Famiglia Giovani Anziani

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Martedì, 14 Maggio 2013 07:29

Quando il figlio deve spiccare il volo

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I cormorani, capaci di splendidi voli, prima di spiccare il volo definitivo, hanno una regressione a fasi precedenti dello sviluppo; esibiscono - cioè - modi di agire meno organizzati per poi progredire; per esempio, un cormorano quando è già in colonia, "ritorna a casa" per così dire per farsi nutrire di nuovo dai genitori, poi - dopo due o tre giorni — spicca il volo definitivamente, scompare con la sua colonia, senza fare caso ai "cinguettii di chiamata" dei genitori...

 

Vorremmo partire dalla metafora del cormorano che rubiamo a un grande psichiatra e psicoterapeuta sistemico, Alfredo Canevaro. Cominciamo con un dato biologico: Kortland nelle sue ricerche ecologiche scopre che i cormorani, capaci di splendidi voli, prima di spiccare il volo definitivo, hanno una regressione a fasi precedenti dello sviluppo; esibiscono - cioè - modi di agire meno organizzati per poi progredire; per esempio, un cormorano quando è già in colonia, "ritorna a casa" per così dire per farsi nutrire di nuovo dai genitori, poi - dopo due o tre giorni — spicca il volo definitivamente, scompare con la sua colonia, senza fare caso ai "cinguettii di chiamata" dei genitori. Recentemente un padre ammetteva: «Se i figli sono fuori, io sto alzato ad aspettarli, non posso stare a letto, anzi mezz'ora prima dell'ora concordata per il rientro, faccio uno squillo, per ricordare loro che li sto aspettando». Cinguettii di chiamata! Quanti anni hanno i figli? Uno 25, l'altra 28; ma ciò che colpisce è che è del tutto indifferente che cosa i figli stiano facendo; per esempio, la prima va in discoteca e torna all'alba, il secondo appartiene a un gruppo missionario dove cura progetti per lo sviluppo e rientra intorno a mezzanotte o l'una. Troppo facile affermare che questo padre è "fatto male", è ansioso etc. Come vedremo, il fatto è che in questa famiglia non si è imparato a rassicurarsi reciprocamente.

Soste, regressioni e partenze

Ebbene, il processo di maturazione-distacco non avviene mai in linea retta ascendente. Ci sono soste per ripartire, come insegnano i cormorani... cioè tale processo comprende "fare un passo indietro per farne due avanti"; in altre parole, nella fase di lancio definitivo, ci si possono permettere manifestazioni re-progressive, cioè regredire momentaneamente per meglio progredire. Facciamo un esempio di quando, un tempo, le cose erano probabilmente più semplici: la vigilia delle nozze per due che aspettavano con trepidazione la prima notte di nozze perché non avevano mai fatto sesso completo; è esperienza comune che giusto qualche tempo prima del gran giorno e perfino la sera della vigilia un promesso sposo o una promessa sposa scoppiasse a piangere, come se quelle nozze non le avesse volute lui/lei, si facesse coccolare più del necessario, si mostrasse bisognoso, dipendente.

Oggi le cose sono molto più complesse, nel tempo del sesso subito, delle convivenze more uxorio più o meno conclamate. E allora si esce di casa come espressione del tentativo di allontanarsi da una famiglia disfunzionale, dove si sta male, non ci si sente capiti, eccetera; però a queste uscite si è sempre meno preparati, per cui da una parte si fanno "colpi di testa" sempre meno pensati, elaborati e preparati e dall'altra aumentano a dismisura i "cinguettìi di chiamata", e spesso molto peggio, come per esempio, offrire servizi stabili al figlio/a "uscito di casa", come preparargli il pranzo e la cena, consegnargli biancheria lavata e stirata, o perfino la stessa colf che viene pagata dai genitori per tenere pulito l'appartamento del figlio/a.

Oggi è sempre più difficile il compito per eccellenza, che è il compito di tre generazioni, ma che vede nel giovane adulto il coraggioso attore principale. La metafora del cormorano ci ha avvertito: è compito esclusivo del figlio "spiccare il volo", assumersene la responsabilità in proprio, spiccare il volo in modo maturo, adulto, anche con provvisorie re-progressioni, ma avendo ben chiara la meta.

Vogliamo ora addentrarci nelle caratteristiche dell'età adulta e tentare di spiegarci come si sono evoluti, i "cinguettìi di chiamata" da parte della generazione matura verso figli sempre più incapaci di differenziarsi.

Adulti si diventa

E dunque, per spiccare il volo un immaturo ha bisogno di tre passi lungo la sua linea di sviluppo: il costituirsi di un noi fusionale, poi di un noi dialogico e infine la differenziazione permessa e auto-permessa.

- Il noi fusionale si incentra sull'appartenenza, cioè sul sapere di chi si è; il figlio sente di appartenere a un corpo familiare che in un certo senso "viene prima" della propria identità. L'ha detto bene una bimbetta di sette anni in una letterina di Natale indirizzata ai genitori: «Voi siete la mia famiglia e io non vi lascerò mai»; questa è una dichiarazione di appartenenza che nella sua totale ingenuità conosce il "definitivo" nel duplice senso di qualcosa che non ammette fine e nel senso di definizione del sé; la bimba pare sapere di avere per sempre quei genitori (nessuno ha il potere di cambiare la famiglia di origine in cui è nato!) e nel contempo di appartenervi in modo irreversibile; nel "noi fusionale" (io sono voi e voi siete me) non appare all'orizzonte il distacco perché proprio il fascino del sapere di chi si è rassicura e identifica.

Va detto qui che oggi la famiglia è sottoposta alle spinte della provvisorietà e dell'individualismo, per cui - è solo un esempio - nel nostro lavoro di consulenza, quando si presentano genitori con problemi nei riguardi dei figli, noi iniziamo col chiedere se questi figli li chiamano papà e mamma e, più di una volta, ci sentiamo rispondere: «No, i nostri figli ci chiamano per nome», come se ciò fosse più paritario, più democratico; forse il fìglio è inteso come provvisorio (appena diventerà grande, se ne andrà) e quindi lo si deruba di una radicazione, di un luogo primario; dall'altra parte è sempre più macroscopica la spinta della fusionalità, di un sentirsi legati reciprocamente senza mettere in previsione la via d'uscita. Confrontiamoci con il seguente episodio: il figlio sedicenne è trascinato a vedere esposizioni di mobili nella industriosa Brianza perché mamma e papà hanno deciso di cambiare i mobili della sala. Quando finalmente i due genitori paiono concordare con un tipo di mobilio, il figlio esplode con un: «Ma che schifo, a casa mia non ce la voglio quella sala lì, non avete gusto!»; il padre allora interviene: «Questa è la sala che abbiamo scelto noi, io e la mamma! Quando tu ti sposerai e verrai a scegliere la sala con la tua morosa, noi non ci metteremo il naso!».

La madre, però, visibilmente agitata, interrompe il marito: «Ma dai papi, non dire così!! E se dopo non sta più bene con noi?». Prima di pensare che questa madre sia assolutamente incompetente da un punto di vista educativo, possiamo immaginare che lei stessa sia prigioniera di un orizzonte fusionale, per cui percepisce il qui e ora come non proiettabili in un futuro di sviluppo dei legami.

- Il passo successivo è (dovrebbe essere) il noi dialogico, cioè un noi in dialogo con la reciprocità. Il figlio/a dovrebbe divenire un tu con cui ci si confronta, non una botte da riempire (e servire) con ogni cosa buona. Il dialogo familiare comporta che il figlio/a né sia ridotto a utente («ti metto a posto io la tua camera!») né sia sottoposto a richieste (spesso infarcite di lagne) in cui la lingua è quella del badare a se stessi, del pensare a sé, dell'auto-realizzarsi: «Tu almeno studia», «Metti a posto il tuo disordine!».

Simili richieste suonano la mortifera campana del «Pensa a te stesso!» e questo - da un punto di vista etico - è puro veleno che passa tra le generazioni, come se si dicesse al figlio: «Dà il minor disturbo che puoi, porta a casa dei voti e tieni in ordine la tua camera». Qui il noi dialogico è già spento prima ancora di nascere, perché (al di là delle buone intenzioni) si incentivano nel figlio sia l'essere autocentrato sia il non esporsi alle esigenze dell'altro, la perfetta utenza di beni familiari a costo zero.

Altrove abbiamo affermato che il «cosa fai per la tua famiglia» incentiva appunto un vero dialogo, è lo statuto che mette in moto la reciprocità: a nessuno può essere chiesto solo di ricevere e non di dare, pena la invisibilità, la non-significanza. La risposta è la resistenza passiva in cui i nostri figli divengono man mano maestri, nel tentativo di rendere innocuo il genitore "rompi". «L'unica cosa che mi-resta come mia è il disordine assoluto della mia camera, ormai quella "rompi" di mia madre si è rassegnata!», diceva una laureanda, allevata secondo il motto: «Tu pensa a te stessa»,

- Il terzo e decisivo compito di sviluppo per "diventare il cormorano" che spicca il volo senza lasciarsi travolgere dai cinguettìi di chiamata dei genitori, è il compito della differenziazione, compito tri-generazionale, oggi sempre più difficile persino da pensare, perché il "volere il bene dell'altro" sembra giustifichi ogni modellamento, ogni tentativo di plasmarlo, di farlo star bene, in una parola, di "trattenerlo" anche se poi il risultato può essere un figlio di quarant'anni ancora... tra i piedi; e ciò, allora, viene denunciato come incapacità del figlio di staccarsi e non - anche! - incapacità della famiglia di lasciarlo andare.

Se non è permessa la differenziazione si precipita inevitabilmente nella prigionia dell'immedesimazione (ben diversa dal processo della identificazione con il genitore del proprio sesso di freudiana memoria), «Sono orfano come mio padre»Tci. diceva con un dolore sordo un figlio trentenne, cui era appena morto il padre; già, ma il padre era rimasto orfano di suo padre all'età di dodici anni e forse aveva trasmesso a questo figlio, così incompetente nei confini del sé, una sofferenza non arginata, una orfanitudine senza speranza.

L'immedesimazione non permette un sano confine del self, un essere "diverso" da come gli altri (leggi: i miei familiari stretti) si aspettano che io sia; anzi la diversità posta nella cornice familiare della non-differenziazione comporta un confusivo senso dì colpa; il figlio - cioè - è posto dì fronte al compito impossibile: o faccio contenti i miei genitori, o faccio contento me. Anzi, pare che la scelta di essere sé stessi (la differenziazione) sia essa stessa una sorta di colpa "primaria". E allora l'oscillazione (o me o i miei genitori) sembra arrendersi in un tristissimo: «Devo essere io e allora "uccido" i miei genitori», o «sono come loro mi vedono e cresco come un bravo bambino anche da adulto ("uccido" me) per far contenti loro, perché mi sarebbe intollerabile colpirli, farli soffrire, permettermi una sana trasgressione da ciò che loro3 volevano che fossi». Confrontiamoci con un esempio: una madre, angoscia nella voce e nello sguardo, urla alla figlia ventisettenne che tutti i week end si incontra con il moroso, facendo chilometri e chilometri: «Ma, insomma, lui è più importante di me!!».

Questa figlia - lo vedremo tra breve - è posta al bivio, ma non è vero che per essere se stessa sia obbligata a "uccidere" la madre, con frasi che suonano: «Certo, finalmente ho trovato uno che vale più di te !» e che la immobilizzerebbero - per quanta sicumera possa esibire esteriormente - in un indefinibile senso di inadeguatezza e di colpa. La differenziazione è un compito e un dono, non può essere ingenuamente la "dichiarazione di guerra, d'indipendenza" che finisce con il costare troppo cara. Bowen - un noto psicoterapeuta sistemico - propone la differenziazione come "I position", da parte del figlio che si vuole differenziare e perciò essere se stesso, porsi come io. Ma non è tutto qui, come tenteremo di mostrare, perché la differenziazione (necessaria!) non è necessariamente contrapposizione, ma la scoperta di un compito etico, di un valore che passa tra le generazioni.

"Pensa a te stesso!"

Prima, però, dobbiamo ascoltare con rispetto i "cinguettìi di chiamata" da parte dei genitori e chiederci come mai oggi siano diventati così alti, così insistenti, così disperanti. Tra le molte ragioni, ci accontentiamo di dare rilievo a due; la prima: le supplenze sempre più alte che la famiglia è chiamata oggi a espletare e la sempre più pesante regola del «pensa a te stesso, aderisci al tuo godimento», che permea la vita familiare, culturale e sociale. Banalmente, riportiamo un dialogo tra due genitori "maturi", ascoltato sul treno: «Adesso che nostra figlia si è sposata, dobbiamo essere più disponibili di prima... se avrà un figlio per metterlo al nido, ammesso che si trovi, ci vorrebbe più di una metà del suo stipendio!». Non possiamo certo nasconderci la non-mascherata soddisfazione dei due anziani genitori («avremo finalmente qualcosa da fare!») ma fatto è che la rete familiare allargata oggi è sempre più chiamata a supplenze coatte; come - in un altro caso - mantenere in casa la figlia più che trentenne con un bambino, perché una paga di 1000 euro all'ipermercato non permette altro. Qui il cinguettio di chiamata suona: «Ci sono io, ci sono io!», cosa in sé bellissima, ma che si traduce in un povero: «Senza di noi non ce la potete fare!», con tutte le intrusioni che simile posizione comporta.

È però assai più interessante la seconda fonte segreta dei cinguettìi di chiamata: la supplenza posta sulle spalle del figlio nel clima familiare, da un punto di vista che non è socioeconomico. Presentiamo un caso estremo: una figlia torna a casa dopo sei mesi di matrimonio celebrato in chiesa, è tristissima e apatica (parole sue), ma la mamma l'accoglie con una: «Stai pure con noi cara, noi non ti manderemo mai via!». La cosa più incredibile è che la figlia sente queste parole della madre come "accoglienza" sconfinata. Tra le possibili condizioni (e sono tante) che hanno portato a questo fallimento, c'è forse il bisogno di non lasciar soli i genitori, di porsi (generosamente?) tra loro, come loro ragione di vita e di dialogo.

E simile accoglienza della madre, scevra da ogni possibile rimprovero, ma anche dalla vera esplorazione del mondo della figlia, delle ragioni che l'hanno portata fin lì, sta forse a significare che la figlia aveva percepito giusto, che il bisogno dei genitori di "parlarsi attraverso la figlia" era nato da un pezzo, per così dire dal momento della sua nascita. Qui - e lo diciamo con dolore - il cinguettio di chiamata è sottile, quasi impercettibile, ma è proprio l'assenza di altri interessi, di una vita comune tra i due coniugi che non si permettono quelli che noi chiamiamo "figli divergenti", che intrappola e trattiene la figlia. Un figlio/a non si dovrebbe mai sentire la ragione di vita dei genitori, la loro scialuppa di salvataggio, perché ciò rende veramente difficile al figlio spiccare il volo, qualsiasi sia la sua vocazione.

«È vero, si sono comprati un camper - diceva un figlio diventato novizio - ma insicuro e indeciso - in una congregazione religiosa - io so però che si sentiranno soli, che papà al solito non parlerà e che mamma farà fatica a stare sola con lui». Altro che cinguettìi di chiamata!

Abbandono del debole?

È chiaro che in un simile clima familiare (anche se in buona fede i genitori dicono: «Tu fatti la tua vita») il differenziarsi è sempre più difficile, diventa una sorta di "abbandono del più debole". Quando un genitore trasforma il figlio in spalla su cui piangere, in spettatore svilito di quanto i legami fanno soffrire, di quanto sia impossibile trovare in essi un briciolo di serenità, gli rende impossìbile proprio ciò che lui stesso desidera: che vada verso la vita, senza ipotetiche e senza ricatti. Una sedicenne aveva trovato una soluzione radicale, per gridare quanto era insopportabile fare la "guardia del corpo" di una madre rabbiosa e disperata contro un marito possessivo, ossessivo, ego-centrato: aveva abbandonato la scuola, rinunciato a ogni lavoretto che le si presentasse, stava cioè agli "arresti domiciliari", navigando con il Pc, quasi gridando un'inconsapevole protesta, mentre la madre più che quarantenne, anche se perennemente lagnosa, aveva trovato la "soluzione" di andare in discoteca con le amiche fino all'alba, almeno due volte la settimana. Povera figlia che non può prepararsi a diventare cormorano!

Ma c'è di più: il genitore è tanto più naufrago che si aggrappa a un figlio quanto più sposa il diktat individualistico che respira con l'aria: «Aderisci al tuo godimento»; in altre parole: lavoralo domo tua, se non impari a difenderti, gli altri ti schiacciano. E così anche un semplice disagio di coppia rischia di diventare ciò che rifornisce i continui cinguettìi di chiamata che inchiodano il figlio a sostenere il genitore, a parteggiare per lui, e a non abbandonarlo. «Mi sento di tradire mia madre andando a fare il viaggio di una settimana tanto desiderato con mio marito; come posso essere sicura che lei stia bene? (sottinteso: senza di me, senza la sua bambina che l'ha sempre capita e protetta). Dati di realtà: l'anziana madre aveva una sorella porta a porta e un altro figlio, sia pure a qualche chilometro di distanza. Ma quando - per esprimerci con gli stessi termini utilizzati da Bòszórményi-Nagy - la lealtà verticale fa agio sulla lealtà orizzontale, non c'è dato di realtà che tenga. In questi casi, anche se si mettessero chilometri e chilometri di distanza, il figlio/a non riuscirebbe mai a spiccare il volo, cioè non sarebbe in grado di " permettersi" una vera emancipazione verso l'età adulta.

Cosa fare allora? Ci dobbiamo accontentare della già citata "I position", di de-trian-golarsi, di porre semplicemente paletti perché il genitore non diventi invasivo dei confini e delle scelte della persona del figlio? Certamente ciò non basta. Il cormorano non è semplicemente uno che "fa bene" a sé stesso, ma è uno che "fa bene" all'intero sistema familiare.

Verso la differenziazione

Detto in altri termini, la differenziazione non è soltanto un vantaggio soggettivo, ma un vantaggio di cui può beneficiare tutta la famiglia. La differenziazione, per così dire, è vocazione, cioè dono e compito allo stesso tempo, poiché si può partire solo se veramente riconciliati, se veramente adulti, cioè dopo aver lasciato cadere le pretese di risarcimento, i desideri di rivincita, l'ingenua credenza che si possano "pareggiare i conti" a proprio vantaggio.

II cormorano spicca il volo lasciando in sospeso ciò che ha da essere "sospeso". E vero, si sente vulnerabile e incompiuto, ma sa che ha nuovi compiti cui dare il proprio assenso. Non si lascia trattenere da ciò che c'è ancora da fare, perché intuisce che, altrimenti, non spiccherebbe mai proprio quel volo che, lungo il cammino della storia, sarà un beneficio per tutti. Ma tutto questo è possibile se si impara l'arte di rassicurare l'altro, cioè di pensare il meglio dell'altro, anche quando certi dati ingigantiti dalla paura e dalla rabbia vorrebbero renderci bloccati, inamovibili.

Ritorniamo alla giovane donna che si sente dire dalla mamma: «Allora ti interessi a lui più di me!» e che si trova veramente al bivio: o butta in faccia alla madre il proprio livore (dicendole, per esempio: «Sì, non vedo l'ora di andarmene, non ne posso più di te!») oppure trova un modo adulto di rassicurare la madre, senza ascoltare i suoi cinguettìi di chiamata: accetta, cioè, di differenziarsi e di non essere come la madre ha sempre voluto. Per esempio, può rivolgersi a lei nei termini seguenti: «Vedi, ho imparato da te a metter davanti il mio uomo, poiché tu mi hai preceduto sposando mìo padre e mostrando a me e a noi figli la forza dell'attrazione dell'amore».

Frasi di questo tenore possono rassicurare una madre che vorrebbe trattenere la figlia secondo i propri schemi, modellarla a propria misura (per esempio: «Se sei tu che vai da lui, sei una poco di buono», diceva un'altra madre, evidentemente ancorata alle proprie esperienze affettive). Ma occorre un buon processo di maturazione, per non cadere nel rischio di svincolarsi solo "per fargliela vedere": sarebbe un'emancipazione che non porta molto lontano. Dicevamo, infatti, che si può partire solo se maturi, cioè: riconciliati, capaci di vedere l'altro nell'altro un briciolo di "vita buona" e di non lasciarlo cadere. Disinteressatamente.

 

Mariateresa Zattoni e Gilberto Gillini

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