scegliere una fra diverse possibilità. Ma pérché scelgo una possibilità piuttosto che un'altra? A questa domanda non vi è risposta - io credo - che possa provenire dall'interno del sapere scientifico (un sapere del contingente), a meno di cadere in un determinismo totale (come in alcuni casi di sociobiologia) e di rinunciare all'etica, e quindi alla stessa riflessione bioetica.
Il fondamento della bioetica: dal rispetto della persona alla capacità di amare
In realtà, limitandoci in questa sede agli interventi coinvolgenti esseri umani (che sono quelli a cui si riferisce comunemente il termine bioetica), il posto che l'altro - chiunque sia - occupa nel mio progetto di vita, nel significato che io assumo per la mia esistenza, è sempre dominante in tutto l'arco di un'esistenza umana. E in ogni essere umano vi è la capacità di amare: questo strano elemento tipico della specie umana noi crediamo essere l'immagine di Dio. Ma anche il non credente sente in sé questa capacità, e la sente come valore, come criterio ultimo, non deducibile dalla scienza ma egualmente certo e chiamante. Vi sono esseri umani - dice la Gaudium et spes al n. 92 - che hanno il culto degli alti valori (bona) presenti nel cuore dell'uomo, anche se non ne conoscono l'Autore. Io direi che senza un'attenzione all'altro non vi è etica: tale attenzione potrà esser vissuta come rispetto, cura delle necessità e delle sofferenze, dedizione totale, ma sarà sempre un atteggiamento di amore. Io suggerirei di spostare il fondamento della bioetica dall'astratto rispetto della dignità della persona alla concreta capacità di amare. Ma questo suggerimento richiederebbe ulteriori sviluppi.
Al primato dell'altro nelle mie scelte deve però aggiungersi anche l'importanza della corporeità propria, ma per un motivo diverso. La corporeità è il mio modo di essere ed agire nella contingenza del divenire introducendovi un elemento non contingente. È questo un compito che domina tutta l'esistenza umana, è la ragione del nostro essere nell'universo. Si noti però che la diversità del motivo può condurre a conseguenze etico-normative diverse (una diversità già da me discussa, fin dal 1975, in Morale della vita fisica), appunto perché il mio essere nel mondo è per gli altri, e per gli altri potrò e talora dovrò spendere la mia stessa integrità fisica, mentre la proposizione reciproca non è valida.
Una conclusione, per la bioetica, in una duplice direzione
A conclusione di questi brevi cenni vorrei sottolineare due cose. Nella discussione bioetica o vi è un valore comune - l'altro da amare - o non vi è alcuna discussione propriamente etica. Partendo da qui, si pone una serie sterminata di problemi sia di finalità da perseguire in concreto, sia di mezzi disponibili ma non sempre coerenti col fine (non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente accettabile), sia infine - problema quasi sempre dimenticato - il problema dell'allocazione delle risorse disponibili alla famiglia umana e non solo a un gruppo o a un'area di privilegiati. Per il primo caso (i fini) si pensi, per es., a che cosa può voler dire aiutare l'altro: vi è spesso un contrasto fra ciò che io ritengo valere in assoluto come vita buona e ciò che l'altro nella sua specificità e nella sua identità culturale ritiene. Per il secondo caso (i mezzi) si pensi ai costi, in termini di vita fisica di un terzo vivente, che il soddisfacimento delle esigenze di un essere umano può comportare: è il problema più discusso (aborto, distruzione di embrioni, trapianti da vivente, ma anche ricerche ad alto rischio per un singolo o per la famiglia umana). Per il terzo caso (allocazione di risorse disponibili) si pensi a due scenari diversi. Primo scenario: l'allocazione di risorse già disponibili, che costituisce un dramma indicibile per la grande maggioranza della famiglia umana che vive in aree povere, ma anche per chi e povero in aree ricche ove non vi sia un servizio sanitario nazionale e le medicine e le terapie debbano essere pagate. Secondo scenario: l’allocazione di risorse nella ricerca medico-scientìfica che è quasi totalmente in mani private miranti alla massimizzazione del profitto e difficilmente si vede come possa essere indirizzata alla ricerca sulle malattie dei poveri (tbc, malaria) o alla produzione di farmaci a basso costo che permetta ai poveri di accedere alla terapia (Aids). Tutta questa serie di problemi spesso non ha soluzioni univoche e incontestabili. Anche il grande impegno della Chiesa cattolica a difesa della vita deve di necessità calarsi nel concreto di possibilità e di priorità che generano spesso divergenze e contrasti fra gli studiosi.
La seconda cosa da considerare è che la bioetica, come ho già ricordato all'inizio, è nata da una accelerazione e una trasformazione profonda della ricerca - e quindi delle possibilità umane di interventi mirati - solo a partire dalla seconda metà del secolo XX. Per la maggior parte delle questioni non vi è una tradizione consolidata, né per contro vi è una conoscenza esatta delle conseguenze che nuove forme di intervento possono produrre a medio e lungo termine. E, al tempo stesso, molti studi e molte possibilità di applicazione sono ancora immaturi o riguardano un futuro in gran parte imprevedibile. Questo non è il tempo di decisioni etiche drastiche o di contrapposizioni frontali: è invece il tempo della pazienza nella ricerca comune, nella cautela nel formulare norme con pretesa di validità assoluta. Sempre che - ben inteso - un sincero e direi appassionato amore per gli esseri umani e la famiglia umana sia fondamento per la comune ricerca.
Enrico Chiavacci
(da Rivista di Teologia Morale, 129, gennaio-marzo 2001)