Giuseppe Anzani (magistrato)
Tra volontariato e legge di uno Stato si struttura un rapporto delicato e complesso. Il primo si fa volentieri e corrisponde all'esercizio di libertà, la seconda tutela la libertà ma la contempla da un'altra prospettiva.. Un percorso bilanciato e passionale conduce all'essenza di entrambe le dimensioni, delineando per bene cosa significa liberare il proprio tempo per gli altri.
Volontariato è parola che ha la stessa radice di "volere". Rimanda l'immagine immediata della libertà, dice la scelta, la decisione interiore, contiene la spontaneità e insieme il frutto maturo di un pensiero persuaso, e, da ultimo, confida, in un modo segreto e implicito, nello slancio del cuore. Anche il cuore, beninteso, ha i suoi comandi, e chiede obbedienza a chi ne ascolta la voce. Ma non è la stessa obbedienza che domina il mondo della legge, quando essa impone i suoi precetti e i suoi divieti, egualmente ai volonterosi e ai neghittosi, agli osservanti e ai riluttanti. La legge occupa le categorie del dovere, anzi, secondo la versione più grezza del positivismo giuridico, degli ordini; ordini che si pretendono efficaci in quanto sostenuti da minacce. Il volontariato è per definizione qualcosa che si fa "volentieri", ed è esercizio di libertà. Anche la legge, naturalmente, si occupa di libertà; ma se ne occupa per proteggere e difendere l'individuo contro le possibili aggressioni altrui. La libertà che sta a cuore alla legge è quella che chiede difesa per non essere violata, turbata, minacciata dagli altri, sicché attorno a essa si costruiscono barriere.
Rompere l'individualismo
La libertà del volontariato è inversa, è quella che spezza il guscio dell'individualismo e trabocca in cerca dell'altro per dargli aiuto. La legge è fatta di pesi e contrappesi, di debiti e di adempimenti, di relazioni di scambio. Il volontariato è fatto di gratuità, di relazioni umane di soccorso. La legge impedisce che gli uomini siano lupi, il volontariato li riconosce fratelli. E' possibile una legge sul volontariato? La domanda è provocatoria e lascia pensosi. Naturalmente non si tratta di rammentare didascalicamente che sì, la legge sul volontariato c'è già, è stata fatta dallo Stato vent'anni fa, si è ramificata nelle leggi regionali, è divenuta persino un capitolo importante nella storia dello "Stato sociale", nell'impasto fra politica, economia e diritto.
Si tratta piuttosto di capire, e di valutare, se questa storia segni l'approdo vittorioso di un fenomeno spontaneo alla frontiera della vita "pubblica" che è riuscito a influenzare e a penetrare, oppure se indichi la "normalizzazione" di un profilo, che fu un tempo profetico, dentro schemi giuridici che lo ridefiniscono e, dunque, lo inglobano.
Il bisogno di giustizia
La molla psicologica che spinge la grande schiera di uomini e donne che praticano il volontariato (secondo l'Istat, rapporto 2009, sono il 9,2% della popolazione con più di 14 anni) è la coscienza che dare soccorso al bisogno degli altri "è giusto". Ma ciò che è giusto è, per definizione, il traguardo, il bersaglio essenziale, dell'ordinamento giuridico e delle leggi. Se non vogliamo trascinarci addosso per sempre come una maledizione la cinica risposta di Trasimaco alla domanda di Socrate sulla giustizia delle leggi («Penso che il diritto non è altro che il tornaconto del più forte») dobbiamo ancorarci all'intuizione e all'aspirazione universale che già nella sapienza romana fece della giustizia e del diritto fa un' endiadi indissolubile (Jus = justum), e sulla base del diritto-giustizia concepì la nascita stessa della società civile (ubi societas ibi jus).
Sappiamo che la cultura dei diritti umani ha stentato a crescere, nella storia. Pure, oggi il cammino sembra compiuto, con le solenni proclamazioni, dichiarazioni, trattati, che hanno caratterizzato il secolo passato, a ridosso dei suoi folli olocausti. Questa coscienza mondiale globalizzata sui "diritti dell'uomo" è importante, perché si pone al primo crocevia delle strategie d'intervento: non si può pensare di largire per benevolenza meritoria (per carità) ciò che è dovuto per giustizia. Rendere anzitutto giustizia è l'abbecedario dell' etica giuridica.
A lungo è parso che il paradigma basilare della giustizia fosse racchiuso in una parola, l' "uguaglianza". Parola grande, vergata col sangue sulla bandiera rivoluzionaria che nel 1789 gridò per la prima volta i "diritti dell'uomo". Parola poi risuonata infinite volte nella modernità a proclamare l'identica dignità di tutti gli esseri umani (solo per rammentare le più conosciute: "Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo", 1948, art. 1; "Patto internazionale sui Diritti civili e politici ", 1966, art. 2; "Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea", 2000, art. 20). Nella Costituzione italiana, l'art. 3 dice con tono solenne che: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
L'immagine dell'uguaglianza sorregge il sogno di una società dove non conta nessuna distinzione, dove la legge «è uguale per tutti», e tutti sono trattati allo stesso modo, senza privilegi né corvées, dove la libertà si tempera da sé nel contatto con l'identica libertà altrui, dove tutti si è in corsa con le stesse chances verso il successo prodotto dal proprio merito. Questo sogno non ha mai funzionato. E la ragione è che l'eguaglianza, solamente proclamata così, è una bugia. Non è la stessa cosa nascere sano e nascere storpio, trovarsi in una famiglia felice o in un contesto senza amore, nella ricchezza o nello stento; non è la stessa cosa la sazietà e la fame, il lavoro e la disoccupazione, la doppia casa e lo sfratto, l'istruzione e l'analfabetismo. Là dove la condizione umana è diseguale, la regola dell'uguaglianza teorica, che dà a ciascuno lo stesso, rappresenta una giustizia falsificata che conduce in vicoli ciechi. Alcune disuguaglianze sono un dato di fatto originario, ineluttabile, che appartiene agli enigmi della condizione umana, al mistero della sofferenza e del dolore (come l'handicap, la malattia, la sventura delle calamità). Altre sono il frutto della condotta stessa degli uomini, come il solco che divide la ricchezza di gaudenti minoranze dalla miseria di sterminate moltitudini. Se "lasciamo fare" in nome del dogma egualitario, la giustizia anziché approssimarsi si allontana. L'eguaglianza delle regole diviene la forbice della diversità.
La giustizia non è un teorema, ma un obiettivo d'azione. Fare giustizia significa che la giustizia è appunto qualcosa "da fare", tra gli infiniti ostacoli che la vita semina sul diverso cammino degli uomini, e che l'indifferenza - o la cattiveria - inasprisce.
La rivoluzione promessa
Non dunque "trattare tutti allo stesso modo", ma "dare a ciascuno il suo". È questo che fa dell'uguaglianza non una descrizione, ma un traguardo. E si comprende perché nella Costituzione, appena si parla di eguaglianza, si avverte subito che il discorso non può finir lì, se non si aggiunge il proposito di realizzarla. La seconda parte dell'art. 3 dice appunto che: «E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l' eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana». E stata chiamata la "rivoluzione promessa". Sul suo slancio, l'ordinamento giuridico ha cominciato a fare la sua parte, modulando le regole non più sull'uguaglianza formale e fittizia, ma sulla condizione concreta delle persone. Si è andato formando il grande capitolo della "legislazione sociale" che ha accompagnato l'affermarsi, di pari passo, della concezione stessa dello Stato come propulsore e garante del welfare. Si possono rammentare, per somma sintesi, le leggi sul lavoro, sulla previdenza, sulla sanità, sulla casa e l'edilizia, sull'infanzia, sulla disabilità, sul recupero dei tossicodipendenti, degli ex detenuti, sui sostegni alle famiglie, sugli ammortizzatori sociali, e via dicendo, fino ai recenti interventi sui buoni acquisto per i più poveri e al capitolo del "reddito minimo di inserimento". Allacciando insieme i bisogni e le provvidenze, secondo i settori specifici d'intervento, si è costruita una rete di pubblico aiuto, con sportelli differenziati e appropriati per tipologie di richieste, con apparati e con risorse dedicate.
Anche su questo versante della storia degli ultimi decenni i teorici del welfare hanno investito il sogno di una società giusta perché appagata, pacificata nella regola che dà e chiede in modo armonico, "a ciascuno secondo i suoi bisogni, a ciascuno secondo le sue capacità". Ma il miracolo non si è compiuto. Vi sono segnali che fanno vedere con chiarezza che lo Stato sociale ha ammainato col tempo molte vele, e forse in alcune cose non crede più. La crisi economica ha fatto il resto. Oggi c'è disincanto e delusione: a volte brucia persino la polemica sull'assistenzialismo e le sue ambiguità, insufficienze e distorsioni.
Dunque, la rivoluzione promessa è stata disattesa. Ciò che ci sta sotto gli occhi è un panorama che ancora va mostrando forme discriminanti di "esclusione" di moltitudini, allarmanti al punto da far dedicare un anno intero in sede europea (2010) alla "lotta contro la povertà e l'esclusione sociale". Calcola l'Istat (2010) che il 15% delle famiglie italiane presenta tre o più sintomi di disagio economico secondo gli indici Eurostat. La povertà non è peraltro l'unico fattore di esclusione: lo è l'inaccessibilità del lavoro, l'impossibilità di prender parte alla vita culturale, la lontananza dai luoghi e dalle forme di partecipazione e decisione, la mancanza di relazione, la deprivazione degli affetti, l'abbandono e la solitudine, la discriminazione, l'insignificanza, la considerazione di "scarto" sociale.
Tutto questo non si può rimontare con modelli burocratici. Se uno Stato sociale distribuisce promesse di soccorso erogate in modo impersonale e sostanzialmente anaffettivo, prenota il suo fallimento, quando s'accorge d'un tratto che l'uomo non è un catalogo di bisogni. Dare assistenza non è solo un problema di organizzazione o di risorse, ma di qualità di relazioni umane. Si può piantare una selva di sigle e di Enti, ma trovarla un deserto, se chi ne varca la soglia è "un caso da sbrigare" secondo legge. Il massimo risultato potrà essere l'efficienza (neppur certa), non la risposta umana; vi sono risposte legali e burocratiche che sembrano un passaporto per morire di solitudine. A volte il "pane dei poveri" viene mangiato dai furbi (episodi di false invalidità); dall'altro lato la coda agli sportelli assistenziali ci dà mentalità di postulanti, fronteggiata da pattuglie stremate di "funzionari della bontà" sopraffatti dalla mole della sofferenza e dalla penuria di risorse ed esposti al "burn out".
No, nessun diritto si realizza per legge se un altro non vi si impiega, non vi si dà, non dà del suo a soddisfarlo (e reciprocamente, a catena, in una rete relazionale che prende il nome di solidarietà). La legge non basta allo Stato sociale: una concezione quantitativa del "dovere giuridico" assolto porrà sempre frontiere insufficienti alla solidarietà, se si intende che il bi sogno dell'uomo non è soltanto di cibo e di casa, di salute e d'istruzione e di lavoro e d'altre cento numerabili "cose", ma è infine il bisogno di amore. In questa dimensione si specchia il volontariato. Esso non è stato inventato dalla legge, è nato molto prima dello Stato sociale. E gli sopravvivrà.
E' nato con le "opere di misericordia", fin dall'antico soccorso proverbiale "alle vedove e agli orfani" in nome del vangelo; è nato con gli ospizi per i pellegrini e i profughi dell'età di mezzo; con gli ospedali e i lazzaretti e le confraternite (le "misericordie"), i monti di pietà, e nei secoli più recenti con le congregazioni insegnanti, gli oratori, le scuole popolari, le infinite iniziative caritative per i miseri, i deformi, i reietti, gli esclusi. E oggi spazia, con milioni di persone che appassionatamente vi si dedicano, in gratuità e libertà, sulle "nuove povertà" del mondo globalizzato; povertà materiali, povertà morali. La fisionomia di un "volontario" si caratterizza per la relazione umana personale, fatta di ascolto, di accoglienza, di servizio. E' vita che partecipa alla vita, che condivide, che testimonia il valore dell'uomo, che dona quanto più può, del suo tempo, delle sue risorse, di sé stesso.
Lo specchio e il quadro
lo credo che non sia stato il desiderio del volontariato di approdare a un riconoscimento istituzionale nel campo del diritto pubblico, ma piuttosto il bisogno dello Stato di assimilare dentro un quadro normativo la ricchezza di esperienze raggiunte, assaporandone la linfa, ragion per cui nell'agosto 1991 si pervenne, dopo sette anni di dibattito in Parlamento, alla "Legge quadro sul volontariato" n. 266. Non ho intenzione di illustrarla qui per intero. Nel suo articolo 1 c'è tutto quanto serve alla riflessione che interessa: «La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell'attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l'autonomia e ne favorisce l'apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale individuato dallo Stato, dalle Regioni, dalle province autonome di Trento e di Bolzano e dagli enti locali». Osservate il corsivo (mio). C'è un riconoscimento di tono solenne, come di fenomeno maturo, originale, autonomo; ma insieme, e subito, c'è un inquadramento, una sorta di "interpretazione" qualificante, dentro il linguaggio giuridico-politico (partecipazione, solidarietà, pluralismo) che la ritrae; un ritratto che vorrebbe dirsi una "copia dal vero", ma che contiene immancabilmente l'impronta dell'occhio del pittore. Sicché sarà il pittore, infine, il "padrone" del quadro. Lo esporrà in bella vista, il volontariato; ma gli darà le finalità sue. Dice insomma la legge al volontariato: "Lo dico io chi sei tu, e che scopo hai ". Ecco il succo finale della promozione: "Per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale individuato dallo Stato, dalle Regioni ecc. ".
La legge ha così dato proscenio, favore, pubblicità e plauso, al volontariato; e forse anche per questo, di rimbalzo, nel decennio successivo il numero delle Onlus, sorte fino a quel momento quasi esclusivamente in ambiti caritativi cristiani, è esploso fino a più del doppio. Ma insieme ha inquadrato il fenomeno nei suoi schemi, l'ha censito, l'ha regolamentato. E lo ha finanziato. La legge se n'è dunque impadronita? Qualcosa si è pur trasmesso, come per contagio, dall'istituzione pubblica al fenomeno spontaneo: qualche assimilazione, qualche ingerenza, qualche mutamento di fisionomia, qualche adattamento, nel gran mare del "pubblico servizio".
Qualche iniziativa di volontariato ha acquistato profili vagamente "aziendali"; altre si sono intrecciate con imprese economiche, pur ispirate a solidarietà. Niente di innaturale di per sé, in un panorama che vedeva simultaneamente dilatarsi il cosiddetto "terzo settore", valorizzarsi le "cooperative sociali", affermarsi il principio di sussidiarietà nel nuovo testo dell'art. 118 della Costituzione (Legge costo n. 3/ 2001). Rammentiamo anche che nel 1997 viene introdotto un peculiare regime tributario per le Onlus (DLL. 460); nel 2000 un'altra legge-quadro annuncia la «realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali» (L. 328/2000); seguono la legge sull'associazionismo di promozione sociale (L. 383/2002) e la delega sulla materia dell'impresa sociale (L. 118/2005) che dà poi vita al DLL 155/2006. In questo complesso panorama il volontariato, nell'intrecciarsi con le nuove formule normative, prende contorni sempre più marcati di "pubblica funzione", in modo da poter inserirsi autorevolmente come partner nella stessa programmazione delle politiche sociali.
Uno sguardo al futuro
Si colloca qui la riflessione cruciale sul futuro del volontariato: da un lato è certamente una conquista felice l'aver piantato la sua bandiera dentro la cittadella del diritto pubblico, nella stessa fucina progettuale e programmatica dove si possono introdurre nel corpo delle leggi i princìpi della giustizia solidale, di cui il volontariato tiene in serbo lo slancio. Dall'altro lato può rischiare un addomesticamento della funzione e un pallore della fisionomia originaria, la cui spontaneità racchiude nel profondo un'intima risposta a una vocazione in certo modo profetica. Non tutti, però, scelgono la stessa omologazione.
Le organizzazioni di volontariato in Italia sono oggi 42 mila (Istat, dicembre 2010), ma solo 27 mila sono quelle iscritte nei registri regionali previsti dalla Legge 266. La partecipazione ai programmi di governance dell'assistenza è preziosa. Raggiunge i territori della giustizia distributiva con la forza delle norme di legge; vi può innestare i principi di solidarietà come una linfa che scorre nelle norme e negli atti di Governo, centrale e locale. È importante che la giustizia si realizzi primariamente così, perché non si dà per carità quel che si deve dare per giustizia. Ma la carità resta ancora altra cosa, e quel che inventa la carità è più di ciò che è noto alla giustizia, perché sa penetrare l'abisso del cuore degli uomini, cercare quei "poveri" che saranno sempre fra noi. E' proprio questo dono, questa identità, questa "profezia" vorrei dire, ciò che deve innervare il mondo delle nuove leggi, ciò che va messo in salvo dal rischio di essere invece assimilato, omologato, fagocitato nel crogiuolo di uno schema giuridico o di una dottrina politica, mentre il volontariato è qualcosa che attraversa e trascende la storia episodica degli esperimenti sociali.
Spirito di fedeltà
Si potrà mantenere l'una e l'altra cosa, ovvero il co-protagonismo politico insieme con l'originaria purezza? La risposta, oggi, è che "si deve", e in questo sta la sfida del futuro. Ma è questione anche di spirito interiore rinnovato, di fedeltà a una vocazione. La Caritas in Veritate parla esplicitamente di vocazione, di responsabilità personale, di "economia del dono". Dice che: «La città dell'uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancora più da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione». E la rivelazione del "volto" dell'uomo, che trascorre per immagini dai territori della legge a quelli della prossimità più intima. L'altro, l'altro uomo che io posso istintivamente avvertire come un avversario o un concorrente, con reazioni di paura o di ostilità, che alla legge chiedo di placare; o l'uomo che io posso intuire come un altro io, fino a sentirlo compagno e fratello; l'altro col quale posso decidere di dialogare; l'altro che posso soccorrere; l'altro che posso amare come me stesso; l'altro, infine, che rivela l'origine ultima e unica della sua e della mia dignità, cioè il nostro comune essere figli dell'unico Padre. Non c'è legge più grande di questa, e non sarà mai sostituibile. Così il volontariato postula un costante ritorno alla purezza evangelica, come un dono della carità dentro la storia. Non destina agli altri il "tempo libero", ma libera il suo tempo per gli altri. Cerca il fratello che aspetta, senza aspettare che il fratello lo cerchi.
Abbraccia e sormonta la speranza del diritto escogitato dagli uomini, se è vero che il diritto più grande che esista è per ciascuno racchiuso nel senso della propria esistenza. Dice la Gaudium et Spes: «Si può pensare legittimamente che il futuro dell'umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (GS, 31).
Giuseppe Anzani (magistrato)