«Noi conosciamo Dio solamente attraverso Gesù Cristo. Ma non solo. Non conosciamo neppure noi stessi se non attraverso Gesù Cristo. Al di fuori di Gesù Cristo non sappiamo che cosa sia la nostra vita né la nostra morte, né che cosa sia Dio, né che cosa siamo noi stessi» (Pascal, Pensieri).
Questo programma così ardito, finora non si è affatto realizzato. Invece di pensare tutte le cose a partire da Gesù Cristo, noi continuiamo a pensare addirittura lo stesso Cristo partendo dalle nostre idee: quelle su Dio e sull’uomo, sulla vita e sulla morte. Ma come si può pensare la morte?
L’atto stesso del morire non è rappresentabile. Per me esso non è e non sarà altro che un avvenimento, non diversamente dalla mia nascita. Tuttavia è il solo avvenimento futuro del quale io sono assolutamente certo. Io morirò; questo lo so bene. Ma quel che si diventa dopo la morte, io e chiunque altro possiamo solo cercare di immaginarlo. Ricerca appassionata, ricerca ansiosa: sappiamo che l’ora della nostra morte si avvicina inesorabilmente, e non vogliamo ammettere, non accettiamo che essa segni per sempre la nostra fine.
Rassegnarsi alla morte sarebbe rassegnarsi alla vita: ma a una vita intesa come strada che non porta da nessuna parte. Ecco perché, da quando ci sono uomini, si è sempre tentato di decifrare l’enigma, di esorcizzare il grande terrore.
Ai giorni nostri il disagio è peggiorato. Eppure si è fatto di tutto per camuffare e mimetizzare la morte. Ancora non molto tempo fa la morte da noi si presentava in piena luce, come evento quasi “addomesticato”, dolorosamente familiare; e tutti potevano sentire come essa interpellava la vita. Oggi invece la morte è muta. La si nasconde. I nostri morti si fanno discreti, come timidi: basta vedere che cosa sono diventati i funerali nelle grandi città. Non si tollera più che la separazione definitiva lasci tracce troppo vistose. Niente più riti di lutto, e via il colore nero, anche dai moderni carri funebri. All’incombenza del lutto ciascuno si dedichi in disparte, per conto suo. E questo avviene senza dubbio perché l’angoscia che essa suscita è diventata ancora più acuta e inquietante.
Ecco allora gli sforzi per arrotondarne gli spigoli, per cancellare la sua asprezza. Ed ecco proporsi credenze rassicuranti, tutte protese a spogliarla del suo carattere definitivo. Non si vuole più che la morte continui a essere quell’evento che fa di ciascuna esistenza umana un destino irrevocabile.
Nel vasto supermercato di queste credenze tiene il primo posto l’idea di reincarnazione. Piace a molti. Reincarnazione... trasmigrazione delle anime.. esistenze plurime, i nomi sono tanti. E differenti sono le fonti ispiratrici, tra cui primeggia l’Oriente, dal quale si prende a prestito l’idea del karmzan, ossia di una retribuzione a lunga scadenza: in una futura nuova esistenza sconteremo le conseguenze (dharma) di una vita disordinata, oppure raccoglieremo i frutti (adharma) di un comportamento virtuoso ma, in definitiva, sfortunato.
Ma chi si appropria di queste credenze dimentica che per l’induismo la reincarnazione non è affatto una prospettiva allegra. Al contrario, essa è una disgrazia, poiché la salvezza può venire solamente con la liberazione da questa necessità di rinascere incessantemente: più presto avremo estinto il debito che sappiamo di dover pagare, meglio sarà. Anche per il buddhismo la reincarnazione è «sia la vera espressione del dolore sia l’occasione del suo superamento»: il Buddha, infatti, è considerato un essere perfetto che, con una continua ascesa, dopo molte reincarnazioni. ha potuto infine accedere al nirvana, cioè al “bene supremo dell’uomo”.
Vi sono poi altri, estranei alla saggezza dell’India: questi si sono accostati alle correnti esoteriche operanti in Europa, che divulgano la credenza solo agli iniziati. Altri ancora, dopo le ricerche del dottor John Stevenson (1966) o gli esperimenti del dottor Noworocki (1980) vanno alla ricerca di prove scientifiche della reincarnazione. Perlomeno essi ritengono che «gli indizi raccolti in suo favore le conferiscono un fondamento fatturale». (M.P. Stanley, Christianisme et Réincarnation, vers la réconciliation. L’or du Temps 1989).
Ci troviamo insomma di fronte a una credenza dai contorni sfumati. Agli occhi di molti essa è conciliabile con la fede cristiana. E permetterebbe inoltre di superare varie difficoltà nell’insegnamento dottrinale e morale della Chiesa; sicché uno dei compiti più urgenti per la Chiesa, secondo loro, sarebbe quello di “ricristianizzare la trasmigrazione”. Mettono dunque la Chiesa direttamente in causa, riempiendo in certo senso un vuoto, un silenzio: alcuni, in effetti, rimproverano la teologia e la pastorale di aver accantonato e quasi fatto sparire i problemi relativi ai fini ultimi. In passato la Chiesa aveva un suo discorso coerentemente scandito circa l’anima, il purgatorio, il giudizio, il cielo e l’inferno. Ma per farsi oggi perdonare quella che a volte fu una pastorale del terrore, dicono alcuni, ecco che la Chiesa ormai tace. Non parla nemmeno più delle anime. E i reincarnazionisti pretendono di essere loro a riabilitare l’anima, di fronte al materialismo diffuso. Vero è, tuttavia, che essi associano molto frequentemente l’anima al corpo sottile, astrale, ereditato dalla tradizione gnostica, necessario veicolo strutturale tra le reincarnazioni.
I silenzi della Chiesa, in realtà, non hanno molto a che fare con questo fascino della reincarnazione. Il fatto è che la morte non risveglia soltanto curiosità inquieta in noi. La morte spinge alla rivolta. No, è impossibile, è ingiusto che tutto si decida in una sola volta. Non ci si può contentare di questa singola esistenza fallita, meschina e miserabile. Abbiamo il diritto di tentare un’altra volta, dobbiamo avere un’altra opportunità. Tutto deve poter sempre ricominciare. Torniamo al punto di partenza. Ricominciamo, ma in altro modo. Però in quel caso, secondo alcuni, bisognerà pagare il prezzo delle mancanze e degli errori. E’ la legge del Karman.
Per altri reincarnazionisti, invece, si tratta di un lungo noviziato della libertà, per il quale un’esistenza sola non basta. Allora, il progresso che non ci è riuscito ieri, lo faremo domani. Dopotutto, già oggi non c’è più nulla che si decida una volta per tutte. Secondo la maggior parte dei nostri contemporanei, la vita non è più un tranquillo fluire sotto il segno della fedeltà a un impegno irrimediabile. Il nostro tempo è disseminato di rotture.
E, allora, dicono alcuni, perché la morte non potrebbe essere un’altra rottura, una delle tante? E, secondo loro, non si morirebbe propriamente, piuttosto si rinascerebbe altrove, in altra condizione. E così, per tappe, attraverso una molteplicità di scali, si raggiungerebbe infine il porto.
Ma quale porto? I reincarnazionisti cristiani parlano a questo punto della salvezza. Altri vedono aprirsi uno spazio indefinito nel quale sarà possibile «progredire sempre» (Allan Kardec). O perlomeno si avrà la possibilità di far meglio della prima volta. La morte, così, non è più il sigillo che conferisce a un’esistenza unica la sua fisionomia per l’eternità.
Questa credenza diffusa, e anche confusa, oggi va molto di moda. E non possiamo sbarazzarcene con un’alzata di spalle. Il metodo del disprezzo è malsano. Certo, si possono rilevare non poche incoerenze tra coloro che la espongono, e si prova fastidio per quel neo-concordismo che rivelano i loro testi (per esempio, tra i corpi sottili e la fisica dei quarti). La reincarnazione è una risposta consolante, seducente. Suscita in molti una speranza rispettabile. E d’altra parte queste idee nuove hanno contribuito a stimolare ricerche ed esperienze sulle frontiere della morte.
E’ necessario tuttavia respingere ogni tentativo di avvicinamento alla fede cristiana. L’incompatibilità è radicale. Questo è uno scontro tra due sistemi inconciliabili di pensiero. Sulla concezione della storia, innanzitutto: da un lato una legge del provvisorio, dall’altro quella del definitivo. Poi, due modi di concepire la libertà dell’uomo: per gli uni, la storia è ciclica - nel loro orizzonte è percepibile il segno del mito dell’eterno ritorno -, per i cristiani la storia è invece lineare, attratta e come aspirata verso il suo compimento nel Regno. Gli uni parlano di riprendere o di ricominciare, gli altri aspettano una pienezza che deve ancora venire. I cicli di rinascita o reincarnazione sono indefiniti, mentre le nostre vite, al contrario, vanno verso un termine, che per tutti e per ciascuno è un compimento; non già un’ultima tappa, bensì una realizzazione totale.
Questo avviene per grazia, per dono gratuito di Dio. E su questo preciso punto non è possibile alcuna conciliazione tra fede cristiana e reincarnazione. Il cristianesimo proclama la buona notizia della risurrezione: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà», dice il vecchio Credo niceno-costantinopolitano. Ma aspetto tutto ciò come la manifestazione dell’amore gratuito di Dio. San Paolo ci ha invitati a riconoscere questo amore all’opera, nella creazione come nella risurrezione, parlando di Dio che «dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Romani 4,17). In un caso e nell’altro, gratuità assoluta. E’ esclusivamente l’opera del solo amore di Dio.
Qui sta il punto essenziale del dissenso. Per i reincarnazionisti, la sopravvivenza è un «processo spontaneo e naturale» (M.P. Stanley, op.cit. p. 97). Insomma, è una legge di natura, sicché la condizione umana porterebbe in se stessa la garanzia d’immortalità. Dunque, niente più paura della morte, perché non si morirà per davvero: si rivivrà in esistenze successive con possibilità di correggere gli errori di questa vita, e di raggiungere per una lunga strada la salvezza.
«A questo punto c’è ancora bisogno di un Salvatore?», dicono i reincarnazionisti, la morte, infatti, non ci spaventa più, perché noi sappiamo… E in questo modo i sostenitori della reincarnazione raggiungono i compatti battaglioni degli gnostici di ogni tempo, con la loro bandiera: la salvezza risiede nella conoscenza ed è promessa agli iniziati; essi sanno: dunque non hanno più bisogno di credere.
E’ un punto cruciale, questo, poiché le credenze non sono la fede. Anzi: possono dispensare dal credere, o impedire di credere. La fede non consiste in una collezione di verità che noi dovremmo accettare. Certo, essa si esprime in ripetuti atti del credere. “Noi crediamo che la lista è lunga, e nel Credo cristiano figura anche la speranza nella risurrezione. Tuttavia queste verità che noi professiamo non sono altro che l’espressione della fede primaria. Credere è credere in qualcuno: nel Padre nel Figlio, nello Spirito.
Una formula audace
Credere in, come dice il latino dei cristiani. E’ una formula audace, ignorata nel greco e nel latino precristiani. Credere in non esprime un “sapere”, né una semplice “fiducia” accordata alla parola di un altro. Esprime un movimento, un uscire da se stessi, una adesione a qualcuno-altro, con lo spirito e col cuore. Si va verso di lui, si aderisce a lui e in qualche modo si viene integrati in lui. Ecco: la fede è questo atto, questo trasferire integralmente noi stessi. Il cristiano crede in Gesù Cristo. Crede in Gesù Cristo resuscitato. E proprio perché crede in Gesù Cristo resuscitato, può permettersi di dire che crede alla risurrezione. Questo credere ha senso solo a partire dalla Fede.
Ma che cosa significa allora la risurrezione di Gesù per lui e per noi? Giacché, come diceva Pascal, è a partire da Gesù Cristo che possono prendere senso «e la nostra vita e la nostra morte”.
Morte e risurrezione di Gesù sono innanzitutto rivelazione di Dio: «Noi non conosciamo Dio che attraverso Gesù Cristo». Egli è come l’interlocutore del Padre, impegnato con lui in un dialogo e in uno scambio di amore. Gesù si affida e si consegna al Padre. Il Vangelo di Giovanni riferisce questa sua parola che esprime il senso di tutta la Passione: «Tutte le cose mie sono tue» (17,10). Tutto ciò che io sono passa in te. La Passione è questo abbandono di amore fiducioso. Ma Giovanni riferisce anche il seguito di quella parola: «...e tutte le cose tue sono mie». Il Padre non si accontenta di accogliere il Cristo nella sua gloria: gli dona il nome che sta sopra ogni altro nome. Si spoglia di questo nome e di questa gloria per donarli a chi ha voluto essere soltanto il servitore umiliato. La Trinità non è unita da qualche necessità di natura. Essa non è che amore gratuito. E in essa lo Spirito è questo legame d’amore. La morte e la risurrezione di Gesù sono il culmine insuperabile della rivelazione di Dio medesimo. Ma sono anche la rivelazione dell’uomo e danno senso alla sua vita e alla sua morte giacché si tratta veramente di un’avventura d’uomo: dell’uomo Gesù, che Paolo scrivendo ai Colossesi chiamerà «il primogenito di tutte le creature» e «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti». Gesù ha preso su di sé la condizione umana integralmente, senza inganni, respingendo qualsiasi trattamento speciale.
E tuttavia possiamo immaginarci la sua tentazione suprema. Nel deserto il tentatore gli aveva detto: «Se tu sei Figlio di Dio...». Nel Gethsemani, e anche prima, nella calma del Cenacolo, non è forse tornato il tentatore per proporgli di esigere un trattamento privilegiato? Se tu sei Figlio di Dio, strappati alla condizione comune, sfuggi alla morte. Ma la morte, al contrario, egli ha osato guardarla in faccia, senza che alcuna rassicurante credenza si facesse avanti per renderla meno orribile. Gesù è morto nella fede totale. E in questo la sua morte è stata unica, eccezionale, poiché quanto al resto molti hanno subito come lui una morte violenta, dolorosa, vergognosa. Ma nessun altro è morto come lui in un atto di Fiducia amorosa verso suo Padre, un Padre dal quale non può esigere nulla né far valere alcun diritto. Eppure nemmeno in questo istante egli rinuncia all’amore fiducioso che lo tiene rivolto verso il Padre. Il suo alto grido finale dalla croce ne è l’ultima espressione, quel grido che riassume e completa tutti gli altri, echeggianti da un salmo all’altro. E il centurione romano non si è ingannato. Lui che ne ha visti morire tanti altri, protesi a trattenere disperatamente il loro ultimo sospiro, vede invece Gesù «rendere lo spirito» liberamente, come dice il Vangelo di Giovanni, mentre Matteo e Marco registrano la sua esclamazione: «Davvero costui era Figlio di Dio». Allora, nella sua stessa morte, il Padre viene a lui, prendendo nella sua gloria l’uomo Gesù. Va a cercarlo negli abissi dell’uomo, in quegli inferni di solitudine e di abbandono in cui si rivela senza maschera il volto autentico della morte. Noi diciamo che il Padre ha resuscitato Gesù. Certo, l’ha resuscitato, ma non per concedergli poi una pallida sopravvivenza, bensì per assumerlo nella Vita, vita di Dio: e in tal modo Gesù prende posto nel cuore della vita trinitaria, senza disincarnarsi. Rimane eternamente segnato della prova della sua vita terrena. Rimane il crocifisso, con le piaghe sempre aperte.
Egli è venuto in mezzo a noi per prenderci con sé. Pilato ha avuto ragione quando lo presentava alla folla dicendo, confessando: «Ecco l’Uomo!». Ogni uomo, in effetti, è creato in lui e da lui. Ogni uomo è «associato al mistero pasquale» (Gaudium et spes). Ma pochi lo sanno, anche tra i cristiani, mentre ognuno potrebbe dire come Paolo: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Filippesi 1,21). L’ora della nostra morte, infatti, è quella in cui il Padre ci colloca accanto a suo Figlio, e nulla ce ne separerà mai più; per mezzo di lui, la morte è il passaggio che ci fa penetrare nella vita e nella luce di Dio: il Primogenito accoglie la moltitudine dei suoi fratelli. Dove egli è, noi saremo, con lui: segnati dalle prove della vita, ma anche radiosi di questo amore che si è faticosamente aperto un passaggio dentro di noi, a dispetto delle nostre resistenze, dei nostri rifiuti. All’istante del passaggio, il Fuoco dello Spirito Santo purificherà le scorie accumulate. E, così purificati, l’amore trionfante di Dio compirà l’opera della nostra liberazione.
Dunque, non c’è che da abbandonarsi a questo amore. Noi non dobbiamo più essere come «quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita» (Ebrei 2,15). Noi ci possiamo sottrarre al sortilegio della morte. Noi rifiuteremo di camuffare il suo orrore: essa rimane sempre l’ultima tappa del cammino che percorre ogni carne, e con essa finisce il regno della natura, legge della condizione umana. Ma nello stesso momento si apre con essa il tempo del mistero della grazia, dell’amore gratuito di Dio. «Noi crediamo, infatti», scrive san Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi, «che Gesù è morto e risuscitato: così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui» (4,14). Per coloro che credono in Gesù Cristo, questa risposta dell’apostolo, nell’anno 51, alle ansiose domande dei cristiani di Salonicco davanti allo “scandalo” della morte dei loro fratelli, conserva tutta la sua attualità.
Come resuscitano i morti?
I cristiani di Corinto si ponevano invece un’altra domanda: «Come resuscitano i morti?». E ce lo domandiamo anche noi: che cosa sarà la vita dopo la morte? Così posta, la domanda è priva di senso, perché allora non ci sarà più né spazio né tempo, e dunque non c’è posto per ipotesi e fantasie. In compenso, ci possiamo interrogare sul tipo di vita che a ciascuno sarà data nella morte medesima, nell’atto del morire. E su questo punto abbiamo un riferimento solo: la condizione di Gesù risorto, quando si manifesta ai suoi. Ad alcuni dei suoi. Intanto, questo resuscitato conserva l’identità del crocifisso. La sua umanità non è diluita né assorbita nella vita trinitaria. La sua storia non è cancellata, le sue relazioni precedenti non sono soppresse: basta vedere come sceglie coloro ai quali vuole mostrarsi. E così sarà per i suoi fratelli: ognuno di noi entrerà nella vita stessa di Dio con la sua personalità integra, segnata dalla sua storia personale. E la vita nel Signore non è una condizione statica, è un continuo succedersi di inizi, un continuo dare e ricevere. La vita in Dio è riposo, ma riposo basato sul perpetuo scambio.
Nasce però qualche domanda. Da dove viene all’uomo questa capacità di essere resuscitato per grazia? Difendendo la loro tesi, i reincarnazionisti partono di solito da una credenza ricevuta: la contrapposizione tra il corpo mortale e l’anima immortale. E d’altra parte molti cristiani si meravigliano e addirittura si scandalizzano a sentire che la credenza nell’immortalità dell’anima non proviene dalla rivelazione cristiana. C’è anzi una storia ben complessa degli sforzi compiuti dal pensiero cristiano per conciliare questa credenza, raccolta nella forma elaborata dal pensiero platonico, con l’affermazione biblica della risurrezione dei corpi. Un’affermazione che nega: nega cioè che l’io sia soltanto la nostra anima. E Tommaso d’Aquino ribadiva: «Anima mea non est ego».
Il discorso sull’anima immortale può essere rischioso quando porta a dire pressappoco: «Nell’ordine del diritto, ossia della natura, io sono fatto per non morire». In questo modo ci si spinge fuori dell’universo della grazia. Tuttavia un simile discorso attira la nostra attenzione su un punto capitale: la “capacità” dell’uomo di venir chiamato a risorgere. L’uomo è resuscitabile perché, dal momento della sua creazione, è designato, a somiglianza di Dio, a una vita oltre quella che noi comunemente chiamiamo “la vita”. L’uomo porta in sé questa apertura a una chiamata che lo fa rinascere. A volte può anche credersi travagliato dal desiderio di immortalità: in realtà egli sta già rispondendo sin d’ora a un appello. Creare, per Dio, è attirare a sé. O piuttosto: la creazione è l’attrazione congiunta del Padre, che ci «attira» a suo Figlio (Giovanni 6,44) e del Cristo resuscitato il quale è l’umanità finalmente integrale «che attira tutti a sé» (Giovanni 12,32). Se infatti noi siamo stati creati a somiglianza di Dio, la sua immagine è Gesù Cristo, morto e resuscitato.
Non facciamoci dunque ingannare dalle parole. Parliamo pure dell’anima per indicare l’interiore mistero di questo desiderio di Dio suscitato in noi da Dio stesso; ma evitiamo che quest’anima vaghi fuori dalla nostra corporeità. A questo “io” incorporato, che avrebbe come unico sbocco possibile la morte, la risurrezione di Gesù promette la salvezza. E può riceverla non come destino prestabilito, ma sempre come dono gratuito.
Il mistero pasquale si è così compiuto «una volta per tutte». «Né la morte né la vita…. potranno mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore», scrive san Paolo ai Romani. E non dovrebbe bastare a immunizzarli contro la seduzione di credenze in apparenza rassicuranti, ma vaghe? E’ vero che noi ben difficilmente amiamo affidarci alla grazia. Ma la celebrità della reincarnazione è il segno di una sbandata: alla salvezza per fede si preferisce una eventuale salvezza mediante le opere, le opere proprie. Ecco la sbandata: attribuire la salvezza unicamente a se stessi. E’ una tentazione di sempre.
Joseph Thomas (teologo)