Formazione Religiosa

Mercoledì, 22 Marzo 2006 01:16

8. La nobile semplicità e la partecipazione attiva (Gianni Cavagnoli)

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La formulazione di SC 34 rappresenta davvero un piccolo gioiello, in quanto evidenzia come si possono affermare solidi principi in maniera chiara e con sobrietà di dettato:

I riti splendano per nobile semplicità; siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni, siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni.

Il retaggio storico, quando questo testo veniva coniato, è noto a tutti. Che dire, per esempio, dei riti pontificali che brillavano per la loro complessità, così come la Messa stessa, con tanto di canonici ministerialmente (si fa per dire) differenziati, le ordinazioni, la dedicazione della chiesa ecc.? Per fortuna c'era il 'mago' della situazione, il cerimoniere, che, quale abile suggeritore verbale e mimico, indirizzava il presbitero o il vescovo nel loro agire liturgico.

1. Lo splendore della nobile semplicità

In simile contesto, si comprende appieno l'opera riformatrice del Vaticano II, volta alla semplificazione della ritualità. Si era raggiunta questa ampollosità a causa di svariate motivazioni storiche, in genere riconducibili all'allegoria e ad altre tendenze similari (1). Del resto, questa esigenza di semplicità non è affatto nuova nella storia, se si pensa che, prima di Trento, i francescani operarono il passaggio dal Sacramentario al Messale proprio allo scopo di semplificare una ritualità che era ritenuta, per la sua onerosità, un ostacolo all'evangelizzazione itinerante (2).

La specificazione nobile, relativa alla semplicità, contenuta in SC 34, aggiunge un'ulteriore caratterizzazione del rito, che non permette ad esso di sconfinare nella frettolosità e nella sciatteria. Costituendo la silloge di una pluriformità di codici, la qualifica della nobiltà intende evidenziare come il rito, in quanto appartenente al piano simbolico, manifesta il sacro, che

irrompe nella vita ordinaria come una realtà assolutamente intangibile e incontrollabile, appare all'uomo, ma non può essere veramente visto dall'uomo; il suo apparire è sempre anche un nascondersi nella parola, nel fenomeno o nell'evento che sceglie per la sua manifestazione, è sempre nel rimando simbolico di quella parola, fenomeno o evento (3).

2. La chiarezza della brevità

La nobiltà esprime il senso del rispetto dell'uomo nei confronti del divino, che si disvela nell'esperienza rituale. Quando questa è, invece, nell'ordine della sciatteria o della pomposità esteriore, non viene colta nella sua essenzialità, che è appunto il rimando all’Altro. Per questo, precisa sempre SC 34, «i riti siano chiari per brevità ed evitino inutili ripetizioni». Se, da una parte, «il rito esprime, a livello fenomenologico, una logica dell'attesa, dell'indugiare, del "lasciar essere gli esseri", in quanto concede una dilazione al mondo, trattenendo il tempo» (4), dall'altra, però, l'uomo vive e gestisce il proprio tempo, che è sempre limitato, e non gli è permesso quindi di abusarne.

La brevità, che nelle orazioni latine era garantita dal cursus e dalla concinnitas o armonia del periodo (5), esprime un'altra caratteristica essenziale della simbolicità. Se quest'ultima, infatti, è un 'mettere insieme', allora l'esperienza liturgica deve possedere i connotati della concentrazione, cioè dell'intensità dell'esperienza, e perciò del gusto, del pathos, senza lungaggini e inutili stiracchiature. Invece

quando un rito ci appare noioso, pesante, probabilmente ci troviamo di fronte a una cerimonia, in cui si ripete l'identico, dove so già tutto e mi appresto a ridire quello che so già nella forma rituale del culto. La celebrazione, al contrario, ripete la differenza come movimento del soggetto verso la sorpresa. Non so ancora tutto; non saprò mai tutto. Non posseggo neppure i linguaggi per sapere le cose più importanti, più profonde. Ed ecco che il rito mi parla una lingua nuova, un linguaggio diverso, con cui scoprire cose nuove e dimensioni diverse dell'esistenza. [...] Il tempo del rito e della festa appartiene all'ordine del piacere; esso, infatti, abbandona il tempo reale (quotidiano), e, soprattutto, ci fa fare silenzio per poterci parlare di una 'realtà' che non sappiamo esprimere (6).

3. L’adattamento per la partecipazione attiva

Incalza ancora il medesimo numero della Sacrosanctum concilium: «I riti siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni». La motivazione di questo adattamento che, in simile contesto, dovrebbe essere continuativo, in quanto le assemblee sono variegate, è quella di entrare nella capacità di comprensione dei fedeli. Questa, a sua volta, smuove la partecipazione attiva, che è primariamente la risposta concreta, posta in atto (= attiva) nella celebrazione, al mistero celebrato, perché coloro che lo condividono lo facciano proprio, ne abbiano parte (= partecipazione).

Riferita concretamente all'eucaristia, l'affermazione sottende che i fedeli 'comprendano' il contenuto dell'evento celebrato, lo condividano nelle sue due esperienze fondamentali, condensate nell'attuale struttura rituale (ascolto della Parola e rendimento di grazie: cfr. SC 56) e lo assimilino mediante la comunione. Infatti «la partecipazione più perfetta alla Messa è quella, per la quale i fedeli, dopo la comunione del sacerdote, ricevono il corpo del Signore dal medesimo sacrificio» (SC 55).

L'adattamento rituale mira proprio a far percepire e a suscitare convenientemente la comprensione dei fedeli, intesa non tanto in senso cognitivo, ma esperienziale; la partecipazione, sollecitata da una catechesi «per ritus et preces» (cioè attraverso la celebrazione stessa). La verbosità didattica, inframmezzata nella celebrazione, è allora fuori luogo, in quanto questa 'parla' da sé. Non per nulla la catechesi più profonda si traduce nella cosiddetta mistagogia, ossia in quella educazione globale che mira a far crescere nella comunione con Cristo, di cui la partecipazione alla mensa eucaristica è segno e pegno (7).

Il Tridentino, data l'incomprensibilità della ritualità e, soprattutto, della lingua latina, aveva prescritto ai pastori «di esporre frequentemente loro stessi, o di fare esporre da altri, qualche parte di ciò che si legge durante la Messa e, fra l'altro, di spiegare qualche aspetto del mistero di questo santissimo sacrificio» (8). Ora, tenuto conto della natura della liturgia come azione di tutto l'uomo (9), i pastori sono invitati a guidare (manu ducere) i fedeli

ad una piena comprensione di questo mistero di fede con una conveniente catechesi, che inizi dai misteri dell'anno liturgico e dai riti e dalle preghiere che ricorrono nella celebrazione, per renderne loro chiaro il senso, soprattutto quello della grande preghiera eucaristica, e condurli alla profonda comprensione del mistero che tali riti e preghiere significano e compiono (10).

La nobile semplicità dei riti favorirà appunto la pienezza di partecipazione dei credenti. Così già prospettava mirabilmente Leone Magno, in tempi assai remoti e per nulla inficiati dalle becere dispute, aizzate da un manipolo di polemizzatori ripiegati sul passato e avulsi, in genere, dalla verità dell'attuale contesto pastorale, i quali hanno alquanto avvelenato e frenato l'entusiasmo popolare, suscitato dalle prospettive di riforma del Vaticano II: «La nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo», scrive il grande papa, «non mira ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo e a farci rivestire in tutto, nel corpo e nello spirito, di colui nel quale siamo morti, siamo stati sepolti e siamo risuscitati» (11).

Gianni Cavagnoli

Note

1) Rimane da compiere uno studio approfondito e scientifico, che surclassi la mera emotività acritica di certe affermazioni scontate, sulla ritualità del Messale e del Pontificale tridentino dal versante della veridicità o meno della sua 'messa in atto' e della sua comprensione tra i fedeli, oltre che tra i presbiteri. Le minute indicazioni (o 'gride') dei cerimonieri risulterebbero assai utili allo scopo.

2) Cfr J. A. JUNGMANN, Missarum Sollemnia. Origini, liturgia, storia e teologia della Messa Romana, vol. I, Marietti, Torino 1963,87.

3) G. BONACCORSO, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia, EMP, Padova 2003,32.

4) A. N. TERRIN, Il rito come scansione del tempo. Per una teoria del rito come "indugio simbolico", in AA.VV., Liturgia delle Ore. Tempo e rito, C.L.V. - Edizioni Liturgiche, Roma 1994, 31.

5) Cfr. M. AUGÉ, Principi di interpretazione dei testi liturgici, in AA.VV. Anamnesis, I: La Liturgia, momento nella storia della salvezza, Marietti, Torino 1974,177.

6) BONACCORSO, Celebrare la salvezza, cit., 53.

7) «Questa educazione liturgica ed eucaristica non si può separare da quella generale, nel suo contenuto, umano e cristiano insieme; una formazione liturgica priva di questo fondamento presenterebbe anzi dei riflessi negativi» (CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO, Direttorio Pueros baptizatos per le Messe con la partecipazione di fanciulli [1 novembre 1973], n. 8, in EV IV/2625).

8) CONCILIO DI TRENTO, Sessione XXII, cap. 8, in ISTITUTO PER LE SCIENZE RELIGOSE (ed.), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, EDB, Bologna 1991,735.

9) Cfr il citato Direttorio, n. 33, in EV IV/2650.

10) CONGREGAZIONE DEI RITI, Istruzione Eucharisticum mysterium sul culto del mistero eucaristico (25 maggio 1967), n. 15, in EV II/1315.

11) LEONE MAGNO, Tractatus 63,7, in CCL 138A,388.

 

Letto 4547 volte Ultima modifica il Domenica, 13 Novembre 2011 11:20
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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