Non esistono grandi scoperte né reale progresso, finché sulla terra esiste un bambino infelice. Albert Einstein
Penso che gli studiosi dell'infanzia e gli psicologi dell'età evolutiva siano d'accordo sull'assunto che un bambino possa vivere una condizione di felicità quando vengano soddisfatti i suoi bisogni emozionali primari. In tal senso, la teoria dell'attaccamento di John Bowlby1 ha aperto un ambito di ricerca eccezionale nell'interpretare la struttura della personalità in termini di esito delle esperienze vissute all'interno della famiglia in età infantile: modalità di accudimento basate sulla sensibilità ai segnali del piccolo - ovvero sulla capacità del genitore di riconoscere i bisogni di conforto e di aiuto - e sulla prontezza nella risposta, danno luogo a uno sviluppo ottimale. D'accordo con Heather Smith2, apprezzando la sua concretezza anglosassone nell'utilizzare il termine amore nella descrizione della relazione affettiva genitore-bambino, vorrei segnalare quei bisogni emozionali primari del bambino che faranno da linee guida di questo lavoro.
- L'amore incondizionato da parte dei genitori e dei famigliari più stretti, che prescinde dagli eventi avversi della vita e dalle eventuali trasformazioni di famiglia, e soprattutto dal comportamento buono/cattivo del bambino. Non si dovrebbe mai minacciare il bambino con frasi come: «Se fai questo, non ti vorrò più bene!» Tuttavia il bambino riuscirà a nutrirsi appieno dell'amore, a condizione che nel contesto famigliare circolino affetto e armonia.
- Il rispetto e l'apprezzamento per le sue competenze relazionali; va ribadito che il bambino è una persona completa nelle sue varie fasi di crescita e non è un «adulto in miniatura». Tutti i bambini vogliono che i loro sentimenti e i loro pensieri siano rispettati; deriderli o accusarli di essere stupidi, testardi, pigri, infantili e cattivi oppure usare altre etichette negative non è d'aiuto.
- La stabilità affettiva intesa come continuità degli affetti nel tempo; il bisogno di stabilità affettiva vale ancora di più nelle situazioni di disgregazioni famigliari e di ricostituzione di nuovi nuclei affettivi. Nel concetto di continuità va sottolineata anche la qualità e la quantità di tempo che padre e madre (e anche i nonni quando disponibili) trascorrono con i bambini; trovare il tempo per i figli è ancora più fondamentale, seppure sempre più difficile, nel caso di famiglie a doppia carriera, dove entrambi i genitori lavorano a tempo pieno, o quando i genitori sono separati, soprattutto per i padri che spesso non coabitano con i propri figli.
- Il riconoscimento e la chiarezza nelle gerarchie generazionali. Con ciò si intende il tipo di confine che esiste tra la generazione dei genitori e quella dei figli: chi dà e fa rispettare le regole, le diverse forme di responsabilità degli uni come degli altri. Troppo spesso si corre il rischio di non essere autorevoli come genitori e di presentarsi piuttosto come «amici dei figli», ponendosi sul loro stesso piano, confondendo così i piani gerarchici. Ancora più dannosa è la situazione dell'accudimento invertito, ovvero quando ci si aspetta che un figlio si prenda cura dei genitori e non viceversa.
- L'aiuto e la guida per imparare a comportarsi bene e attingere nuovi valori ed esperienze nella società: sta ai genitori, attraverso l'esempio, l'esperienza di vita e il patrimonio valoriale, prendere per mano il bambino e condurlo nel mondo esterno alla famiglia, a partire dalla scuola, fondamentale in questa transizione sociale, per poi passare al quartiere e al gruppo dei pari.
Se tali bisogni primari vengono disattesi è probabile che subentrino nel bambino uno stato di insicurezza e di tristezza esistenziale che possono diventare una seria minaccia al suo sviluppo armonico. Ma i bambini, a differenza degli adulti, non esprimono a parole i propri stati d'animo; il loro linguaggio è prevalentemente ludico e simbolico, ed è attraverso il gioco e i segnali del corpo che comunicano con noi adulti il loro stato di maggiore o minore benessere.
2. Il gioco è il linguaggio dei bambini: ma noi adulti sappiamo ascoltarlo?
Il gioco è il linguaggio più articolato con cui i bambini esprimono i propri sentimenti, quelli di gioia come quelli di tristezza, con cui comunicano tra di loro e con il mondo degli adulti; è il mezzo con cui apprendono su se stessi e sui propri processi di crescita, nonché sulle regole e i limiti posti dagli adulti in uno specifico contesto sociale e ambientale. Certo, i linguaggi del gioco cambiano a seconda dell'età, ma osservando il gioco di un bambino possiamo farci un'idea del suo maggiore o minore livello di serenità. Se il bimbo è in grado di giocare in modo libero e creativo, esplorando con curiosità ciò che lo circonda, socializzando con gli altri bambini, rispettando le regole, accettando le sfide e le frustrazioni connesse con ogni forma di incontro sociale e provando complessivamente piacere nelle attività ludiche in cui è coinvolto, è probabile che sia un bambino sereno, che sorride alla vita e che ha sviluppato buone capacità relazionali.
Dovremmo ora chiederci quanto i genitori sappiano osservare e interpretare il linguaggio ludico dei bambini, o quanto a volte, anche in modo inconsapevole, siano distratti da altre cose o, ancor peggio, forzino il bambino a entrare troppo in fretta nel mondo degli adulti. «Basta giocare, è ora che fai il grande !» Quante generazioni di bambini hanno sentito e subito questo appello da parte di genitori incapaci di entrare in contatto con i figli per mezzo dei giochi. Ascoltare un bambino, comprenderlo attraverso i gesti, lo sguardo e le espressioni ludiche non è facile se non si lascia il pensare adulto fuori della porta e non ci si immerge con interesse e curiosità nell'universo infantile. Una volta, un colto professionista mi confidò preoccupato di non sapere come giocare con il figlio di otto anni: la spiegazione che si dava era che da piccolo non aveva mai avuto un padre presente e disponibile a giocare con lui. E senz'altro un'esperienza comune ai quarantenni: essere cresciuti senza la presenza e la guida di padri sempre assenti o occupati. Se poi si va indietro ancora di una generazione, l'assenza paterna non era neppure percepita come tale: era normale che i padri non avessero tempo per stare in casa e giocare con i bambini, e comunque non rientrava nelle loro mansioni. Per fortuna i piccoli di allora avevano una propria società dei bambini che suppliva a queste carenze famigliari, ma oggi il concetto stesso di società dei bambini - intesa come rete naturale di incontri quotidiani - sembra inesistente e impensabile; dove sono il cortile, la strada di fronte a casa e l'oratorio in cui andare a giocare a pallone per ore ?
Oggi, più che giocare con i propri figli a casa o all'aria aperta, si finisce per accompagnarli a incontrare altri bambini in attività ludiche sempre più strutturate e programmate dagli adulti. Dopo le ore scolastiche, le mamme in funzione chauffeur (talora sostituite dalle «nuove tate» nelle classi sociali più alte) attraversano il traffico impazzito delle città e conducono i piccoli a lezione di nuoto, di danza oppure a scuola di calcio, perché i bambini «vanno portati ad apprendere uno sport» e lo devono fare come si deve, all'interno di strutture costose che rilasciano medaglie, coppe e diplomi. Ma dove finiscono il gioco spontaneo e la creatività quando i bambini vengono incasellati in classi organizzate di questo o di quell'altro sport? Sarà senz'altro utile per i piccoli praticare un esercizio fisico, ma saranno sempre più dipendenti da noi adulti, che organizziamo e strutturiamo perfino le loro attività ludiche senza però parteciparvi se non in modo passivo, guardandoli a distanza e compiacendoci di quanto crescano bene. Certo, un alibi c'è, ed è anche drammaticamente credibile: la scuola ha da sempre disatteso il principio di mens sana in corpore sano, riducendo al minimo attività ed educazione fisica nel curriculum formativo dell'alunno. E poi, al di fuori delle mura scolastiche, dove altro potrebbero andare i nostri figli a correre e praticare in modo informale un qualche tipo di attività fisica? Le città sono prigioni di cemento e grandi parcheggi a cielo aperto, auto e moto invadono ogni angolo di strada, compresi i miseri marciapiedi ricordo patetico di uno spazio che non c'è più, quello per camminare o spingere un passeggino. Sono pochi i parchi belli e godibili, con distese di verde e spazi dove bambini e famiglie possono rilassarsi e passare ore felici; nella maggioranza dei casi, dal centro alla periferia, i parchi giochi sono aree ristrette e sporche (le pulizie dei parchi pubblici non sono più presenti nei budget comunali), prive di verde e polverose, attrezzate soltanto con uno scivolo e un'altalena, a lato di strade rumorose e piene di smog. Non bastasse, la notte sono popolate da tossici e alcolisti che lasciano segni tangibili della loro presenza: bottiglie di birra vuote, siringhe, cartoni. Sono luoghi in cui un genitore non deve mai abbassare la guardia, per il rischio che il proprio figlio possa essere rapito o avvicinato da un pedofilo.
I bambini insomma giocano nei parchi guardati a vista dai grandi. Come potranno crescere felici in un contesto sociale cosi poco rassicurante ? E siamo sicuri che proteggere i nostri figli e vigilare su di essi sia l'unico modo per farli crescere bene ? Non dovremmo piuttosto impegnarci di più per restituire loro spazi sicuri e vivibili? In svariati paesi europei i bambini sono considerati una priorità sociale, cosicché aree aperte o interne (supermercati, banche, uffici postali, sale cinematografiche, aeroporti, stazioni ferroviarie) sono attrezzate con playgrounds e strutture ludiche e creative. Possibile che un genitore non possa insegnare a un figlio come giocare a calcio o a basket ? Davvero non può essere disponibile ad andare con lui in bicicletta o in piscina durante il fine settimana ?
Abbiamo già parlato dei padri che non hanno avuto modelli di rapporti ludici padre-figlio; potremmo aggiungere le madri cresciute con madri sacrificali che lavoravano a tempo pieno per gestire grandi famiglie, senza un minuto a disposizione per respirare e giocare rilassate con i figli. Sarebbe il caso di chiederci se, in assenza di modelli provenienti dalle famiglie di origine, padri e madri non possano considerare i figli come modello per apprendere a giocare; nel libro Il padre ritrovato3 ho parlato a fondo dei nuovi padri e dell'utilità di seguire il bambino, che può guidare il genitore nel proprio mondo di fantasia se questi accetta di «tornare bambino». Ecco ciò che i figli ci chiedono: di esserci per loro e con loro, e non di barattare il nostro tempo con regali e giocattoli da aggiungere in stanze già straripanti di oggetti. I bambini non hanno bisogno di tanti giocattoli per essere felici: sono invogliati a chiederne di più perché vengono sedotti dalla pubblicità televisiva, nei cui confronti le famiglie sono totalmente succubi. Anche le feste di compleanno sono diventate riti consumistici, tanto ripetitivi quanto dannosi: insinuano nei bambini il desiderio di regali costosi e in quantità abnormi, visto che a una festa arrivano a partecipare trenta bambini con relativi doni. Una volta appresi da piccoli, questi modelli guideranno altre scelte, altri riti nel corso della vita adulta. Facendo le debite proporzioni, quanto dovrà essere grandiosa, allora, una festa per celebrare i diciotto anni o il matrimonio?
Un monito in tal senso ci viene da Stefano Bartolini, docente di Economia politica presso l'Università di Siena, il quale ha pubblicato il suo Manifesto per la felicità4: un volume che denuncia la perdita di valori morali e di solidarietà nelle società opulente, i cui abitanti hanno confuso l'obiettivo del ben-essere con quello del ben-avere e cercano di colmare il vuoto interiore riempiendolo di oggetti.
3. Famiglia, scuola e contesto sociale concorrono alla felicità/infelicità del bambino.
C'è ora da domandarsi in che modo la famiglia, la scuola e il contesto sociale favoriscano lo sviluppo armonico di un bambino, che è alla base della sua felicità; o, al contrario, come lo impediscano o lo limitino. In una famiglia serena, un bambino cresce sereno; in una famiglia disarmonica, un bambino cresce in modo disfunzionale e alla lunga può segnalare con il corpo, il comportamento o le risposte emotive forme diverse di sofferenza e disagio psicologico, quello che potremmo definire stato di infelicità. «La famiglia del mulino bianco» non esiste, e per serenità non si intende la non esistenza di problemi, di conflitti, di lutti, di malattie, di eventi sfavorevoli. Al contrario, la serenità è una modalità affettiva che il bambino respira in famiglia attraverso l'esempio concreto dei genitori, ovvero attraverso i modi in cui questi ultimi affrontano le vicende della vita fornendo ai figli una visione ottimistica e positiva delle cose, senza però nascondere le difficoltà e i problemi. La serenità è l'atmosfera che regna in casa, e si basa sull'armonia e sull'amore, a livello coniugale e nelle relazioni affettive con le rispettive famiglie di origine. Sono la disarmonia e i contrasti fra coniugi e/o con le famiglie di origine a condizionare e a ledere alla base l'espressione di affetti positivi tra genitori e figli. Questi diventano facilmente il parafulmine di tensioni e ostilità che attengono ad altri rapporti, divenendo talora veri e propri capri espiatori delle incomprensioni famigliari, costretti spesso a schierarsi con l'uno o l'altro genitore. Si deve a Nathan Ackerman5, pioniere della terapia famigliare nordamericana, l'uso di questa metafora biblica riferita al ruolo sacrificale del bambino all'interno di relazioni famigliari patologiche. La famiglia è il luogo primario degli affetti, ma i bambini trascorrono buona parte della giornata a scuola, palestra di socializzazione e crocevia affettivo fondamentale: è li che comincia il loro futuro, e secondo Sergio Neri6, illuminato pedagogista prematuramente scomparso, la nuova pedagogia deve favorire nel bambino la scoperta autonoma del mondo, la costruzione di un'identità sociale e di un pensiero critico. I bambini portano a scuola gli stati d'animo, l'armonia o disarmonia affettiva che respirano in casa, si incontrano con altri mondi infantili e altri modelli di adulto, interagiscono e apprendono in gruppo, trasferendo a casa le esperienze affettive e relazionali vissute in classe.
I bambini beneficeranno di rapporti di fiducia e intesa tra genitori e insegnanti; al contrario, saranno danneggiati e facilmente triangolati se questi rapporti risultassero conflittuali e improntati a mancanza di stima e di rispetto reciproco. Come è vitale l'intesa tra i genitori nei processi educativi, altrettanto fondamentale è la collaborazione tra scuola e famiglia per una crescita armonica dei bambini, e sovente il banco di prova della qualità di questo rapporto sono l'apprendimento e i progressi scolastici. Iniziando a scuola e proseguendo fuori, nel quartiere, si strutturano quei sistemi di amicizie infantili che accompagneranno i ragazzi nelle diverse fasi della crescita. Un bambino felice è un bambino che sa partecipare con entusiasmo alla vita di relazione del gruppo dei pari. Un bambino che si autoesclude o viene escluso dal gruppo avrà difficoltà a crescere in modo armonico, stando bene con gli altri. L'identità viene a costituirsi precocemente in ciascuno di noi attraverso una serie di esperienze e verifiche sulla qualità dei rapporti affettivi principali; man mano prende forma e si articola il variegato mondo delle appartenenze affettive, patrimonio prezioso per lo sviluppo cognitivo ed emotivo di ogni bambino. L'amore incondizionato che il bambino riceve dalla famiglia, e che egli dà a propria volta ai grandi in modo ricorsivo, è la fonte nutritiva su cui si basa il suo mondo affettivo primario; allo stesso tempo, ogni bambino ha bisogno di un riconoscimento sociale della sua identità e delle sue competenze relazionali, e ciò viene fornito dalla scuola nel corso degli studi e sancito dalla partecipazione attiva al gruppo dei coetanei al di fuori delle mura domestiche. E' il gruppo ad abilitare i ragazzi nelle competenze sociali; senza l'approvazione del gruppo si resta incompleti.
Famiglie in crisi o spezzate spesso non favoriscono il processo identitario dei figli, che rimangono «sequestrati» nelle vicende ostili dei grandi o, al contrario, vengono «lasciati andare fuori di casa» senza amore e protezione sufficiente. In altri casi - mi riferisco in particolare ai bambini portatori di disabilità o a quelli che nascono e crescono in famiglie di immigrati - rischiano di essere emarginati dal gruppo dei pari perché diversi, o di autoescludersi dalla società dei ragazzi per paura di non essere accettati. Un rischio tanto maggiore quanto più forti sono gli stereotipi culturali che si agitano nel contesto sociale più allargato, a livello degli adulti, che possono ostacolare un vero processo di integrazione e valorizzazione delle differenze.
4. Bambini e nuove forme di famiglia.
Al tempo dei nostri nonni esisteva una sola famiglia. Oggi sarebbe più appropriato parlare di configurazioni diverse di famiglia.
La prima, quella che tutti conosciamo meglio e che fra tanti ostacoli regge ancora al logoramento del tempo, è la cosiddetta famiglia tradizionale: organizzazione affettiva con ruoli genitoriali ben definiti e complementari che è riuscita ad attraversare indenne la crescita dei figli e la loro uscita di casa, mantenendo nel tempo una buona intesa di coppia e tra le generazioni.
Froma Walsh7 descrive molto bene il ciclo vitale di queste famiglie, che sembrano capaci di passare da un primo contratto coniugale, quello dell'amore romantico, a un secondo sancito dall'arrivo dei figli, fino a riformularne un terzo proprio della coppia matura che ritrova una nuova dimensione affettiva a due.
Tuttavia, non sempre la coesione famigliare si riesce a mantenere attraverso l'amore e l'intesa tra le generazioni, e ancor meno a livello coniugale: in questi casi si è finito per preservare la facciata, ma all'interno regnano l'ipocrisia e la paura di rimanere soli, con una divisione rigida di ruoli e funzioni che fa da collante e permette di preservare «l'edificio famigliare» da possibili cedimenti. Nel primo caso, ben descritto dalla Walsh, quando l'amore e l'intesa reggono, i bambini crescono bene, con il sorriso, in un ambiente sano, ricco di cambiamenti, dove affetto e protezione non mancano. Assai diverso è crescere in un ambiente famigliare dove si è costretti a restare uniti e dove l'insicurezza regna sovrana attraverso le generazioni. In questa evenienza non è infrequente che i bambini vengano caricati di responsabilità eccessive per colmare l'immaturità di uno o di entrambi i genitori, rinunciando cosi alla fase più bella dell'esistenza, l'infanzia, ed entrando precocemente in un ferreo sistema di doveri, dove non c'è spazio per godere della vita.
Negli ultimi decenni, a causa dei mutamenti sociali e delle crescenti disgregazioni famigliari, si è assistito a un aumento dei divorzi e alla comparsa delle cosiddette famiglie ricostituite, dove si formano nuovi legami e i figli del primo matrimonio vengono a far parte di nuovi nuclei affettivi con la madre e il suo nuovo compagno, più raramente con il padre e la sua nuova compagna. E' fuor di dubbio che questi legami sentimentali potranno formarsi e consolidarsi in piena armonia qualora la precedente separazione sia avvenuta in modo equilibrato e consapevole, al di fuori della logica del «vincitore e del vinto». Altrimenti i figli si schiereranno con «il genitore più debole» e potranno mettere in atto una serie di comportamenti dirompenti o disfunzionali, fino a raggiungere forme esasperate di ricatto affettivo; in taluni casi verranno plagiati dal genitore dominante, alienandosi ogni rapporto con l'altro genitore.
Come ben descritto da Anna Oliverio Ferraris8, le famiglie ricostituite sono un'organizzazione affettiva più complessa ma in forte espansione, dove il padre cambia pelle, diventa padre biologico e vive meno a contatto diretto con i figli, mentre il nuovo compagno della madre diventa una sorta di terzo genitore. Sovente si viene a costituire un vivace sottosistema di figli, formato dai bambini di prima e dai nuovi arrivati. L'esperienza ha dimostrato che, anche in situazioni di legami più complessi, i bambini crescono bene nella misura in cui ci sia chiarezza nei rapporti e circolino amore e rispetto: a queste condizioni il bambino può adattarsi a qualsiasi cambiamento e apprezzare positivamente il nuovo corso della sua crescita.
Con l'aumento del fenomeno della sterilità coniugale, tipico delle società più industrializzate, sono aumentate le famiglie adottive e il costituirsi di nuclei famigliari con bambini che provengono spesso da altri paesi, da altre dimensioni etniche, e culturali, con storie di abbandoni infantili talora drammatiche. Anche in questo caso i bambini adottati potranno avere una vita serena e felice se la coppia adottante sarà in grado di amarli senza pretendere di cancellarne o alienarne il passato, che se pur triste è sempre un patrimonio affettivo irrinunciabile. L'incontro fra due perdite, l'incapacità di procreare per i genitori adottivi e l'abbandono precoce subito dai bambini possono divenire un forte legame di amore se gli uni e gli altri sapranno apprezzare e accettare le reciproche, dure vicende di vita e godere poi insieme l'evento straordinario di creare una famiglia.
Con la progressiva espansione dei processi migratori, stiamo conoscendo nuove configurazioni di famiglie con genitori immigrati, che hanno figli nati in Italia o arrivati in questo paese molto piccoli (le cosiddette seconde generazioni), e di famiglie interculturali, cioè i nuclei costituiti da coppie miste, con un coniuge italiano e uno immigrato. Anche in tali casi la crescita dei bambini sarà sana e serena se famiglia, scuola e contesto sociale saranno in grado di collaborare per garantirne la felicità. Questi nuovi nuclei famigliari saranno decisamente più coesi, sia a causa del distacco fisico dalle terre e dalle famiglie di origine sia per le maggiori difficoltà che incontrano per essere accettati e riconosciuti nel contesto sociale più allargato. La scuola ha dunque il ruolo fondamentale di valorizzare le risorse umane e valoriali di questi bambini, così da favorire uno scambio alla pari tra le esperienze di vita e amore di bambini con background differenti.
5. Il problema di un bambino è un problema famigliare.
Da più di quarant'anni mi occupo di bambini in situazioni di difficoltà. La mia competenza professionale si è arricchita nel tempo, osservando e ascoltando in terapia tanti bambini nelle loro interazioni con genitori, nonni e fratelli. Ma sono stati lo spessore umano del bambino e la sua sensibilità relazionale ad avermi guidato lungo l'intero arco della mia esperienza professionale e personale. Specchiandomi negli occhi di un bambino mi sembra di cogliere l'essenza della vita: l'amore, talvolta la tristezza, la fantasia, la trasparenza, la fiducia incondizionata nei confronti dei genitori. Gli occhi di un bambino parlano e descrivono i punti di forza e di debolezza del suo mondo affettivo.
I suoi disturbi psicologici, siano essi psicosomatici, cognitivi o relazionali, parlano attraverso il corpo o i comportamenti, e indicano la strada per arrivare ai nodi relazionali della famiglia. «Il problema di un bambino è sempre un problema famigliare»: quante volte ho sentito ripetere questo motto dal mio maestro Salvador Minuchin, studioso e clinico di fama mondiale della terapia famigliare. «Un bambino non va visto mai da solo, senza la presenza dei famigliari», è andato ripetendo per anni in un mondo, quello della psichiatria infantile, dove vige la regola opposta: osservare e curare il bambino da solo. L'osservazione delle terapie di Minuchin, i suoi libri9, la sua fiducia incondizionata nei confronti di risorse che vanno sempre ricercate nelle famiglie (anche le più disgregate) e nel contesto sociale mi hanno profondamente ispirato, e il suo motto rappresenta un'idea forte e chiara che dà struttura all'intero impianto del mio modo di pensare e fare terapia. Ne consegue che non solo i problemi ma anche le risorse per superare le difficoltà vanno ricercati nel contesto stesso della famiglia.
Seguendo questa linea di pensiero, non ha senso curare il problema di un bambino staccandolo dalle sue connessioni famigliari; piuttosto sarà utile comprendere il bambino e allearsi con lui per mezzo dei suoi disturbi. Restituire competenza relazionale a un bambino portato in terapia per una sua difficoltà è il primo atto per costruire una complicità terapeutica con lui, e attraverso di lui con la famiglia. Un bambino che presenta un disturbo regressivo come enuresi o encopresi (ovvero farsi pipi o popò addosso), problemi di fobie o di paure (di stare solo, del buio, eccetera), disordini alimentari, della condotta o dell'apprendimento, o che soffre di una qualche disabilità, sarà portato in terapia dai genitori, e il suo atteggiamento iniziale potrà essere caratterizzato ora da imbarazzo ora da ostilità o vergogna. Spesso i bambini si presentano in terapia famigliare secondo le definizioni date loro dagli esperti infantili incontrati prima (pediatra, neuropsichiatra, eccetera): se definiti depressi si comportano da tali, se iperattivi non stanno fermi un momento. Si rappresentano a seconda del sintomo che viene loro attribuito. Per non parlare dei genitori pronti a descrivere con ampi dettagli la natura del problema, portando in seduta sentimenti negativi come frustrazione, senso di impotenza o di fallimento, impliciti e profondi sensi di colpa. Tutto ciò conduce sovente a un sentimento complessivo di infelicità e di preoccupazione. L'obiettivo sarà allora quello di dare un valore diverso e più creativo ai sintomi infantili, e di ricercarne significati relazionali positivi. Se il bambino, anziché essere «un oggetto da osservare» diventa una persona attiva e competente, in seduta sarà più facile far circolare un senso di competenza e di collaborazione anche tra i grandi. Attraverso il gioco, le metafore, il linguaggio simbolico, la costruzione di favole e l'esplorazione della storia della famiglia si possono trasportare da una situazione a un'altra i significati delle parole, dei comportamenti, delle emozioni. Si possono collegare le lacrime o la profonda tristezza che traspare dagli occhi di una bambina alla tristezza che segna il volto di un genitore, e ripercorrere insieme le linee della sofferenza famigliare.
Vediamo di spiegarci meglio con la descrizione di una situazione terapeutica.
Lucia è una bambina di nove anni ed è portata in terapia dai genitori perché da più di due anni soffre di fortissimi disturbi al pancino che la fanno star male sia a casa che a scuola. Di fatto i suoi disturbi, per i quali è esclusa qualsiasi origine organica, tiranneggiano i familiari di giorno e di notte. Lucia ha continue crisi di pianto e spesso sveglia i genitori pretendendo di dormire con loro. La sorellina più piccola, Clara, di quattro anni, sembra essere abbastanza trascurata in quanto non crea problemi in casa, tutte le attenzioni sono rivolte a Lucia. Gianna la madre proviene da un piccolo centro agricolo del Veneto, in cui l'espressione dei sentimenti personali è negata. Renzo il padre è una persona molto insicura, fortemente dipendente che si porta dietro una situazione familiare molto difficile. Gianna e Renzo si sposano dopo tre mesi dalla nascita di Lucia e la cerimonia nuziale viene descritta con Gianna che va all'altare tenendo in braccio la bambina e con Renzo che le segue un po' distante. Un'immagine, quest'ultima, che sembra caratterizzare anche lo sviluppo successivo della famiglia. La vera coppia sono Gianna e Lucia e Renzo non riesce a trovare il suo spazio. Di fatto la bambina regola la vita di relazione dei genitori che non possono fare nulla senza chiederle il permesso e che non sono andati neppure un giorno in viaggio di nozze e che da nove anni non hanno trascorso un fine settimana insieme senza la presenza di Lucia e più tardi di Clara. E la difficoltà non è neppure quella di dove lasciare le bambine dal momento che la mamma e la sorella di lui vivono in un appartamento sullo stesso pianerottolo (!) alla periferia di Roma.
Nel corso della terapia collegare i sintomi infantili di Lucia al pianto e al mal di pancia della mamma quando lei stessa aveva nove anni e la somiglianza tra gli occhi tristi della bambina e quelli sofferenti del padre, permettono di stabilire dei punti di connessione tra il disagio di Lucia e le storie di sofferenza dei genitori, dando un valore relazionale ai sintomi della bambina10.
È fuor di dubbio che se si vuole restituire la felicità a questa bambina di nove anni sarà necessario lavorare sulla distorsione originaria, quella del matrimonio a tre, e liberare Lucia da un ruolo di «collante» che tiene tutti uniti, sostenendo i genitori nella loro piena assunzione di responsabilità.
In altre situazioni in cui i sintomi di un bambino si esprimono attraverso la rabbia e la violenza si può prendere la parte attiva del suo comportamento aggressivo, usarla come un'energia speciale e ridirezionarla, spostando l'attenzione su relazioni violente nel rapporto tra i genitori o all'interno delle famiglie di origine, cercando poi insieme una soluzione e una pacificazione a contrasti ancora attivi o spesso negati. Molti sintomi infantili hanno una «funzione protettiva» nei confronti di problematiche, conflitti e ostilità famigliari che nulla hanno a che fare con il bambino. Noi adulti tendiamo a pensare che la protezione sia un'attitudine che parte da noi e si rivolge ai nostri figli piccoli; in realtà spesso è vero anche il contrario, ed è assolutamente normale che i bambini si preoccupino per i genitori, vista l'importanza che questi ultimi hanno per la loro crescita. Semmai le cose sono più gravi quando assistiamo all'accudimento invertito, ovvero al fenomeno di bambini precocemente adultizzati - come è il caso di Lucia - che devono sostenere troppo a lungo il ruolo di grandi al posto di genitori immaturi o poco responsabili. In simili situazioni il rischio è di privare del sorriso, un bambino per l'intero arco del suo sviluppo e di forgiarne una personalità depressa nell'età adulta. Operando in questo modo, i sintomi infantili diventano una segnaletica assai sofisticata che ci permette di esplorare la storia della famiglia, ricercando in essa nodi problematici e conflitti ancora attivi fra le generazioni. I sintomi infantili diventano allora un'occasione di crescita per tutta la famiglia e in più scompaiono o migliorano nettamente, perché assumono un altro valore all'interno delle relazioni affettive primarie.
Nei miei principali lavori11 ho affermato con forza che la cura di un disturbo infantile non può ridursi a prassi psicologiche, a protocolli e test diagnostici, né tantomeno può basarsi su teorie costruite da noi tecnici e su interventi di esperti dell'infanzia che incasellano i problemi infantili in categorie standardizzate. Né è il ricorso agli psicofarmaci (dilaganti nel mondo anglosassone e sempre più usati dagli psichiatri infantili anche in Italia) la via migliore per restituire la felicità a tanti bambini, che incontrano fin da piccoli la tristezza esistenziale e che la esprimono ora con forme di ritiro ora con l'iperattività o con deficit dell'attenzione.
Nel criticare la terapia farmacologica per quest'ultima sindrome, la cui sigla è Adhd (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder), Franco De Luca12 definisce il Ritalin come la pillola dell'obbedienza, ed esorta a cercare le ragioni profonde della tristezza-depressione infantile piuttosto che a diagnosticare bambini seguendo il protocollo di diciotto comportamenti, facilmente riscontrabili in qualsiasi bambino vivace. Così facendo si è finito per «rubare alla normalità» gli elementi costitutivi di questa diagnosi, che peraltro non ha alcuna base neurologica, mentre è esclusivamente comportamentale.
Ci piace pensare invece che «la famiglia sia la migliore medicina per i bambini»; basta trovarla, agitarla bene e poi somministrarla nei dosaggi e nelle modalità più appropriate al bisogno.
6. Bambini tristi:quando i loro bisogni primari vengono disattesi.
Abbiamo già detto che se i bisogni emozionali primari del bambino vengono disattesi è probabile che subentri in lui uno stato di insicurezza e di tristezza esistenziale, che diventa una seria minaccia al suo sviluppo armonico.
Purtroppo ci sono molte situazioni che possono segnare profondamente il bambino e comprometterne una crescita sana: basti pensare ai drammatici «tradimenti nell'amore» causati dalle crescenti forme di abuso fisico e sessuale perpetrate spesso in famiglia, e le profonde conseguenze che questi eventi possono avere nella struttura di personalità di chi li ha subiti.
La trattazione degli abusi infantili richiederebbe molte riflessioni e uno spazio assai maggiore. Qui ci limiteremo a illustrare brevemente soltanto due evenienze, molto diverse tra loro ma sconvolgenti per il bambino.
6.1. La perdita prematura di un genitore.
La morte prematura di un genitore è un'esperienza devastante per un bambino; può minarne alla base il senso di sicurezza e di fiducia nei confronti della vita e della stessa famiglia. Spesso la sofferenza di un bambino non viene sufficientemente compresa e accettata dal genitore sopravvissuto e dalla famiglia in generale, sia perché si manifesta in forme diverse da quelle dei grandi sia per la paura degli adulti di sbagliare nei modi in cui affrontarla. Per gli adulti è insopportabile accostarsi alla profondità della sofferenza infantile di fronte alla perdita totale dell'amore e della continuità affettiva di un genitore; se a questo si aggiunge il sentimento di impotenza del genitore sopravvissuto a cambiare per il bene del figlio una situazione irreversibile, il risultato è lo smarrimento totale. Non sapendo come entrarci, i famigliari finiscono talvolta per ignorare o sottovalutare il dolore del bambino, ricorrendo a mille strategie per distrarlo e rassicurarlo.
Le reazioni del bambino di fronte al lutto sono molto diverse da quelle dell'adulto, che generalmente manifesta uno stato di costernazione costante e duraturo. I sentimenti di un bambino, seppure intensi, non seguono un percorso lineare e sono più impliciti e indiretti; un bambino può piangere disperatamente, può esprimere la paura di essere abbandonato, ma cinque minuti dopo può mettersi a giocare con le sue macchinette o con i suoi amichetti, come nulla fosse; oppure può comunicare il suo vissuto di perdita attraverso un disegno o uno scarabocchio. Se poi si tratta di un bambino più grande, il dolore può essere espresso indirettamente attraverso il comportamento (di rifiuto, di iperattività, di aggressività), per mezzo del corpo con la manifestazione di disturbi psicosomatici, oppure con sintomi regressivi, bagnando il letto o perdendo l'appetito, come a voler tornare a una fase di sviluppo precedente. L'elemento comune, al di là dell'età, è un sentimento di profonda infelicità e di tristezza, che può permanere anche a lungo nella crescita e, qualora non ci sia stata una elaborazione del lutto, può condurre a uno stato depressivo importante in età adulta. Perciò è necessario che il bambino sia aiutato a comunicare apertamente le emozioni provocate dalla perdita e che il genitore e gli altri famigliari significativi siano in grado di stare a contatto con il suo dolore e di ascoltare la sua voce. Questo ci porta nuovamente a interrogarci sulla qualità delle relazioni famigliari e sulla capacità del genitore sopravvissuto di non prendere tutto su di sé il peso del dolore, della disperazione, facendo invece partecipare il figlio all'inevitabile sofferenza provocata dalla morte di una persona così importante; questo vale dall'inizio, dalle fasi che precedono la morte (dalle cure in casa alla eventuale degenza in ospedale) fino al rito funebre, a cui i bambini dovrebbero partecipare in modo attivo, magari portando con sé, se lo desiderano, un disegno o un oggetto speciale come dono da lasciare per il genitore defunto.
Murray Bowen, noto studioso della famiglia, ribadisce13 che i figli piccoli hanno bisogno di esprimere apertamente, con il loro linguaggio e i loro tempi, il dolore che provano e di trovare cose concrete a cui legare il ricordo del genitore, cose che diventano un tesoro prezioso ben presente nella vita interiore di una persona e che nessuno può portare via. Sono aspetti importanti per «guarire dalla tristezza», ma se a un figlio non sarà permesso di esprimersi, di piangere e di essere consolato per la perdita subita, è possibile che non si liberi da uno stato di infelicità permanente e che da adulto viva in una condizione di sospensione, come se neppure il tempo fosse riuscito a lenire il dolore e a colmare il vuoto.
Giovanna, una ragazza di dodici anni viene portata in terapia dalla madre a causa dei crescenti conflitti tra lei e la figlia, ma ancora di più in conseguenza dei comportamenti aggressivi di quest'ultima nei confronti del nuovo compagno della madre. Giovanna non lo sopporta e non accetta alcuna regola o rimprovero da parte di quest'ultimo. Torna a casa sempre tardi e va molto male a scuola. La mamma non capisce cosa le stia succedendo e la rimprovera aspramente, dicendo che è del tutto insensibile al suo dolore per la morte del marito, che risale a poco più di due anni, mentre lei, infermiera, si ammazza di lavoro per tirarla su. Di questa perdita non si è mai parlato: «Sarebbe stato troppo doloroso per entrambe», dirà la madre durante una delle prime sedute, e ancor meno dopo l'arrivo del nuovo compagno della madre in casa che, con la sua presenza di uomo, dovrebbe colmare il vuoto lasciato dal padre di Giovanna. Non c'è stato il tempo per fermarsi e stare con il dolore di una perdita così dura sia per la madre che per la figlia. Il lavoro, un nuovo compagno per «restituire una figura paterna a Giovanna» da un lato, le risposte tutte esterne e negative della figlia, fare tardi, andare male a scuola, nonché il rifiuto aggressivo del padre sostituto sono risposte emotive comprensibili e umane, ma tutte volte ad andare oltre anziché fermarsi ed entrare nel vuoto lasciato da questa perdita14.
E questo sarà proprio il compito della terapia, di entrare nel vuoto e far esprimere apertamente, con i loro diversi linguaggi, madre e figlia, facendo circolare la sofferenza per una perdita comune, così da ritrovare un contatto profondo tra la madre e Giovanna che dia senso alle cose e anche ai nuovi rapporti.
6.2. Bambini contesi in famiglia.
Molti dei bisogni emozionali primari sopra descritti non vengono soddisfatti quando i bambini sono contesi da genitori immaturi che li utilizzano e strumentalizzano nei loro contrasti di coppia, finendo per produrre, a volte inconsapevolmente, veri e propri abusi affettivi nei confronti di figli in età evolutiva.
Negli ultimi decenni si assiste a un fenomeno assai preoccupante: quello di crescenti disgregazioni nei primissimi anni di formazione della famiglia, con la presenza di uno o due figli molto piccoli. L'esperienza terapeutica ci conferma quanto sia delicato e spesso conflittuale il passaggio dall'essere una coppia al divenire famiglia, come se l'arrivo di un figlio, anziché rappresentare un elemento di unione e di coesione, possa diventare invece una minaccia alla stabilità coniugale.
La difficoltà nel passaggio da un amore romantico a due a una dimensione affettiva a tre, dove la passione si sposta inevitabilmente nel rapporto genitore-bambino, può far crollare l'intera impalcatura affettiva e portare a precoci disgregazioni famigliari, se i genitori non sanno o non vogliono accettare il cambiamento. L'amore coniugale non finisce con l'arrivo di un figlio, ma si trasforma positivamente, a patto che la moglie sappia far sentire pienamente il proprio affetto al marito e quest'ultimo non si metta in competizione con il nuovo arrivato.
La perdita della continuità e della stabilità affettiva in situazioni di divorzio è sempre un trauma rilevante per il figlio, ma sarà ancor più difficile superarlo se i bambini diventeranno materia del contendere tra genitori in guerra fra di loro, spesso per ragioni strumentali ed economiche, cosi che l'amore per il figlio viene filtrato e contaminato attraverso operazioni legali e cause giudiziarie. Va pure considerato che nella mente di un bambino piccolo è frequente l'idea che i genitori possano separarsi perché lui è stato cattivo. La infelicità di un bambino è un'evenienza terribile quanto probabile se viene a mancare da parte della coppia coniugale l'accettazione del fallimento di un progetto di vita comune, con tutta la sofferenza che ne consegue, e se a questa elaborazione viene sostituita la logica «del vincitore e del vinto», che non permette di anteporre il benessere di un figlio al desiderio di rivalsa o di vendetta affettiva di un adulto nei confronti dell'altro.
La separazione coniugale, benché molto frequente, è sempre una vicenda dolorosa, sia per gli adulti sia per i bambini: di fatto è una sorta di lutto parziale e come tale va rispettata ed elaborata, così che con il tempo e con l'impegno di tutti possa tramutarsi da perdita affettiva a punto di forza e di crescita tanto per i genitori quanto per i figli. Talora in questo percorso non facile può essere una grande risorsa la presenza e l'impegno attivo dei nonni, per assicurare quella stabilità affettiva così necessaria al benessere dei bambini.
In molte situazioni di crisi di coppia si assiste oggi, per fortuna, al ricorso di interventi di mediazione o di psicoterapia famigliare, che permettono, in un contesto neutrale e protetto, di aiutare adulti in difficoltà a riscoprire il buon senso e un atteggiamento più responsabile per garantire la felicità dei propri figli. Si può così imparare a sciogliere legami di coppia non più vitali, ma allo stesso tempo a preservare e condividere relazioni genitoriali sane e autentiche per il bene dei figli.
La situazione che riportiamo è emblematica di come si possa seguitare a contendersi un figlio per anni, magari attraverso le sue stesse manifestazioni sintomatiche, pur di evitare la cosa in apparenza più ovvia: quella di separarsi realmente dopo il divorzio.
Gianni è un bambino di undici anni, portato in terapia perché da circa due anni soffre di un encopresi molto fastidiosa, che si presenta sia a casa che a scuola, con conseguente vergogna del bambino e apprensione dei genitori.
I genitori di Gianni si sono separati quando il bambino aveva quattro anni, ma in realtà tra di loro non è mai avvenuto un chiaro distacco affettivo, con la conseguenza che il figlio è costantemente triangolato dai due genitori e dalle rispettive famiglie di origine. Il legame distorto della coppia, negato a livello ufficiale, viene rinforzato da Gianni che con la sua «cacca addosso» fa da ponte tra le due famiglie.
Padre e madre si contendono l'affetto del figlio, squalificandosi costantemente di fronte al bambino e incolpando ciascuno l'altro del fastidioso sintomo del bambino. Maria, la madre ritiene che i disturbi del bambino aumentano dopo essere stato a casa del padre nel fine settimana, e considera la nuova relazione affettiva dell'ex marito come causa scatenante del disturbo del figlio. A sua volta, il padre Pino accusa l'ambiente familiare di Maria (la rigidità e l'autoritarismo della madre di lei e la posizione succube del padre) come causa dei disturbi di ansia e dell'encopresi del figlio. Così la cacca di quest'ultimo diventa una sorta di «colla» che tiene tutti uniti in una costruzione rigida e confusiva15.
La terapia famigliare a cui prenderanno parte in modo alternato Gianni, i genitori e financo le famiglie di origine permetterà di arrivare con l'impegno di tutti a un distacco vero tra i coniugi, conditio sine qua non per qualsiasi ulteriore cambiamento. Una volta riusciti a separarsi e a recuperare un senso di integrità personale, Pino e Maria saranno in grado di fare bene i genitori, rispettando i propri spazi affettivi e le reciproche competenze genitoriali. Gianni non avrà più bisogno di tenerli uniti con uno strano sintomo regressivo: dopo aver pagato di persona un prezzo pesante per l'immaturità dei genitori, potrà finalmente recuperare il sorriso e proiettarsi sereno nel mondo dei coetanei.
7. L'influenza dell'infanzia dei genitori nel benessere dei figli.
È fuor di dubbio che le vicende di crescita dei genitori abbiano una forte influenza sulla costruzione dell'identità e sulla felicità/infelicità dei figli. Se pensiamo allo sviluppo affettivo di una persona come a un equilibrio dinamico tra bisogni di appartenenza da un lato ed esigenza di separazione dall'altro, potremmo valutare come funziona nel tempo la bilancia degli affetti.
In Dalla famiglia all'individuo Murray Bowen descrive in modo originale ed esaustivo il lungo processo di emancipazione di ciascun individuo dalla propria famiglia di origine, che chiama appunto differenziazione del Sé. Le appartenenze famigliari sono quel patrimonio valoriale e affettivo che riceviamo in dote dalle famiglie di origine fin dall'inizio della nostra crescita, fatto di tradizioni, miti famigliari, valori religiosi e sociali, e che concorre alla costruzione della nostra identità. Allo stesso tempo, sull'altro piatto della bilancia potremo mettere le nostre conquiste di autonomia individuale, che si raggiungono e si modificano nell'intero arco dell'esistenza (la nascita, i primi passi, l'entrata nella scuola, il distacco nell'adolescenza, il lavoro, il matrimonio, la nascita di un figlio) e che hanno un valore altrettanto fondamentale per la nostra maturazione.
Perché le cose vadano bene bisogna che la bilancia stia in equilibrio e non penda eccessivamente da un lato o dall'altro. Se il peso delle appartenenze è troppo gravoso, una persona potrà fin da piccola avvertire la difficoltà a raggiungere i propri traguardi di autonomia e rimanere fortemente indifferenziata e dipendente dalla famiglia di origine; al contrario, se il desiderio o la spinta a separarsi saranno troppo forti o prematuri, ci si potrà trovare più soli e impreparati ad affrontare le difficoltà della vita, come se venissero a mancare delle figure guida. In questi casi, piuttosto che separarsi dalle famiglie si finisce per «fuggire di casa», con il rischio di non trovare un approdo sicuro.
Quando ci si sposa e poi si diventa genitori bisogna fare i conti con la propria bilancia degli affetti, ovvero con le conquiste e i limiti con cui si è usciti di casa. Se si è rimasti troppo dipendenti rispetto alle famiglie di origine e scarsamente autonomi, questi modelli di comportamento verranno trasmessi anche ai figli, che avranno maggiori difficoltà a emanciparsi; se invece si è «fuggiti di casa», ostentando una totale autosufficienza, i figli saranno influenzati dai tagli emotivi vissuti dai genitori e avranno difficoltà a costruirsi relazioni soddisfacenti e stabili. Le «distorsioni evolutive» di un individuo dovranno però fare i conti anche con quelle del partner e insieme verranno trasmesse ai figli, un po' come accade per il patrimonio genetico. Per fortuna, nelle diverse tappe del ciclo evolutivo della famiglia, i nuovi rapporti e gli eventi della vita offriranno a ciascun individuo un'opportunità speciale per modificare i propri stili comportamentali e per arricchirli con ulteriori conoscenze e apprendimenti. In questo processo di sviluppo, l'amore incondizionato per i bambini e l'ascolto dei loro bisogni possono essere un'occasione straordinaria di cambiamento e di crescita per i genitori: le carenze infantili di questi ultimi non danneggeranno così i figli, che potranno crescere sani e felici.
Diverso sarà lo scenario se i genitori non sapranno liberarsi del peso delle proprie vicende infantili e dei problemi irrisolti con le famiglie di origine: se li faranno ricadere nel rapporto con i figli, influenzeranno negativamente la loro crescita, privandoli così della gioia e della libertà di vivere appieno l'infanzia. E il motivo che ha spinto tanti studiosi e psicoterapeuti ad affrontare i problemi infantili con una lente sistemica, volta a osservare la dinamica delle relazioni famigliari su almeno tre generazioni.
8. I bambini hanno diritto alla felicità?
La felicità è come l'amore. È un sentimento che non si può prescrivere in farmacia, né si può imporre per legge.
Togliere la felicità a un bambino è un «danno evolutivo» irreparabile; è come privarlo dell'innocenza e del sorriso alla vita, ingredienti basilari per una crescita sana. Gli eventi avversi dell'esistenza (separazioni, malattie, morti premature, sradicamenti, fallimenti economici, perdita del lavoro, eccetera) sono parte della nostra condizione umana. Sono traumi duri ma superabili nel tempo, a condizione che i genitori riescano ad affrontarli insieme, con senso di responsabilità e attingendo alle risorse affettive del loro mondo famigliare e sociale; e, allo stesso tempo, dando amore e protezione ai figli piccoli, che ne ricompenseranno sforzi e sofferenze con la loro inesauribile creatività e gioia di vivere.
Noi adulti, genitori, insegnanti, amministratori, politici avremmo la bacchetta magica per far crescere felici i bambini. Ma troppo spesso non sappiamo come usarla o, molto peggio, la sostituiamo con il bastone della violenza, dell'abuso, della sopraffazione, dell'ingiustizia sociale, del profitto, della troppa ricchezza o della troppa povertà. Così facendo, provochiamo danni irreparabili in tanti bambini che affacciano alla vita con la speranza di irradiare l'universo che li circonda del loro sorriso e della loro innocenza, e che scoprono troppo presto che la felicità non esiste e che va indossata la maschera della tristezza e del dolore in un mondo senza amore.
MAURIZIO ANDOLFI. Neuropsichiatra infantile, è professore ordinario di Psicodinamica dello sviluppo e delle relazioni famigliari presso la facoltà di Psicologia dell'Università La Sapienza, nonché direttore dell'Accademia di psicoterapia della famiglia di Roma. Fondatore della European Family Therapy Association, di cui è stato vicepresidente, è inoltre presidente della Fondazione Silvano Andolfi. Dirige la rivista «Terapia Familiare» ed è autore e curatore di numerosi saggi.
NOTE
1 J. Bowlby, Attaccamento e perdita. L'attaccamento alla madre, Bollati Boringhieri, Torino 1972.
2 H. Smith, Bambini infelici. Quali le ragioni, quali i rimedi, Armando Editore, Roma 2000.
3 M. Andolfi, Il padre ritrovato, Franco Angeli, Milano 2001.
4 S. Bartolini, Manifesto per la felicità, Donzelli, Roma 2010.
5 N. W. Ackerman, Psicodinamica della vita familiare, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
6 S. Neri, I saperi irrinunciabili, in M. Andolfi e P. Forghieri Manicardi (a cura di), Adolescenti tra scuola e famiglia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
7 F. Walsh, Coppie sane e coppie disfunzionali: quali differenze? In: M. Andolfi (a cura di), La crisi della coppia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999.
8 A. Oliverio-Ferraris, Il terzo genitore, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.
9 S. Minuchin, Famiglia e terapia della famiglia, Astrolabio, Roma 1976; Id. e M. P. Nichols, Quando la famiglia guarisce, Rizzoli, Milano 1993.
10 M. Andolfi e al., ll bambino come risorsa nella terapia familiare, A.P.F., Roma 2007.
11 M. Andolfi, La terapia con la famiglia, Astrolabio, Roma 1977; Id. (a cura di), Il bambino nella terapia familiare, Franco Angeli, Milano 2010; Id., C. Angelo, P. Mengbi e al., La famiglia rigida, Feltrinelli, Milano 1982; M. Andolfi e C. Angelo, Tempo e mito nella psicoterapia familiare, Bollati Boringhieri, Torino 1987.
12 F. De Luca, Bambini e (troppe) medicine, Il Leone Verde, Torino 2009.
13 M. Bowen, Dalla famiglia all'individuo, Astrolabio, Roma 1979
14 M. Andolfi e al., Il bambino come risorsa nella terapia familiare cit
15 M. Andolfi e al., Il bambino come risorsa nella terapia familiare cit.