EDUCARE AL CAMBIAMENTO
· Interrogativi per un’educazione al cambiamento · Quale cambiamento? · Che cosa significa educare? · Educazione diretta o indiretta? · Quali le difficoltà? · Pro-memoria per ogni educatore.
Seconda Parte
EDUCAZIONE DIRETTA E INDIRETTA
Questa distinzione vuole suggerire che non si
educa, ossia non si influenza, in sostanza, l’educando solo quando c’è
un esplicito intento educativo. Messaggi trasformanti (positivi o
negativi) esistono anche quando quell’intenzionalità non ci sia. Anzi,
l’educazione che ho qualificato come indiretta precede, accompagna
sempre, di fatto, quella diretta. I motivi sono parecchi. Ne indico i
principali.
1). Come ci dicono, credo unanimemente, gli studiosi di psicologia i valori si comunicano attraverso un processo di identificazione del
bimbo con figure significativa con cui entra in relazione.Si
identifica, ossia è come se dicesse "io voglio essere come te", e
allora ne interiorizza comportamenti e atteggiamenti. E’ un processo
pre-logico, pre-verbale, inconscio, ma reale. Al punto, mi diceva un
amico psicoterapeuta, che se il bimbo che sta crescendo nell’utero
della madre si sentisse (a torto o a ragione) rifiutato da lei, avrebbe
domani seri problemi di identità e relazionali.
2). Le scienze della comunicazione ci parlano anche di una meta-comunicazione, di messaggi non avvertiti dai sensi che tuttavia vengono avvertiti dall’altro anche se non se ne accorgee influiscono su di lui. Sentimenti di ostilità e di disistima, ad
esempio, passano nell’altro anche se l’interlocutore li maschera assai
bene e magari non si rende conto di provarli.
3). Le ricerche scientifiche, ci diceva a Genova il
dottor Tolomelli (ben noto ai lettori di queste pagine), ricerche mai
smentite da un trentennio, hanno stabilito che da un piano verbale
passa, nel migliore dei casi, un 10% di quello che si dice, mentre il
modo (tono di voce, pause etc) conta per il 30% e la gestualità
addirittura per il 60%. Bel ridimensionamento delle nostre ambizioni
comunicative dirette!
Questi tre dati oggettivi confermano da un lato il
ruolo essenziale della educazione indiretta e per quella intenzionale
evidenziano l'importanza decisiva della qualità della relazione
educatore-educando: se essa funziona male non passa nulla in quanto la modalità della comunicazione prevale nettamente sul contenuto, la cosa detta. La dimensione emotivo-affettiva è tanto importante che se un alunno, per esempio, a torto o a ragione, non si sente(aspetto non razionale) accettato e apprezzato dall'insegnante non
studia la materia anche quando, talvolta, questa gli piacesse. Da ciò
deriva la funzione determinante del clima in cui avviene lo scambio
verbale tra i due protagonisti del colloquio educativo.
CAMBIAMENTO, ASPETTI E DIFFICOLTÀ
Se le considerazioni proposte finora sono
fondate, si capiscono abbastanza, mi pare, le ragioni delle difficoltà
crescenti, forse, incontrate da ogni educatore per suscitare un
cambiamento positivo nell'educando. Provengono certo dal fatto che
frequentemente la famiglia è piuttosto latitante a livello educativo e
dalla presenza di nuovi fattori che influiscono in questo àmbito come
il gruppo degli amici, i messaggi dei media, la diffusa filosofia
individualistico-edonista del nostro tempo. Ma sono anche interne ai vari aspetti del cambiamento che si intende indurre nella persona in via di formazione.
C'è la dimensione intellettuale dove si tratta non solo di trasmettere conoscenze rigorose ed organiche, ma di suscitare il desiderio di imparare e la consapevolezza di quello che si sa.
C'è la dimensione etica dove contano certo i
valori trasmessi, ma questo implica la credibilità ed il fascino delle
figure di identificazione: sono figure di adulti? Di più: occorre
favorire la formazione della coscienza, di una sensibilità moraleper gran parte controcorrente rispetto alla mentalità oggi dominante e
di porre i presupposti, o almeno il problema, della necessità del discernimentotra ciò che, in concreto, ti fa crescere in umanità, da quanto ne è
ostacolo, se non una smentita. Di nuovo: ci sono adulti capaci di
accompagnare in questa direzione, invece di accontentarsi di predicozzi
o condanne che lasciano il tempo che trovano?
C'è infine la dimensione interiore, personale, ossia l'acquisizione della disponibilità a cambiare se stessimigliorando la qualità del proprio essere. E su questo piano profondo,
ma decisivo, le difficoltà sono di peso rilevante perché tutti abbiamo
sperimentato dal vivo le resistenze a cambiare dentro di noi atteggiamenti che allontanano dall'umano.
Certo, noi cristiani sappiamo che è la Grazia a
convertire il nostro profondo, ma Dio non opera magicamente, bensì
dentro e attraverso il nostro impegno. Se questo non c'è, l'agire di
Dio è, per così dire, bloccato.
CARLO CAROZZO
Direttore de IL GALLO – Genova
(famiglia domani 1/99)
EDUCARE AL CAMBIAMENTO
· Interrogativi per un’educazione al cambiamento · Quale cambiamento? · Che cosa significa educare? · Educazione diretta o indiretta? · Quali le difficoltà? · Pro-memoria per ogni educatore.
Prima Parte
Oggi il mondo cambia a vista d’occhio sotto
l'aspetto economico, tecnico-scientifico, politico, sociale, culturale
secondo un ritmo addirittura vertiginoso. E’ possibile non proporsi di
cambiare personalmente in una società che cambia? Anche, se uno lo
sceglie. Il prezzo, però, è la progressiva estraniazione dalla società,
e per i nostri figli di trovarsi nel domani più prossimo del tutto
impreparati ad affrontare la vita, finendo nel disadattamento, con
tutto quello che solitamente ne consegue. E’ quindi un atto di lucidità
e di preveggenza scegliere di educare (ed educarsi!) al cambiamento. Quale,
però? Secondo quale concezione della vita? In vista di quali obiettivi?
Consapevoli dei rischi che certi cambiamenti comportano a livello
umano? Questioni da capogiro eppure urgenti, urgentissime. Altrimenti
il cambiamento si limiterà a preparare gente capace di riciclarsi per
trovare qualche lavoro, riducendo la persona a rotella della macchina
produttiva e conformista.
Quale cambiamento, dunque, in
quell'ambito delicatissimo dell'educazione? Per chiarezza, preciso
subito di ispirarmi ad una visione personalistico-relazionale e penso
ad un futuro cittadino che sia anzitutto un uomo capace di discernere quello che lo costruisce da quanto lo distrugge. Una riflessione, quindi, non neutrale, bensì orientata.
QUANDO DICO EDUCARE
Distinguo, anzitutto, istruire dall'educare.
Anche se il primo può avere riflessi più ampi e significativi
sull'educando attraverso la personalità dell'insegnante, di per sé, e
nel caso migliore, è una comunicazione di conoscenze che mira, insieme
col rigore del dati conoscitivi, alla formazione del senso critico in
un determinato settore, il secondo ha una dimensione più vasta e direi
più profonda.
A mio avviso, educare è l’arte di accompagnare l’altro in modo che diventi adulto e questo si realizza instaurando con lui relazioni sane e significative attraverso la chiarezza dei ruoli.
È una caratterizzazione (non una definizione perché non sono un
pedagogista) nata dalla esperienza e dallo studio, dove i vari termini
sono almeno ambivalenti ed è quindi indispensabile precisarne il senso.
CARLO CAROZZO
Direttore de IL GALLO – Genova
(Famiglia domani 1/99)
SCENARI DI REALTÀ GIOVANILI
· "Venite fuori, se ci siete!" · Una generazione invisibile? · Giovani
"contro", giovani "senza", o giovani "dentro"? Comunque, giovani
"ricchi", che cioè vivono spesso in uno scenario di ricchezza · Un’alleanza educativa per progettare, insieme, il futuro…
L’intervento del commissario europeo Mario Monti ha animato l’estate del 1998. Ecco le sue parole: "Vedo
che si parla di sciopero generale, ma io dico che se c’è uno sciopero
che sarebbe giustificato, dovrebbe essere lo sciopero generazionale.
Senza cambiamenti radicali i giovani di questo Paese andranno incontro
a un futuro con garanzie e speranze lontane da quelle di loro coetanei
europei". Strano, avrà forse pensato qualcuno, un esponente della generazione dei "vecchi" sollecita i giovani alla ribellione?
Una fotografia sfuocata
Fino a qualche tempo fa la tendenza era
quella di addomesticare le nuove leve: "dobbiamo farli stare buoni",
esortava un Preside di un Istituto superiore della mia città all’inizio
degli anni ’80, presentandomi le classi della sua scuola. Ora no. Li
provochiamo: "Venite fuori, se ci siete!". A noi piacerebbe avere una
fotografia nitida dei giovani, specie quando questi giovani sono i
nostri figli. Invece la fotografia è sfuocata. A volte non si riesce
neppure a scattare un fotogramma: scappano, si sottraggono ad ogni
indagine. Che rabbia!
* * *
Oggi, anche il genitore più sprovveduto non potrebbe
far proprie le parole che cent’anni fa Collodi metteva in bocca a
Geppetto per giustificare la sua voglia di un figlio: "ho pensato di
fabbricarmi da me un bel burattino di legno; un burattino meraviglioso,
che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali… Con
questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane
e un bicchiere di vino…". Già allora, quella semplicistica previsione
si trasformava in pinocchi, in una odissea tra generazioni che si
allontanano per poi ritrovarsi del tutto diverse dalle aspettativa
iniziali. Figuriamoci oggi. Basta pensare alle nostre attese davanti
alla culla in cui la sera adagiavamo i nostri figli: molto è cambiato
sia in noi che nella società intorno a noi.
Scioperare, perché mai?
Se scioperare significa "astenersi dal
lavoro" è chiaro come l’astensione proclamata dal professor Monti è
stata soprattutto uno stimolo alla riflessione sui temi del lavoro e
della previdenza. Da quell’intervento sono nati contributi che, da
diverse angolazioni, hanno analizzato questa "generazione invisibile"
(I. Diamanti). Abbiamo letto di "gioventù punita", di "eterni Peter
Pan", di "tribù di formiche", di "generazione senza"… Anche se per poco
tempo, i giovani sono stati all’attenzione dei mass media.
* * *
Scioperare significa anche esserci, agire contro
qualcuno o qualcosa, in una forte contrapposizione di interessi o di
valori. Ma i nostri figli –parliamo tra genitori ed educatori
occidentali- possono essere definiti "figli contro"? Non sono piuttosto
figli "nati per comprare", secondo un’espressione di Nadine Gordimer?
Da qualunque posizione ideologica li guardiamo, si può dire che i
giovani di fine millennio non sono nati per essere "contro". Sono
giovani che si ritrovano con molte possibilità fin dalla nascita:
studiano, si incontrano con coetanei di paesi lontani, hanno occasioni
molto più ampie rispetto a quelle di giovani di inizio secolo o anche
solo di cinquant’anni fa. Sono giovani "dentro". Spesso annoiati per le
troppe occasioni a disposizione e che godono, in prevalenza, di risorse
economiche rilevanti: giovani ricchi che partecipano al consumo di
ricchi genitori. Questi consumano 16 volte tanto rispetto ai genitori
dei paesi poveri…
Il "Rapporto sullo sviluppo dell’Umanità del1998"
del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite elenca i consumi dei
ricchi rispetto ai poveri del mondo.
Carne, 11 volte tanto.
Pesce, 7 volte tanto.
Carta, 77 volte tanto.
Linee telefoniche, 49 volte tanto.
Automobili. 145 volte tanto.
Energia, 17 volte tanto.
Consumo complessivo, 16 volte tanto, appunto.
* * *
I giovani italiani vivono in questo scenario di
ricchezza, anche se con en noti divari tra zone geografiche, specie tra
Nord e Sud. Sono poi cresciuti, in prevalenza, secondo la filosofia del
riscatto: "Mio figlio non deve patite quello che ho subìto io!". Gli
assetti economici e sociali del nostro paese sono profondamente
cambiati in 60 anni; basti ricordare il grande balzo in avanti compiuto
dall’economia italiana negli anni ’50 e ’60, con tassi di crescita del
reddito vicini al 6% pari a quelli della Germania e secondi solo al
Giappone: il cosiddetto "miracolo italiano", fatto di una felice
congiuntura internazionale, ma anche del tenace lavoro di tanti papà e
mamme che, impegnandosi anche il sabato e la domenica, sono riusciti a
conquistare un lavoro, la casa. Una posizione economica tranquilla. Il
tutto con una velocità mai registrata prima: ci dicono gli esperti che,
nel solo quindicennio 1948/1963, i consumi degli italiani sono
raddoppiati. E’ quello il periodo in cui le cucine all’americana
soppiantavano le madie, e il festival di Sanremo diventava l’argomento
principale nelle fabbriche e negli uffici.
* * *
Questo passaggio rapidissimo da una realtà agricole
ad un assetto post-industriale, giocato sul terziario avanzato che
spinge continuamente alla ricerca, al nuovo e alla mobilità, spiazza
soprattutto i grandi: "Ma come? Ho trovato un lavoro qui, vicino a
casa… Non è possibile che mio figlio debba trasferirsi per trovare uno
straccio di occupazione!". Se poniamo poi attenzione agli intrecci tre
stati, nazione ed etnie che si stanno verificando sentiamo quasi paura
ad "uscire di casa"… Di qui la prassi, non sempre necessitata, di
tenere a lungo i figli in casa, in attesa del posto "giusto". L’invito
del commissario Monti ha avuto il pregio di porre l’attenzione sul
ruolo che deve essere assicurato alla nuove generazioni in una società
che è profondamente cambiata; non possiamo fare dei nostri figli dei
"panchinari", né possiamo esserne i tutori a vita.
L’alleanza educativa
"… seguirono le pietruzze, che brillavano
come monete nuove di zecca e mostravano loro la via.
Camminarono tutta la notte
e allo spuntar del sole arrivarono alla casa paterna (…)
Quando sorse la luna, si alzarono,
ma non trovarono più neanche una briciola:
le avevano beccate i mille e mille uccellini
che volavano per campi e boschi (…)"
(Hansel e Gretel).
C’è , a volte, nei genitori, un conflitto: da un
lato la tentazione di abbandonare i propri ragazzi nel "bosco" della
vita e, dall’altro, il desiderio di esserne un eterno scudo. Càpita di
capire ben poco della confusione che si sente, e si vive, camminando
ogni giorno sulle strade. "Papà, vado al cinema con gli amici" - ci
avverte deciso nostro figlio adolescente. Le risposte possibili:
"Va bene";
"No, stai a casa";
"Che film è? Prima lo vediamo io e tua madre… leggeremo qualche recensione… Poi ne parleremo insieme e decideremo".
E’ quest’ultimo l’atteggiamento educante, dove
l’adulto svolge la sua funzione di aiuto e consente il passaggio ad un
gradino superiore del rapporto genitori/figli; da dispensatori di
servizi (l’abitazione, il cibo, gli svaghi…) ad alleati nell’elaborare
risposte alle domande della vita. Si comincia anche da qui a rimediare
al ritardi con cui i giovani sembrano affrontare gli snodi tipici della
vita rispetto al passato: l’uscita da casa, il lavoro, il matrimonio, i
figli (M. Livi Bacci).
Questa alleanza ha, ovviamente, anche un versante
politico per riportare ad un equilibrio fisiologico il rapporto tra le
generazioni: le politiche, giovanili, da più parti invocate, possono
aiutare in questa direzione, facilitando l’ingresso nel mondo del
lavoro e consentendo l’accesso al credito e alla casa.
* * *
Ciò che i nostri ragazzi reclamano, spesso con un
silenzio immusonito, è potersi confrontare con dei "grandi" credibili,
ovvero con adulti che non chiudono loro la bocca invocando un desueto
"principio d’autorità". Ma nemmeno si mettono a fare i "pari età". Se
ci interessano i giovani d’oggi non è solo per ottenerne un quadro
d’insieme per una "foto ricordo", ma per capirne le domande: le più
importanti sono quelle che chiedono motivazioni e storia agli
adulti. Vogliono infatti confrontarsi con gli stili, gli atteggiamenti
e i valori dei grandi. Reclamano di sapere dagli adulti la ragione
delle scelte, personali e sociali, che sono state compiute. Vogliono
essere aiutati a capire che cosa è accaduto prima di loro. Altrimenti
non avranno né sassolini né briciole da seguire. E senza un passato è
difficile progettare un futuro.
GIORGIO NOTARI
Avvocato - Direttore del Consultorio familiare e prematrimoniale
Diocesi di Reggio Emilia
(da "famiglia domani"2/99)