La penna che sa 3/3
La penna che sa 2/3
La penna che sa - Parte 1/3
Maschi e femmine dai 7 ai 20 anni
Premessa metodologica.Ogni lettura sulle differenze tra maschi e femmine può essere fatta in
chiave biologica, psicologica e sociale ma questa divisione è puramente
scientifica perché tutti gli aspetti delle differenze si integrano e
ciò appare il più delle volte di difficile interpretazione.
Una seconda premessa si basa sulla modalità di
osservazione che può essere qualitativa e quantitativa. Mentre alcune
differenze qualitative sono evidenti e si riportano essenzialmente sul
versante biologico (caratteri sessuali primari: sviluppo degli
attributi genitali, distribuzione dei peli, ecc.) le differenze sul
versante psicologico sono più frequentemente di ordine quantitativo e
quindi vanno lette più nel campo della possibilità che della certezza.
Per quest'ultimo aspetto può essere utile la parola dimensione che dà l'idea in termini di rappresentazione a differenza del termine categoriache al contrario ci porta all'idea di qualcosa che c'è o che non c'è.
Così mentre è chiaro, salvo patologia, che cosa è un maschio o una
femmina dal punto di vista fisico (categoria) altrettanto non lo è da
molti punti di vista psicologici (dimensione). Sulla dimensione di
femminilità o di mascolinità si sono appunto creati molti aspetti di
ordine culturale, pregiudizi, diverse opportunità ma anche attribuzione
di ruoli, funzioni e simboli.
In merito i lettori che desiderano approfondire
questi aspetti devono chiarirsi la dimensione della bisessualità per la
quale in ogni maschio c'è una componente femminile e viceversa, nella
femmina c'è una componente maschile; maschile e femminile sarebbero
aspetti di percentuali aumentati o diminuiti dalla cultura (e quindi
principalmente dall’educazione) su una componente genetica data
(categoria).
Per orientarsi sulla complessità dello sviluppo
dell'identità di genere vengono forniti nella tabella di seguito i dati
riguardanti le età corrispondenti, grosso modo, a quelle delle tre
branche; la colonna centrale indica l'aspetta evolutivo considerato
mentre nella colonna di destra e di sinistra vengono prospettale,
rispettivamente, le differenze tra maschi e femmine.
L'idea generale della tabella parte dalla concezione che maschi e femmine abbiano due costruttie cioè due modelli mentali diversi e che pare siano presenti
indipendentemente dalle culture (ad esempio quella occidentale e quella
orientale) anche se l'ambiente valorizza o sottostima i due modelli
secondo le varie fasi storiche come è a tutti noto. L'importanza dei
fattori di correzione è tale che un costrutto di genere può essere
radicalmente velato dalla funzione sviluppata: in altre parole a
livello psichico potrebbe succedere quanto accade nell'allenamento di
alcune parti del corpo in determinato sport in cui i muscoli allenati
sono più evidenti rispetto a quelli che non lo sono. Deve segnalarsi
che le differenze soprasegnalate derivano dalle ricerche effettuate con
test proiettivi che documentano cosa si muove nel mondo interno e che
ritengo, pertanto, più fedeli nella documentazione di un concetto così
intimo ed astratto ma anche ambivalente e pericoloso come quello di
identità. Per il suddetto motivo l'uomo ha inventato, in mancanza di
una sufficiente capacità del linguaggio, ordini simbolici specifici e
che C.G. Jung ha creativamente riunito nell'immagine di "anima" (per
gli uomini) e di "animus" (per le donne) quale ricerca laboriosa ma
fedele della parte mancante. Gli educatori, soprattutto se dotati
d'intelligenza e capacità di osservazione, hanno la fortuna di poter
osservare come queste immagini mentali e rappresentative del costrutto
di genere si originano, si sviluppano e si consolidano.
Maschi | Dimensioni evolutive | Femmine |
Costrutto | Per tutta la fascia d’età presa in considerazione (7-20 anni). | Costrutto relazionale: viene cioè riconosciuto al genere maggiore capacità di relazione. |
Commento e | Sette-otto anni: Interesse per il soprannaturale e il magico. Maggiore aggressività rispetto all’età precedente. | Maggiore attaccamento alle persone, maggiore capacità di generalizzazione. Maggiore aggressività ed espansività. |
Maggiori Maggiore adesione al pensiero comune. | Nove-dieci anni: Molto critico verso l’altro. Tendenzialmente superstizioso. | Maggiori preoccupazioni per i dettagli, maggiore impulsività; maggiore tendenza al pensiero superstizioso. |
Maggiori comportamenti non controllati, maggiore ansia | Undici anni: | Sono più mature e rivelano distacco dai dieci anni maggiore che nei maschi. Maggiore coinvolgimento nella relazione. |
Minore oppositività nei confronti dell’adulto | Dodici anni: aumento dell’entusiasmo e della disponibilità a nuove esperienze; emozioni forti ma incontrollate e amorfe. Intenso interesse per gli altri e grande interesse per il mangiare. Maggiore concretezza. | Ulteriore Maggiore esuberanza |
Maggiore evidenza dei dati di cui a destra. Presenza più evidente di conflitti (cioè di emozioni opposte). | Tredici anni: | Minore evidenza dei dati di cui a sinistra; maggiore evidenza dell’attitudine alla riflessione |
Maggiore espressione del pensiero teorico e astratto. Maggiore capacità critica verso gli altri | Quattordici anni: | Migliore espressione dell’esuberanza. |
Comparsa più | Quindici anni: situazione opposta all’età precedente; si traduce con una minore espressione intellettiva ed emotiva. | Minore espressione delle caratteristiche dell’età. |
Maggiore direzione e sicurezza del Sé | Sedici-diciotto anni: uscita dalla "crisi" dei quindici anni; emozioni più approfondite, pulsioni più forti. Il soggetto è più aperto e meno sfuggente; maggiore è l’adattamento | Maggiori fantasie ad occhi aperti come indizio di una capacità più plastica della rappresentazione delle relazioni. |
Minore evidenza del costrutto del Sé | 18 anni- prima fase dell’età adulta:i costrutti di personalità si sono stabilizzati; i cambiamenti sono al | Maggiormente evidente il costrutto relazionale. |
Fattori di correzione | ||
L’estroversione | Sono legati alla tipologia di personalità, allo sviluppo di alcune funzioni piuttosto che altre. | L’estroversione |
Salvatore Settineri
Professore associato di Psichiatria,
Dipartimento di Neuroscienze,
Università di Messina.
Da "Proposta educativa" 3/2003
Psicologia dello zerbino
Aspetti psicologici del simbolo
Riflessioni educative per educatori (scout)
All’inizio
del mese di dicembre ho acquistato due zerbini per l’uscio di casa mia
che ha due porte; i vecchi zerbini, logori dal tempo e dalla polvere
lavica che dall’autunno ultimo domina la Sicilia orientale sono andati
in pensione. La negoziante aveva gli ultimi due zerbini con una
simpaticissima forma, uno di chiocciola e l’altro di farfalla;
praticamente non sono stato io a scegliere loro, ma loro a scegliere me.
Durante le vacante i tanti amici che sono venuti a
trovarmi hanno visto i due zerbini e hanno rilevato sulla mia scelta
che poteva essere simbolica… può darsi! Oggi, finite le feste, mi
ritrovo con due kg in più e forse dovevo meglio leggere i due zerbini
il primo dei quali, in tempi non sospetti, mi raccomandava la leggerezza (la farfalla) e l'altro la lentezza nella degustazione (la chiocciola);
S. Basilio a cui si attribuisce la frase "il cibo che mangiamo in più è
quello che sottraiamo ai poveri" avrebbe avuto lo stesso effetto, ma
capirete che una farfalla ed una chiocciola sono meno austeri e
colpevolizzanti di S. Basilio.
Una farfalla vuol dire molte altre cose ancora (la
bellezza, i colori affascinanti, il bruco che si trasforma quale segno
di cambiamento, ecc.) ed altrettanto la lumaca (il rapporto con la
nostra casa, la pazienza, con la chiocciola la spirale segno del Sé,
ecc.).
I simboli, infatti, non hanno un
significato univoco, spesso non li scegliamo e li leggiamo, per lo più,
inconsapevolmente o inconsciamente analogamente ai sogni che sono
fatti, appunto, da simboli; eppure i simboli sono presenti accanto a noi dalla culla alla bara.
Un'educazione simbolica vuol dire accompagnare
all'osservazione di questa presenza, intima, spesso discreta, la cui
origine, sia dai primissimi anni di vita, ci accompagna come presenza
angelica che può diventare diabolica perché bene e male fanno parte del
mistero dell'uomo.
Se psicologia vuol dire attribuzione di
senso, la psiche contenuta nella mente è un'organizzazione simbolica,
un sistema di ricerca di significati; la ricerca di significati, come
ben indicano i sogni, può avere una vita autonoma rispetto alla
coscienza o meglio, essere indipendentemente da essa; tutto ciò, alla
faccia della vanagloria e della potenza dell'uomo, ci rende più piccini
e ci unisce non solo con culture, bellezze ed intelligenze diverse, ma
anche con nature diverse e chissà se anche gli animali hanno i loro
simboli nella misura in cui anch'essi sognano come i fisiologi hanno
dimostrato. Certo è che sogniamo animali e compriamo zerbini e quindi
da essi prendiamo e apprendiamo qualcosa.
Se lo scautismo ha tanti simboli
è perché un'educazione della personalità, così come la intende B.-P.,
non può prescindere dalle immagini interne o esterne che ci aiutano a
vivere ma anche a sopravvivere e dare al mattino quella luce di
significati che trasformano il risveglio, come ogni primavera, in una
nuova resurrezione: S. Francesco sapeva benissimo che il sole e la luna
non erano i figli di Pietro di Bernardone e di donna Pica ma li
chiamava fratello e sorella perché simbolicamente espressione di un
unico Padre ed allora il simbolo è ciò che ci unisce all'Altro e a noi
stessi.
I simboli ci uniscono all'altro (in ciò il
significato stretto della parola) perché senza l'Altro non possiamo
vivere: le nostre stesse emozioni sono per l'Altro che ricerchiamo
nella sessualità, nell'amicizia, nella comunità, nella carità,
nell'agape e per lutti questi abbiamo simboli della sessualità (leggi
Freud), dell'amicizia (leggi anche lo scautismo) e dell'agape (leggi
cristianesimo).
I simboli ci uniscono a noi stessinello sviluppo nelle grandi trasformazioni del nostro corpo (ad esempio
in pubertà ma anche in menopausa), delle nostre idee, della nostra
capacità di creare (che cos'è l'arte se non un processo simbolico?),
nell'ascendere (simboli del volo) e nel trascendere (simboli
religiosi).
La conoscenza simbolica non è un programma (e cioè
qualcosa che ha a che fare del tempo anche se ci sono simboli del
tempo) e neanche una progettazione (e cioè dei percorsi obbligati con
un lancio, una verifica, un prodotto) ma un'essenza sia nel senso
filosofico di esperienza (intuizione diretta dei contenuti emozionali)
che nel senso metaforico e cioè del cuore costituente, ad esempio, un
profumo. Perché simbolo è anche un profumo ed è noto, a parte per chi è
allergico, che l'incenso sale in cielo e si spande nello spazio quale
presenza di un contenuto mistico.
Dal punto di vista antropologico il simbolo
governa ed ordina sia direttamente sia indirettamente attraverso i suoi
derivati (bandiere, stemmi, emblemi, distintivi, ecc.); si tratta ai
pari del linguaggio, di una punteggiatura di ciu l’uomo necessita.Il simbolo, inteso come punteggiatura, apre (maiuscolo), chiude
(punto), pone delle pause (virgola), determina sistemi di periodo
(punto e virgola), dichiara (punto esclamativo), interroga (punto
interrogativo). Se l'interpunzione è il procedimento per il quale,
attraverso segni grafici appropriati, si mettono in rilievo gli
elementi costitutivi della frase, i simboli mettono in rilievo gli
elementi della nostra vita individuale e sociale ed è per questo che ne
siamo affascinati; allora un'educazione simbolica è psicologicamente
quella parte dell'educazione che entusiasma e che deve essere curata
affinché il sogno non sia trasformato in incubo. Esiste cioè la possibilità della degradazione simbolicae cioè quando il simbolo perde quella sua naturale potenza che può
essere di ordine sia quantitativo che qualitativo. Esempi di
degradazione simbolica quantitativa sono alcuni marchi che ve li
trovate impropriamente anche, caso limite, sulla carta igienica oppure,
in riferimento allo scautismo, un distintivo non proprio di una fase
(esempio un distintivo dei lupetti sulla camicia dei rover!). oppure un
fazzolettone trasformato in albero di Natale, l'ipertrofia e
l'ipotrofia liturgica (l'uso troppo poco o troppo abbondante di gesti
simbolici). Esempi di trasformazione qualitativa sono alcuni messaggi
pubblicitari a carattere ingannevole, i messaggi dei ciarlatani, gli
idoli, i cucù.
Tra gli strumenti che sviluppano sicuramente la capacità simbolica va ricordato il gioco il quale può essere fatto anchesenza intenzionalità educativa, alla faccia di chi usa e di chi abusa
della predetta parola; se è un bel gioco non solo dura poco, ma ognuno
trova per meccanismi associativi finalità più consone alla sue
attitudini e tendenze che non sono, necessariamente, le intenzioni
dell'educatore.
Come la madre non sceglie intenzionalmente
l'orsacchiotto di pezza a cui lo psicoanalista ha dato la funzione
addirittura di nascita di una parte dell’Io, l'educatore non sa, ma
sente il valore educativo del gioco. Sapere, sentire, percepire,
intuire, capire sono tutti verbi che hanno significato diverso:
l'approccio simbolico è allora una declinazione diversa che prima deve
essere intesa e poi essere proposta ed in questo senso non è detto che
il bambino, il ragazzo ed il giovane siano meno bravi dell'adulto che
ha molto da apprendere dalle proposte simboliche delle nuove
generazioni.
Lo sviluppo del senso critico e cioè
dell'osservazione simbolica che genera deduzione è uno dei doni che lo
scautismo ha fatto e fa ai suoi associati e al prossimo perché l'uomo
simbolicamente forte è fatto per servire.
Quando, allora, sull'uscio di casa pestate due zerbini pensateci un momento.
Salvatore Settineri
Professore associato di Psichiatria,
Dipartimento di Neuroscienze,
Università di Messina.
Da "Proposta educativa" 3/2003
Il ruolo dell’educatore oggi
Riflessione sui simboli per un ambiente scout
"Momo indietreggiò spaventata, ma poi rispose senza volerlo:
"Buongiorno, io mi chiamo Momo". Di nuovo lo bambola mosse le labbra e
disse: "Ti appartengo, perciò tutti ti invidiano". "Non creo che tu sia
mia" fece Momo. "Penso invece che ti abbiano persa qui". Prese la
bambola e la sollevò da terra. Allora le sue labbra si mossero ancora e
disse: "Voglio avere più cose". Ah si? Replicò Momo, pensosa. "Non so
se io ho delle cose che vanno bene per te... Ma aspetta un po', ti
faccio vedere la mia roba e tu mi dici quello che ti piace". Prese la
bambola e, con lei, passò attraverso il buco del muro fino alla sua
stanza. Da sotto il letto tirò fuori una cassetta contenente ogni
specie di tesori e li mise davanti alla bambola... Le mostrò una lieve
penna variegata di fringuello, una bella pietra venata di molti colori,
un bottone dorato, un frammento di vetro color del cielo. La bambola
taceva e Momo le diede una spintarella... "Ti appartengo, perciò tutti
ti invidiano". Disse la bambola ancora una volta".
M Ende, Momo
Momo è un personaggio veramente affascinante e credo
che rappresenti l'autenticità di chi sa cogliere nella quotidianità di
una vita frenetica e dominata dalla corsa contro il tempo ciò che
davvero conta. E ciò che davvero conta per lei non sono i simboli della
tecnologia sterile, rappresentati dalla bambola parlante, bensì dalle
piccole cose, da quelle piccole cose che assumono un significato simbolico ed emotivamente importante, proprio perché rappresentano la vita, quella realmente vissuta, agita, incarnata.
Cosa
ci sarà dietro a quella lieve penna variegata di fringuello? E cosa si
può leggere nella trasparenza di quel pezzo di vetro color del cielo o
ancora, cosa ci sarà scritto nelle venature del sasso che con tanto
slancio Momo offre alla sterile e asettica bambolina meccanica?
Ragioniamo allora per simboli: Momo e la bambolina
potrebbero essere le metafore dei nostri ragazzi, Momo simbolo di quei
ragazzi che hanno già colto la ricchezza dell'essenziale e
dell'importanza delle piccole cose, la bambolina simbolo di quei
ragazzi che si accontentano della superficialità delle cose; la città
dominata dagli uomini grigi in cui vive Momo potrebbe essere la
metafora della nostra società, dominata spesso dalla frivolezza delle
cose, ricca di simboli privi dì significato di valore.
Come fare allora a trasformare le bamboline in Momo?E come agire per far si che Momo continui ad essere Momo e non diventi
una bambolina? Ci vuole qualcuno che guidi, che educhi in questo
cammino!
Torniamo a noi e caliamoci nella nostra realtà:
credo che sia importante soffermarci un attimo a riflettere su quale
suolo l'educatore può giocare in questo nostro mondo dominato da
immagini simboliche, su quanto coraggio deve avere un educatore per
testimoniare un linguaggio simbolico, come quello dello scautismo,
anche alternativo a quello dominante. I nostri ragazzi vivono in mondo
fatto di simboli: dallo scooter alle veline, dal telefonino al dvd, dal
vangelo alla bandiera della pace, dal linguaggio musicale a quello
corporeo, tlutti simboli più o meno della stessa importanza o non
importanza, che fluttuano nel cuore e nella mente dei nostri cari
giovani. È la loro vita, e non c'è dubbio che, movendosi nel mondo dei
simboli, i giovani apprendono un percorso decisivo per inventare la
vita quotidiana. E proprio grazie alle esperienze agite che questi
simboli acquistano significato per i ragazzi, significati più o meno
intrisi di valori, significati più o meno determinanti per le loro
scelte.
Ma
riescono poi i ragazzi a discriminare questi simboli dai quali sono
investiti, riescono a scegliere, a discernere, fra i tanti, quali
vivere pienamente?
Certo vivono la loro vita quotidiana in tutta la sua
ricchezza e ciò è un forte impegno che permette loro di esprimersi in
azioni concrete. Infatti è nel quotidiano che si creano i simboli:
pensiamo a quanti oggetti sono diventati dei simboli solo perché sono
collegati ad un vissuto esperienziale particolare....
Quale allora il ruolo dell'educatore?
Credo che l'educatore prima di tutto
debba fare i conti con la complessità dei sistemi in cui ogni giorno
l'adolescente vive, da solo o in gruppo. Non è possibile educare al
discernimento se non si capisce tra quali cose chi è educato deve
discernere. Credo che l'educatore abbia il duplice e difficile ruolo di
attore e regista; da un lato deve mediare tra le tante proposte
valoriali e simboliche che la vita offre, dall'altro deve viverle in
prima persona, per testimoniare lui per primo le scelte valoriali
fatte.
Ed è nelle scelte che si
fanno quotidianamente che nascono i simboli, quei simboli che
acquistano significato, perché incarnano nella scelta stessa la
significatività dell'esperienza che rappresentano.
In questo difficile compito penso che i
simboli che il nostro metodo e la nostra vita associativa ci offre
siano di aiuto e di stimolo per i nostri ragazzi. Pensiamo all'uniforme:
quante volte vediamo i ragazzi vergognarsi nell'arrivare in uniforme
alla riunione settimanale di reparto, non è difficile assistere alla
scena di un esploratore che estrae dalla tasca della giacca il
fazzolettone e se lo infila sulla soglia della porta del cancello… ma
se noi riusciamo a far cogliere la significatività della nostra
uniforme, quanto orgoglio mostreranno poi i ragazzi nell'indossare un
abito che li fa sentire appartenenti ad un gruppo in cui hanno scelto
di vivere un'esperienza in cui credono: e sappiamo quanto è importante
per un ragazzo sentirsi parte di un gruppo. In fondo si tratta di
andare per strada vestiti come altri amici, ma non succede tutti i
giorni di avere gli stessi vestiti, della stessa marca, dello stesso
colore di quelli degli amici?...pensiamo a quanti ragazzi hanno le
scarpe Puma o Adidas dello stesso modello e dello stesso colore!
Pensiamo al Giglio: i nostri ragazzi sanno veramente il
significato che c'è dietro a questo simbolo? Il giglio indica la giusta
direzione e punta verso l'alto, mostrando la via per compiere il
proprio dovere di aiutare gli altri, il giglio ricorda la promessa, le
sue tre punte simboleggiano i tre punti della Promessa, beh, non sono
sciocchezze, queste, non dimentichiamolo! Pensiamo ancora all'urlo di squadriglia:
quanto entusiasmo ci mettono i ragazzi quando urlano! Si sentono
protagonisti, si sentono appartenenti alla squadriglia! Non è poco per
un ragazzo. Al capo il compito di trasportare questi valori simbolici
nella quotidianità, anche e soprattutto fuori dall'unità: non credo ci
sia una ricetta, c'è l'esperienza, la passione, la testimonianza, la volontà di farlo, il coraggio di giocarsi.
Una generazione che non ha più rotte, ma sprofonda nel presente
Eppure i giovani in carne ed ossa riservano pure sorprese, confortanti, per fortuna
Inchiesta Censis su panorama giovanile nei pressi dell’esperienza religiosa e non solo
Davvero non si sa più come fare a
riflettere sulla realtà giovanile. A tu per tu, si scoprono storie,
vicende, esperienze…che stupiscono in positivo ed in negativo. Sono
giovani in carne ed ossa, che non si possono scansare facilmente. Poi
però si deve fare i conti con gli osservatori che scrutano il
"fenomeno". In particolare con le inchieste, che tentano di fotografare
un mondo molto sfaccettato. Quello dei giovani appunto. Che presi
insieme e interrogati con calma, forniscono un quadro magari diverso,
almeno nelle linee generali. Anche se ci si deve ricordare che non
esistono i giovani in generale, ma volti concretissimi, unici,
irripetibili….In ogni modo bisogna riflettere, stando su entrambi i
binari. Allora si scopre che c’è un "ventre molle" nel panorama
giovanile che forse solo le inchieste possono portare alla ribalta. E
sì, perché lo fanno notizia i milioni alla GMG attorno al Papa in quel
di Tor Vergata per il Giubileo, le centinaia di migliaia ai "G8 alla
rovescia" di Torino proposto dal Sermig…magari riescono a imporsi
all’attenzione tra i girotondi, nei cortei sindacali, nelle
manifestazioni anti-qualcosa.
Poi però per sentire il polso delle nuove
generazioni ci si deve rifare ai sondaggi del Censis, come ultimo
illustrato e dibattuto a Roma, a metà novembre, al Convegno CEI su
"Parabole medianiche", anche per fronteggiare la portata mass-mediale
di messaggi, coinvolgimenti, modelli, idee…in cui si è tutti
avviluppati. L’identikit non è del tutto a sorpresa, ma con
qualche chiaro-scuro inedito. In particolare con una tendenza alla
deriva nell’area di Nord-Est dell’Italia (sempre molto lunga ed ora
anche molto larga), con qualche sussulto interessante nel nostro
Nord-Ovest, con taluni indicatori non deludenti al Sud. Giovani
schiacciati sul presente, un po’ senza memoria e senza radici, in
braccio al fluttuante mare delle emozioni e dei sentimenti, del piccolo
cabotaggio di soddisfazioni alla portata (quasi attorno al ricorrente
caminetto…), dell’appartenenza aggregativa (anche religiosa) che non
incide più di tanto. Giovani che non hanno rotte di grandi
progettualità, senza coinvolgimenti forti sulle frontiere sociali,
ideali (o ideologiche), globali o terzomondiali…Eppure sembra abbiano
nostalgia di qualche "supplemento d’anima". Infatti Siddharta, Cuore, Bibbia da
una parte, come testi che esercitano un discreto fascino per poco più
che la metà almeno delle nuove generazioni (il 44% ha un rapporto
assolutamente marginale con i libri), e Rita Levi Montalcini, Madre
Teresa di Calcutta, Karol Wojtyla dall’altra parte, come figure di
riferimento per una porzione comunque minoritaria sempre dei giovani
d’oggi. E poi enormi spazi vuoti o colmati un po’ a vanvera: un 70% di
ragazzi e ragazze (15-30 anni) che non sanno indicare un personaggio a
cui rifarsi per un progetto di vita; un tempo libero consumato in
larghissima misura a "stare con gli amici" (97,4%), a guardare TV
(93,5%), ad ascoltare musica (91,9%), a stare al telefono (87,1%), a
fare gite (89%), a fare shopping (86,4%). Ma anche un rilievo
fortissimo assegnato ai sentimenti, alle emozioni, alla tensione
romantica (con definizioni ideali sull’amore, sull’amicizia, sulla
fedeltà, sulla sincerità miscelate a sensi di paura, di ansia, di
inquietudine rispetto alla malattia, alla morte, al dolore, ove è
evidente che mette angoscia più la possibilità di ammalarsi che
l’eventualità di un conflitto armato).
Insomma un profilo generazionale tutto da vagliare,
quello che è emerso dall’inchiesta (su una campione di mille giovani),
che Elisa Manna del Censis ha presentato parlando di una generazione
"senza padri né maestri", con i ponti tagliati rispetto al passato e
con una polverizzazione di interessi e di rotte in vista del domani.
"Si va avanti nella vita, ma non si conosce la direzione", ha aggiunto
Giuseppe De Rita. E si è evocata la figura di Enea che attraversa il
Mediterraneo con il padre Anchise sulle spalle ed il figlio Astianatte
in braccio, memoria e futuro da ricomporre, insomma. Mentre prevale il
presente rimescolato in mille flussi, assorbito in dosi massicce ed
esclusive. Francesco Casetti, pro-redattore dell’Università Cattolica,
ha rilanciato invece il volto di Abramo che ha la memoria dentro di sé
ma è capace di fare uno straordinario "trekking" nell’attraversare i
deserti, proiettato su un domani che è il suo obiettivo prioritario,
una buona dose di rischio di avventura.
UNA DOMANDA INEVITABILE
Che fare? A questo punto è la domanda
inevitabile. Con termini suggestivi ma anche raffinati è stata posta
l’alternativa: "Stare dentro questi flussi contraddittori" oppure
"tornare alle radici sul territorio"? Anzi, riferendosi al marcato
"deserto" del Nordest italiano (sotto media in tutti gli indicatori
dell’inchiesta, per avere appigli di speranza) Giuseppe De Rita ha
lanciato un allarme, anche per quella porzione di giovani che vivono
appartenenze religiose abbastanza forti, ma non sono in grado di dare
un profilo alla vita complessivamente. Cero, non tutto si gioca sui
mass-media. Ma c’è da riflettere senza scampo. Magari dando la parola
ai giovani stessi (che al Convegno non erano numerosi e non hanno
potuto comunque interloquire) e che potrebbero – traslando l’input del
sociologo Zigmunt Barman – diventare da "oggetti di studio" a
"protagonisti di riscatto". Mettendo in campo pure domande implicite o
provocatorie, che andrebbero approfondite guardandosi in faccia,
schiettamente. Personalmente, mi è capitato, la sera stessa a Roma dopo
aver ascoltato le cifre e le diagnosi dell’inchiesta Censis, di
incontrare, in pizzeria, tra amici di amici, una ragazza 21enne appena
rientrata da 36 giorni di percorso a piedi sul "Camino de Santiago", da
Roncisvalle in Galizia, protagonista di un’esperienza unica, da
segnalare in profondità.
Ecco, i giovani in carne ed ossa sono anche questi.
Don Corrado Avagnina
Pensavo fosse amore e invece era…
Alfabeto emotivo
...Invece chissà che cosa era
quella strana sensazione che mi aveva preso lo stomaco, come in una
morsa, che mi impediva di ingoiare anche il più piccolo boccone. Ad un
certo punto avevo pensato di stare poco bene. E così mi ero tenuto
"leggero", come mi aveva abituato la mamma quando da piccolo avevo mal
di pancia
Ma mi ero reso conto che quello non era un mal di pancia comune. Quella mattina non avevo preso freddo: nessun colpo d'aria.
Piuttosto un gran colpo... di fulmine. Erano due settimane che a scuola andavo molto volentieri: allora, la prima volta era bastato un cenno, una delicata carezza, quasi un buffetto, per farmi perdere la testa.
La sua presenza, ogni giorno, mi alleggeriva lo
sguardo, facendomi fissare il vuoto incantato. Ma se mancava
d'improvviso lo sentivo pesante tanto da non riuscire a staccare gli
occhi dal piatto.
Già chissà cos'era. Nessuno mi aveva insegnato a
capire queste strane sensazioni; nessuno mi aveva spiegato o
interrogato. In questo, come in tanto altro, mi ero fatto da solo,
scoprendo pian piano come ero fatto dentro, cercando di destreggiarmi
tra gli imperativi degli adulti: "devi voler bene a tuo cugino!";
"dovresti vergognarti!"; "non devi avere paura". Sembrava quasi che vi
fossero dei sentimenti obbligati. Addirittura le emozioni, le mie emozioni, erano imposte dagli altri, dai grandi?
Adesso, solo adesso, ho imparato a chiamarle per nome.
Sì perché le emozioni hanno un nome, ho imparato
che hanno un nome e tante sfumature. Esistono delle parole che servono
a riconoscerle. Sono le parole del cuore, della pancia e anche delle
"braghe", come dice mio fratello grande. Lui dice così perché crede che
le emozioni sono tante e diverse e così le senti in tante e diverse
parti dei corpo: il cuore, la pancia e certe anche... ...là in fondo.
È stato anche lui ad insegnarmele alcune parole: gioia, felicità, letizia; rabbia, collera, ira; malinconia, tristezza.
Mi ha detto che se conosco le parole e provo a
riconoscere le mie emozioni, poi posso anche provare a capire le
emozioni degli altri, chiamandole per nome.
Se l'avete provata saprete bene che è una cosa
difficile. È difficile capire le emozioni degli altri: per questo
bisogna limitarsi a provare a capire.
Ma, secondo me, la cosa più difficile è riconoscere le proprie.
Le emozioni certe volte sono troppo grandi e per
questo vanno smontate in piccoli pezzettini: basta chiedersi forse il
perché, se si ride o si ha mal di pancia, se si piange o ci si sente
felici.
Altre volte scrivere su un foglio le proprie
emozioni, quando le si prova, fa bene, aiuta a ricordarsele e, perché
no, a spiegarsele.
Facendo così, io mi sono accorto che a volte
l'emozione non dipendeva da quello che stavo vivendo in quel momento,
ma era nata molto tempo prima ed ancora non si era fatta vedere.
E, andando indietro nel tempo, si può scoprire anche
che, molto probabilmente, quell'emozione da qualche parte l'ho già
vissuta.
Così ho imparato a leggere e a scrivere le mie emozioni.
Già, allora pensavo che fosse amore, invece ero cotto!
Francesco Silipo
Da "Scout – Proposta Educativa" 2/2003
Ma la notte ...
Quarta parte
La festa siamo noi
È notte. Le luci e i suoni della
discoteca ipnotizzano un popolo di giovani che fa le corse con la luce
dell'alba per sfruttare ogni attimo di questa vita magica. Anche
un'altra parte di giovani, vinta dalla stanchezza della giornata, vive
la sua seconda vita: quella dei sogni. Passato il tempo della casa con
stanze comunicanti, ora, che i figli sono grandi, si vive in spazi
delimitati da porte, quasi sempre chiuse. Come si fa a resistere alla
tentazione di profanare quegli spazi ed entrare, ogni tanto e senza
svegliarli, per sussurrare loro la buona notte!?... Osservandoli in
silenzio, si potrebbero vedere i fantasmi della loro infaticabile
giornata che ancora ruzzano e si rincorrono in quelle teste
scapigliate, ora prodigiosamente calme. La vita dei figli resta
impressa nella mente dei genitori, per tutti gli episodi che,
caratterizzandola, danno ai ricordi un senso di gioia. La nostalgia dei
momenti passati, che viene a galla tutte le volte che uno dei due
inizia con "Ti ricordi quella volta...", è di sicuro fra i doni più
belli, anche se struggenti e graffianti, che il Signore ha messo
nell'animo dell'uomo.
Se qualcuno ha vissuto l'esperienza dei figli ai
campi-scuola, è impossibile che abbia dimenticato il momento che
prepara il rituale dei saluti. Ai lavori dell'ultimo giorno, in genere,
sono ammessi anche i genitori, ma ci vuol poco per accorgerci che, in
quel giorno, gli unici intrusi sono proprio loro. Chi si aspetta
un'accoglienza particolare e calorosa, quasi sempre si sbaglia: è
l'amore egoista e distratto dei figli. Nei ragazzi c'è un clima di
gioia e di euforia che la presenza degli adulti sicuramente disturba
perché loro, i giovani, sanno che quelli sono i momenti più preziosi,
quelli in cui, oltre a scambiarsi gli indirizzi, ci si possono dire
quelle cose che i ritmi e le paure della settimana non hanno permesso,
ma che ora, superando la barriera del pudore, e con tutta
l'immediatezza e la spontaneità che solo loro hanno, potrebbe
materializzarsi, come per miracolo, uscendo dal chiuso dei loro animi.
Qualche buontempone ha battezzato questo momento, definendolo come "la
festa delle grondaie" per sottolineare che alla fine, tutti, dai più
teneri ai più incalliti, si lasciano coinvolgere dal pianto. Ed è di
sicuro un pianto sincero perché quella separazione tanto straziante,
fin quando non sopraggiungerà la rassegnazione, la si continuerà a
credere temporanea.
Ma in quel clima così rumoroso e pieno di
imprevisti, alcune cose sembrano sottolineare quello che i giovani
hanno imparato a condividere: il senso della festa. In uno di questi
raduni, alcuni anni addietro, ho avuto la fortuna di ascoltare un canto
allelujatico particolarmente espressivo. Come non lasciarsi contagiare
dall'emozione clic i ragazzi vivevano!?... Le loro chitarre andavano al
massimo; le loro voci, perfettamente miscelate, si levavano come fumo
di incensi, mentre, con le mani intrecciate a corona sulle loro teste,
in un grande, unico abbraccio, si dondolavano cantando: "La nostra
festa non deve finire, non deve finire, e non finirà". E prima ancora
che avessi il tempo di commentare dentro di me, con scetticismo,
"finirà, finirà.., passerà come tutte le feste e lascerà il posto al
quotidiano...", è arrivata, dal loro canto, la risposta: "Perché la
festa siamo noi!". Impossibile negare che in ognuno di noi c'è qualcosa
di molto vecchio che sfugge alle comune analisi dove si danno
appuntamento messaggi intraducibili che non possono essere ridotti alla
voce del sangue, né alla astrazione delle metafore, ma sulla cui
essenzialità - bellezza e importanza capaci di perforare il buio dei
secoli - credenti e pagani si trovano d'accordo: il senso della
religiosità. I giovani, quando il loro entusiasmo è sano e trascinante,
sanno insegnare questo ed altro alle generazioni che li hanno cresciuti
e che ora non sanno rassegnarsi a fare da spettatore ai grandi
cambiamenti che la storia propone. Le nostalgie hanno sempre un sapore
amaro, ed ogni genitore le custodisce, portandole in sé con un
brandello dell'età giuliva dei figli. Ma quei giorni dal profumo
selvaggio e rinchiusi dentro un'anfora di creta, possono far sognare.
Forzare la strada per rivivere la giovinezza dei figli sarebbe come
cercare il canto melodioso nel nido ormai vuoto di un usignolo. La
gioia e la festa hanno sempre dei limiti segnati dal campo delle
emozioni tramontate o segrete delle quali sarebbe imprudente, oltre che
indiscreto, entrare. Anche per un genitore.
GIOVANNI SCALERA
Psicologo – Siena
da "Famiglia domani" 1/2000
Ma la notte
Terza parte
La festa è appena cominciata
La nostra società, dalla mediazione con
altre culture, facilitata in modo particolare con le guerre di questo
secolo, ha fatto un salto - così almeno si crede - che ha anticipato i
tempi, ponendosi nei confronti del progresso in condizione di
avanguardia, o quasi di attesa. Gli incontri e le migrazioni hanno da
sempre sconvolto il mondo. Inebriati dai grandi innesti si vedono
appiattire, deteriorare, scomparire le antiche culture e, ai miti
creduti immortali, subentrano i nuovi dogmi. Filosofie attuali come la
corrente New Age, portano molti cambiamenti nel modo di vedere, di
pensare e, soprattutto, nello stile di vita che caratterizza le
famiglie. Spesso, ad un esame più sottile è possibile osservare che i
nostri cambiamenti si rispecchiano in un impoverimento culturale più
che in un essenziale rinnovamento di metodo.
Mi ha fatto riflettere il risultato di un'indagine
condotta di recente da un dipartimento della Università senese che ha
messo in evidenza dei risultati inquietanti. La popolazione che fa
esperienza di studi primari è in crescita costante, ma si tratta,
inutile usare perifrasi, di una massa sempre meno selezionata e
motivata. Naturale, quindi, che anche il numero di coloro i quali si
ritirano senza giungere alla laurea sia in aumento. Fra quelli che
riescono a terminare un regolare corso di studi, la percentuale di chi
finisce senza intaccare il "fuori corso" è irrilevante. Per citare
alcuni esempi, gli studenti che si laureano in giurisprudenza,
impiegano mediamente sei anni e otto mesi (contro i quattro anni di
corso); gli studenti di economia otto anni e un mese (quattro anni di
corso). La serie completa potrebbe risultare un pettegolezzo inutile se
non imponesse una riflessione sconcertante nella sua ovvietà. Uno
studente del liceo è costretto ad affrontare interrogazioni e verifiche
quotidiane, studia un numero notevole di materie, per alcune delle
quali nutre avversione eppure, nei cinque anni previsti, termina il
proprio curriculum. L’ingresso nella Università apre le porte al grande
futuro e alla sospirata indipendenza creativa e da questo momento si
fanno gesti che hanno come referente la volontà individuale: si sceglie
la Facoltà, si selezionano i corsi da seguire, si programmano gli
esami, si fissano le date delle prove… e come si spiega allora
l'accumulo di tanto ritardo? Vivere in una città universitaria ci porta
a costatare che per molti giovani la partenza da casa per iniziare
nuovi studi è un'occasione per affrancarsi dal controllo dei genitori,
un momento di apertura all'incontro con culture diverse, un modo per
festeggiare la propria giovinezza in maniera autonoma e senza
interferenze. E può essere tutto molto bello e giusto, visto che un
nido stretto se è scomodo per gli animali, lo è ancor più per gli
uomini, purché l'insieme dei tanti ingredienti non si trasformi in una
miscela inebriante che fa perdere la testa. Per qualcuno l'inizio di
questa festa non è altro che l'ingresso nel "paese dei balocchi". Le
trasformazioni di cui siamo spesso spettatori ci dimostrano che pochi
misteri umani sono cosi impenetrabili come la curva che descrive le
alterne fasi della decenza e della dignità personale.
Ma qualcosa di grosso e di sostanziale sta veramente
cambiando, I giovani arrivano al traguardo con la prima, grandi
responsabilità in un segmento della loro esperienza che li vede
impegnati a gestire, su un fronte parallelo, la crisi di indipendenza:
è un momento in cui vogliono fare da sé. Per contro i genitori
avvertono l'orgoglio di avere dei figli grandi, unici e, forse, con
qualcosa in più rispetto alla media e vivono nell'illusione, se anche
lontani e con difficoltà di comprensione e di comunicazione, di
"possederli" ancora. Ma le trasformazioni cui sottoponiamo le belle
cose che possediamo danno un saggio dei nostri errori di apprendisti
stregoni. Presto arrivano i conti che, puntualmente, presentano le
delusioni e, a questo punto, si verifica il grosso ribaltamento.
L’entusiasmo del genitore si assottiglia. È lui che, per paradosso,
vive questo distacco come una mutilazione, e prova sulla sua pelle la
sensazione di essere orfano. Quelle scelte che, ora, sempre meno
condivide lasciano spazio solo ai ricordi e ai rimpianti di cui sempre
più si popola la sua memoria.
E la festa? La festa, secondo il refrain di una
canzonetta sconosciuta a questa generazione, ma non a quella
precedente, "è appena cominciata ed è già finita...".
GIOVANNI SCALERA
Psicologo – Siena
da "Famiglia domani" 1/2000