Quando chiediamo a un genitore come si augura che diventi il figlio, una volta divenuto grande, la risposta potrebbe essere per lo più: «Vorrei che mio figlio diventasse indipendente, che diventasse autonomo e in grado di affrontare le difficoltà della vita». Ma cosa vuol dire "essere indipendente", o "essere dipendente"? Quali modalità di accudimento da parte dei genitori portano ad avere un figlio indipendente e autonomo? La teoria dell'attaccamento, elaborata da uno psichiatra inglese di nome John Bowlby (1969,1973,1980), e i risultati delle ricerche condotte all'interno di questo paradigma danno una risposta esaustiva a entrambi questi quesiti.
Bowlby, utilizzando una prospettiva darwiniana, parte dal presupposto che gli esseri umani appartengono a una specie animale sociale, sono primati umani, il che significa che una larga parte delle loro caratteristiche è simile a quelle possedute dai primati non umani, in particolare è simile a quelle delle scimmie antropomorfe; come tali gli uomini sono geneticamente propensi a vivere in gruppi, a essere sociali e ad avere determinati stili di vita che presuppongono la capacità di esplorare in maniera attiva il proprio ambiente, quello fisico, ma in modo più specifico quello costituito dalle persone che vivono nei loro stessi contesti.
Tuttavia la capacità di esplorare, pur essendo innata, si sviluppa a condizione che un bambino esperisca sin dall'infanzia una "base sicura", un qualcuno - che per lo più è la madre biologica - la quale si costituisca come una figura dalla quale allontanarsi al fine di conoscere il mondo, ma alla quale poter tornare onde ricevere protezione nel caso vi sia un pericolo, o si avverta un malessere fisico o si abbia un turbamento emotivo. A tal fine una programmazione biologica fa sì che fin dalla nascita gli individui siano dotati di un sistema motivazionale, detto sistema dell'attaccamento, che ha lo scopo di mantenere in equilibrio le condizioni interne della sicurezza con quelle esterne, quelle che caratterizzano l'ambiente in cui si trovino a vivere.
Sicurezza esterna e interna
Un bambino, ma anche un adulto, si sente sicuro (ovvero sine cura, senza preoccupazione alcuna) se l'ambiente è "sicuro", se non è connotato da pericoli, mentre si sente insicuro se l'ambiente è pericoloso. Il pericolo, peraltro, non è solo nei contesti. Anche uno stato di malessere fisico o di vulnerabilità emotiva può costituire, come dicevamo, un "pericolo". Quando queste molteplici condizioni di pericolosità non sono presenti un piccolo è in grado di attuare il suo programma genetico di individuo sociale: più precisamente, è in grado di esplorare e di allontanarsi; se è in grado di camminare, o, se è ancora nel suo primo anno di vita, è capace di stare rilassato, di non piangere, di guardarsi intorno. È in grado di essere autonomo! Ma quando per qualche motivo si presentano le condizioni cui accennavamo, il sistema dell'attaccamento si attiva, segnala la pericolosità dell'ambiente, e fa cessare l'esplorazione. Questo sistema ha quindi lo scopo di consentire l'esplorazione solo in condizioni di sicurezza. Non solo. Esso regola i rapporti tra esplorazione e accostamento alla base sicura.
In età infantile quando si verificano quelle condizioni esterne che ai primordi della specie potevano portare alla morte - quali il trovarsi da solo, o lo stare al buio, o essere in presenza di estranei, o in luoghi estranei - o sono presenti le condizioni interne, cui accennavamo, quali avere un malessere o avere un problema emotivo, il sistema dell'attaccamento porta immediatamente alla messa in atto di una serie di comportamenti e all'espressione di quelle emozioni che più possano assicurare l'accostamento della madre (o di chi abbia una funzione principale di accudimento), e/o che abbiano il potere di farla rimanere vicina. Attraverso questo meccanismo viene mantenuta in equilibrio la tendenza, in assenza di pericolo, all'esplorazione dell'ambiente fisico e sociale, allo stesso tempo la tendenza a ritornare vicino alla madre, nel caso le informazioni segnalino un possibile rischio, e la disponibilità a riprendere a esplorare quando le circostanze ambientali cambiano e il sistema dà il segnale di "cessato pericolo".
Il funzionamento del sistema dell'attaccamento può essere assimilato, in parole povere, a quello di un termostato che regola la temperatura in un ambiente. Se si fissa una certa temperatura come ottimale, il termostato verifica se in quel locale specifico vi siano i gradi previsti. Nel caso la temperatura sia diversa da quella prefissata, il termostato annuncia il segnale di avvio e fa partire la caldaia. II termostato provvede a monitorare continuamente le condizioni ambientali e, nel momento in cui la temperatura fissata sia stata raggiunta, emette un segnale che fa in modo che la caldaia smetta di funzionare.
La sicurezza, in altri termini, date le condizioni di pericolo in cui vivevano i primi uomini, si è andata configurando, nei milioni di anni che hanno caratterizzato la nostra evoluzione, nel mantenimento del contatto con la propria figura di attaccamento, con la figura più pronta a proteggere in caso di necessità. Questa figura è per lo più la madre biologica, ma può essere chiunque fornisca al piccolo cure continuative e costanti (da ora in poi, tuttavia, faremo riferimento a questa Figura come "la madre"). La sicurezza, peraltro, è data anche dall'aspettativa che in caso di necessità quella figura si mostri pronta a intervenire. Ed è per questo che a scatenare l'ansia, la paura, la rabbia di un bambino non sono solo le condizioni di pericolo di per sé, o l'assenza della madre, ma la sensazione che questa non sia disponibile a intervenire quando necessario.
Gli studi etologici
Il bisogno di sentirsi protetto e il conforto derivato dal contatto emergono, peraltro, come variabili cruciali nella formazione della relazione del piccolo con la propria madre anche in una serie di studi condotti sui macachi (Harlow ,1958; Harlow e Mears, 1979), nostri parenti prossimi visto che con questi condividiamo il 96% delle nostre caratteristiche genetiche, così come il soddisfacimento di questi bisogni appare al pari della base che consente l'esplorazione e l'autonomia. Dalle ricerche messe a punto per studiare l'alimentazione di questi primati non umani si evince, peraltro, che, il contatto con la madre è per i piccoli essenziale alla loro sopravvivenza e prioritario, a tal fine, anche rispetto al cibo. Uno dei primi esperimenti di Harlow prevedeva che dei piccoli, subito dopo la nascita, fossero tolti alle madri naturali, inseriti in delle gabbie di ferro, ciascuno in una gabbia diversa, e allattati con il biberon. Le scimmie sopravvivevano, ma con grande difficoltà. Molte andavano incontro a una totale alterazione dell'omeostasi fisiologica: avevano diarrea, disturbi del sonno, alterazioni del battito cardiaco. Alcune morivano entro i primi cinque giorni. Vivevano meglio quelle che, per caso, avevano trovato sul fondo della gabbia dei pezzi di stoffa. Se li avvolgevano intorno al corpo e al capo e sembravano trarne conforto. Meglio se si trattava di panni morbidi.
In altri termini, non era il cibo a garantire la possibilità di sopravvivere, tant'è che quando vennero inserite nelle gabbie delle sagome di scimmia, ovvero dei simulacri di madre, alcune costruite con un filo di ferro e dotate di un biberon pieno di latte, altre ricoperte di panno morbido, ma senza biberon, i piccoli si accostavano alla "madre" di filo di ferro per succhiare, ma trascorrevano la maggior parte del tempo aggrappati alla "madre" di panno morbido, fenomeno che appariva ancora più evidente nel caso fossero stati esposti ad alcuni stimoli che suscitavano paura.
Questi studi individuarono poi, nel poter disporre di un qualcosa di morbido e di caldo, le variabili minime che scatenano "l'amore" filiale, la sicurezza e la capacità di avere un'attività esplorativa. Non a caso l'essere morbida e calda è la caratteristica di base di una madre scimmia e quindi anche di una madre umana. Quando i macachi vennero isolati in gabbie di ferro nelle quali avevano a disposizione un rotolo di panno, ma decisamente freddo, e vennero sottoposti a stimoli tali da incutere forte paura, i piccoli terrorizzati non riuscirono a trovare conforto in quel panno, rimasero rannicchiati, disperati, in fondo alla gabbia, e non riuscirono più-ad affrontare lo spazio e a esplorare; reazione che apparve ancora più intensa in assenza di qualsiasi surrogato di madre.
Effetti della separazione
Nella stessa direzione vanno gli esperimenti condotti da Hinde, ancora sui macachi (Hinde e McGinniss, 1977), i quali possono venir considerati alla stregua di prove scientifiche di un legame causale tra esperienze precoci distorte e turbe successive del comportamento. I suoi lavori mostrano, infatti, gli effetti devastanti, a breve e a lungo termine, della separazione dalla madre sia per ciò che concerne l'organizzazione emotiva che la capacità di allontanarsi ed esplorare.
Se le madri di piccoli Rhesus di 20-30 settimane venivano allontanate per 6 giorni dal gruppo nel quale erano vissute, i piccoli, pur rimanendo nella stessa situazione sociale e fisica, attraversavano fasi di "protesta", caratterizzate da molti richiami, e di "disperazione", caratterizzate da attività ridotta, posture rannicchiate, assenza di esplorazione, le quali rivelavano fino a che punto risentissero della separazione. Al rientro della madre nel gruppo, la relazione ritornava solo lentamente al suo corso precedente e le conseguenze di questa esperienza, in termini di comportamento disadattato, impulsivo e incontrollabile, si potevano ritrovare anche un anno dopo. Le fasi della protesta e della disperazione si riscontravano, peraltro, anche se la separazione dalla madre avveniva tramite l'allontanamento del piccolo dal gruppo: tuttavia, in questo caso, gli effetti sull'assetto emotivo apparivano meno gravi. E non a caso, nella nostra specie umana, si è spesso rilevato che certi adolescenti con problemi comportamentali hanno avuto esperienze di separazione da piccoli, così come dai racconti di pazienti con disturbi della personalità, emergono esperienze di separazioni e perdite subite in età precoce.
In altri termini il legame madre-figlio ha una sua motivazione primaria e non secondaria rispetto al soddisfacimento del bisogno di essere alimentato, e anche nella nostra specie, come già accade per i macachi, la sopravvivenza dei piccoli è assicurata non solo dal cibo ma da un genitore (una figura morbida e calda) con cui possano avere contatto. Nel nostro ambiente di adattamento evoluzionistico, per un piccolo era essenziale cercare protezione dai pericoli costituiti dai predatori e da conspecifici non familiari nella prossimità con la madre. Il bambino è, pertanto, motivato a mantenere il contatto con la sua figura di accudimento perché è il contatto, di per sé, che gli consente di sopravvivere. E solo la sensazione di poter usufruire di quel contatto in caso di necessità lo fa sentire autonomo e in grado di allontanarsi per esplorare.
Alla luce di quanto abbiamo detto appare evidente che un forte sostegno familiare, usufruire di una madre che sia sensibile e responsiva — ovvero che sia in grado di riconoscere i segnali di richiesta di conforto e contatto del proprio piccolo o le sue espressioni di ansia e di paura (è questa la sensibilità materna) — e che sia disponibile a rispondere a essi con prontezza (quella che viene per l'appunto detta responsività), che sia capace quindi di porsi come "base sicura", lungi dall'indebolire la fiducia in sé stesso e mantenere l'individuo in uno stato di eterna fanciullezza, promuove l'autonomia e la possibilità di divenire un adulto competente.
La sensibilità materna
Un rapporto solido con i propri genitori fa sì che il bambino prima, l'adolescente poi, e infine il giovane uomo si-possano allontanare per una serie di esplorazioni sempre più lunghe. La possibilità di divenire indipendenti, di divenire adulti in grado di avere una vita soddisfacente è, in altri termini, funzione dell'aver usufruito, sin dai primi anni di vita, di un contesto di protezione e di sicurezza affettiva, di aver avuto legami fondati su quello che viene detto "attaccamento sicuro".
Queste esperienze precoci portano ad avere una rappresentazione mentale di sé stessi in termini di persone degne di essere amate e specularmente un'immagine degli altri come ben disponibili nei propri confronti e pronti ad aiutare in caso di necessità. Si tratta di modi di vedere sé stessi e gli altri che vengono detti "modelli operativi interni": una volta formate, queste rappresentazioni saranno utilizzate inconsapevolmente come delle mappe che indirizzeranno il proprio comportamento e regoleranno le proprie aspettative nei riguardi degli altri, nei percorsi che portano alla vita adulta. Modelli operativi interni di tipo sicuro aiuteranno a individuare a qualunque età le persone in grado di fornire conforto perché si porranno come "filtro" nei processi di elaborazione delle informazioni e dirigeranno l'attenzione su quelle che sono le caratteristiche di affidabilità dei propri interlocutori, i quali saranno scelti per questo come figure affettive; questi processi contribuiranno a instaurare rapporti emotivamente gratificanti, faranno riconoscere i propri stati interni e i propri dolori e spingeranno a esprimere le proprie emozioni, a chiedere aiuto alle persone con cui si abbia un legame significativo. L'autonomia e l'indipendenza si coniugano, in altri termini, con la dipendenza, e sono di questa una diretta conseguenza. La dipendenza, intesa come capacità di riconoscere l'importanza delle persone con le quali si ha un legame affettivo, viene vista, in quest'ottica, come prerequisito dell' adulthood e dell'autonomia. La richiesta del soddisfacimento dei bisogni di protezione viene considerata una capacità caratterizzante una personalità sana.
«Molte forme di personalità disturbata riflettono la capacità menomata di individuare figure appropriate e volonterose e/o una capacità menomata di instaurare relazioni gratificanti con tali figure, una volta trovate. Questa menomazione può essere di vario grado e assumere molte forme, come l'aggrapparsi ansioso, il fare richieste eccessive o sproporzionate a età e situazioni, il distacco disimpegnato e l'indipendenza provocatoria» (Bowlby, 1979).
Un legame ambivalente
Peraltro, a determinare l'indipendenza, intesa per l'appunto come capacità di non dipendere dagli altri, contribuiscono tutte le esperienze dell'infanzia e dell'adolescenza e non solo esclusivamente quelle dei primissimi mesi o anni. E, non a caso, durante l'adolescenza, è nei ragazzi con relazioni di attaccamento sicure che si realizza più facilmente come un equilibrio tra gli sforzi per ottenere l'autonomia, tipici di questa stagione della vita, e il senso dei propri legami famigliari. Diverso il percorso di quegli individui che abbiano esperito cure affettive carenti, distorte, o che non abbiano avuto affatto una persona con funzioni materne. Una madre e/o un padre che si rivelino incapaci di porre delle regole e di farle rispettare, eccessivamente intrusivi, continuamente interferenti con le attività del figlio e iperprotettivi al fine di ottenere da questo una risposta ai propri personali bisogni affettivi e alle proprie ansie, altamente imprevedibili in quanto oscillanti in maniera confusa e confondente tra l'accorrere alle richieste di conforto e l'ignorarle - all'interno di un legame di attaccamento che viene detto "ambivalente" - si pongono come fattori di rischio ai fini del raggiungimento dell'autonomia e dell'indipendenza. L'insicurezza, per ciò che concerne la possibilità di usufruire in maniera costante di protezione o di conforto in caso di necessità, porta ad avere una rappresentazione di sé stesso, un modello operativo interno del self, come eternamente debole e vulnerabile, e una rappresentazione dei genitori e quindi degli altri come non degni di fiducia e pertanto da controllare. Di qui una rabbia sottile per non poter contare sulle proprie figure di accadimento; rabbia che dà luogo, nel corso del tempo, a una forte ostilità nei riguardi di genitori che vengono visti come inadeguati e ingiustificabi li. Allo stesso tempo questa ostilità si tramuta in una difficoltà ad allonta narsi da casa, ad esplorare un mondo esterno che viene visto come minaccioso, inaffidabile e incontrollabile.
I bambini ambivalenti possono immediatamente essere riconosciuti in quelli che hanno difficoltà insormontabili a separarsi dai genitori nei primi giorni di frequenza dell'asilo nido o della materna, quelli che piangono disperati e che sono inconsolabili, quelli che rimangono in un angolo e non riescono a inserirsi nei giochi dei loro coetanei, quelli che si stringono alla maestra e non vogliono allontanarsene, quelli che possono arrivare a picchiare la propria madre quando va a riprenderli, quasi a far da deterrente a che lei continui a essere imprevedibile, visto che questo li fa sentire sempre in pericolo.
I bambini ambivalenti nei loro attaccamenti possono correre il rischio, una volta diventati adulti, di rimanere come invischiati nella famiglia di origine, in un rapporto che apparentemente si configura come molto stretto ma che di fatto è soffocante e marca una dipendenza malata.
Il rifiuto del conforto
Le persone che in età infantile abbiano fatto esperienze di genitori pronti a spingere verso un'autonomia precoce e non commisurata alla loro età, di genitori che abbiano costantemente respinto e ridicolizzato le richieste di conforto in quanto ritenute non appropriate — all'interno di un legame di attaccamento che viene definito "evitante" - elaborano un'immagine di sé come non degno di essere amato, e un modello operativo degli altri come decisamente ostili. L'essere stati costretti a fare da soli quando i loro anni non lo avrebbero consentito, li porta tuttavia a presentare un falso sé, un sé grandioso che li fa apparire fortemente indipendenti e autonomi. Di fatto la loro indipendenza si fonda su un pervasivo atteggiamento denigratorio nei riguardi degli altri, su un'incapacità di riconoscere nelle persone che incontrano esseri umani con un loro valore, in alcuni casi su una tendenza a idealizzarli così che ne esce tarpata la possibilità di instaurare relazioni affettive basate sulla reciproca comprensione e sostegno.
In un asilo nido o in una scuola materna o elementare si riconoscono come evitanti quei bambini o ragazzi che sin dai primi giorni sembrano non essere toccati dall'allontanamento della madre, quelli che sembrano intenti a giocare e che esibiscono una capacità di fare da soli al di sopra di quello che ci si aspetta da un bambino della loro età, quelli che giocano in maniera indifferenziata con tutti, ma che di fatto non hanno amici stretti, quelli che non si lamentano mai, quelli che possono rivelarsi molto aggressivi sia in maniera diretta che attraverso l'appropriarsi violento dei giocattoli degli altri.
Condizioni di vulnerabilità
E ciò che appare come autonomia e indipendenza è di fatto un'indipendenza coatta che ha poco del comportamento esplorativo e flessibile basato sulla capacità di esprimere sia le emozioni di sconforto che quelle di benessere e sulla capacità di formare relazioni significative che caratterizza i bambini o gli adulti sicuri nei loro attaccamenti. Non a caso le forme di maternage che abbiamo descritto possono creare condizioni di vulnerabilità che in alcuni casi si tramutano in sintomi di tipo psicopatologico o in disturbi del comportamento già nell'infanzia o nell'adolescenza o più tardi nell'età adulta (Attili, 2007). In alcuni casi si tratta dell'equivalente patologico di tentativi estremi di allontanarsi dai genitori, e di divenire davvero indipendenti, in altri di spinte a cercare di mantenere un legame il più possibile simbiotico, sia pur rabbioso. Il risultato è in entrambi i casi un'esplorazione deviante del mondo esterno, esito di una profonda mancanza di competenza sociale e di un deficit nella capacità di regolare i propri stati emotivi e la propria rabbia.
Le condotte disadattate o le psicopatologie possono, in ultima istanza, essere viste come un fallimento nella capacità di esplorare e sviluppare relazioni sane da parte dì individui che, per un forte meccanismo di difesa, non sono in grado di riconoscere la loro "dipendenza" dai loro contesti familiari, visto che in quei contesti i propri bisogni di aiuto e conforto non hanno avuto risposta.
Come fa notare Mary Ainsworth (1972), la studiosa che per prima ha dato evidenza empirica alla teoria dell'attaccamento (qui è sufficiente ricordare le osservazioni prolungate della relazione madre-bambino, e la messa a punto di una situazione osservativa sperimentale, il cui scopo consiste nell'individuare il tipo di attaccamento che i bambini mostrano di aver costruito con la madre e il padre), divenire un adulto in grado di affrontare le difficoltà e di costruire una vita soddisfacente da un punto di vista affettivo, relazionale e sociale affonda, infatti, nell'adeguatezza delle esperienze affettive e nel come queste hanno fatto da supporto progressivamente alla costruzione e conferma di modelli operativi interni di tipo sicuro.
Grazia Attili