Un paradosso, tra i tanti, caratterizza la società italiana di questa fase storica. Mentre si va diffondendo la consapevolezza del ruolo decisivo che la famiglia svolge come soggetto di scelte economiche e come soggetto produttore di capitale sociale, non procede allo stesso ritmo la messa in cantiere di provvedimenti, legislativi e amministrativi, volti all'attuazione di una vera e propria politica della famiglia in sostituzione delle ormai obsolete politiche per la famiglia. In altri termini, non procedono allo stesso ritmo il riconoscimento e la valorizzazione che la politica "deve" alla famiglia.
Allo scopo di farsi un'idea dell'ampiezza del divario di cui sopra, si consideri che, ancor'oggi, l'Italia destina alla spesa per maternità e famiglia poco più dell'1% del Pil, la quota più bassa tra tutti i paesi dell'Unione Europea. Come a dire che la famiglia, in quanto tale, non è un soggetto destinatario in via prioritaria di politiche e di risorse nel nostro modello di welfare. Non solo, ma quasi completamente assente è l'equità orizzontale nei confronti delle famiglie con figli a carico, e ciò nonostante la Costituzione esplicitamente riconosca la rilevanza sociale ed economica delle funzioni svolte dalla famiglia.
Occorre dunque essere avvertiti del fatto che l'Italia è un paese che, al di là della nota retorica di maniera, continua a vedere la famiglia solamente come uno degli elementi di costo del bilancio pubblico e non anche come risorsa strategica per la società. Più in generale, si continua a considerare la famiglia come variabile dipendente: le grandi scelte a livello di organizzazione produttiva e di assetto istituzionale vengono prese sotto il presupposto — non sempre dichiarato — che debba essere la famiglia ad adattarsi alle decisioni degli altri attori sociali e non viceversa. Restando all'interno di un contesto culturale e politico del genere, non ci si deve meravigliare di scoprire che la famiglia versa oggi in una crisi profonda, come le cronache documentano. Quali princìpi porre a fondamento di una politica della famiglia che veda quest'ultima come prima responsabile del benessere materiale e spirituale dei suoi membri, e come primo generatore di capitale sociale? Non esito a indicarne tre.
La dimensione culturale
Il primo chiama in causa la dimensione culturale. Si tratta di affermare il principio secondo cui la famiglia va vista come soggetto economico dotato di una sua propria autonomia e non già come un mero aggregatore di preferenze individuali. L'accoglimento drun tale principio deve avere come primo effetto quello di favorire una riconcettualizzazione del modo usuale di concepire il funzionamento di un'economia di mercato. Mi spiego. Nei nostri sistemi di contabilità nazionale due sono gli operatori della sfera privata contemplati: le imprese e le famiglie. Le prime sono deputate allo svolgimento dell'attività produttiva: le imprese non consumano, ma utilizzano i fattori produttivi per conseguire i loro scopi. Alle famiglie spetta invece l'attività di consumo, vale a dire l'acquisto di beni e servizi prodotti dalle imprese. Le famiglie non producono alcunché secondo la contabilità nazionale. È dunque chiara la divisione dei ruoli: la famiglia, in quanto luogo in cui si soddisfano i bisogni, è il soggetto cui si attribuisce la funzione del consumo; l'impresa, in quanto luogo in cui si attua l'accumulazione del capitale, è il soggetto che realizza la funzione di produzione. Una volta postulato che all'interno della famiglia non v'è produzione di sorta, si arriva a comprendere perché nel calcolo del reddito nazionale non vi sia posto per tutto ciò che di produttivo la famiglia realizza. Così, per fare un esempio: il pasto preparato in famiglia non viene contabilizzato come attività di produzione, ma come attività di consumo misurata dall'acquisto sul mercato dei beni che servono alla preparazione del pasto stesso. Eppure, il medesimo pasto consumato in un ristorante viene contabilizzato come attività di produzione. E così via.
Oual è il punto di arrivo di quanto precede? Innanzitutto, che se la contabilità nazionale intende mantenere il tradizionale impianto concettuale, sarebbe bene che essa evitasse di confondere le idee chiamando famiglia un soggetto che in effetti è semplicemente un individuo. Infatti, se si definisce il consumo come l'attività di acquisto di beni e servizi sul mercato, è evidente che non v'è alcun bisogno di parlare di famiglia come soggetto economico. Per fare acquisti sul mercato basta l'individuo! Ma v'è di più. Qual è il collegamento che nelle nostre società di mercato viene istituito fra decisioni di produzione e decisioni di consumo? Il principio organizzativo è quello, ben noto, della sovranità del consumatore: le decisioni di produzione (cosa e quanto produrre) sono guidate, per il tramite del sistema dei prezzi, delle scelte libere dei consumatori. Alle imprese spetterebbero solamente le decisioni di come produrre.
I sostegni economici
Se dunque fosse la famiglia il soggetto del consumo, sarebbe vero che a essa spetterebbe la scelta e in definitiva la responsabilità anche etica del modello di consumo prevalente. Ma, come sappiamo, le cose non stanno in questi termini per la semplice ragione che la famiglia non è affatto sovrana sul mercato; non ha cioè il potere di inviare messaggi vincolanti alla sfera della produzione. Invero, se valesse il principio della sovranità del consumatore (secondo la formulazione datane per primo dal celebre economista inglese J. S. Mill) si potrebbe pensare che un'associazione di famiglie, opportunamente organizzate, sarebbe in grado di indirizzare la produzione di beni e servizi nel senso da esse desiderato. Ma così non è, perchè come tutti sanno, nei nostri sistemi economici, è ancora la produzione (e non il consumo) a guidare la danza sul mercato.
Il secondo pilastro di una vera e propria politica della famiglia è quello che concerne il capitolo dei sostegni economici. Se è vero, come si è detto, che la famiglia è, oggi, il principale produttore di esternalità sociali positive nelle nostre società, allora il sostegno economico deve assumere le sembianze della restituzione, ovvero della compensazione e non già della compassione o del paternalistico assistenzialismo. Detto in altro modo: la politica della famiglia non può essere confusa con una politica di lotta alla povertà, che pure è necessaria. Per colpa anche di tale confusione ci ritroviamo, oggi, con un Paese in cui la povertà relativa è decisamente superiore a quella di tutti i Paesi dell'Unione Europea, eccetto Grecia e Portogallo.
Nel concreto, una politica di sostegno economico basata sul concetto di soggettività della famiglia dovrebbe intervenire in tre ambiti specifici:
1. Il primo è quello che concerne la messa in opera di forme innovative di sanità integrativa che vedano la famiglia come soggetto, a un tempo, di domanda e di offerta di certe tipologie di prestazioni. Si pensi alla cosiddetta ospedalizzazione domiciliare; alle terapie riabilitative per i malati psichiatrici (in numero spaventosamente crescente) ; alle varie forme di pratiche socio-sanitarie. Più in generale, l'obiettivo da perseguire in tempi rapidi è quello di dare vita a un vero e proprio mercato sociale dei servizi in cui, come indica C. Ranci, il lavoro di cura intrapreso dai familiari, mentre viene sostenuto economicamente dallo Stato o dagli altri end pubblici, è al tempo stesso regolato a livello pubblico o per via di contrattualizzazione (come già avviene in Olanda e Francia) oppure predisponendo procedure di regolarizzazione ad hoc (come accade in Germania);
2. un secondo ambito di intervento è quello propriamente fiscale; è vera l'obiezione di chi, pur dichiarandosi d'accordo col principio dell'equità orizzontale a favore delle famiglie con figli, non lo ritiene applicabile per motivi tecnici? Oppure è vero che il disinteresse per l'equità orizzontale è conseguenza di una posizione culturale di marcato individualismo, secondo cui la decisione di generare figli appartiene alla sola sfera privata dei genitori, una sfera rispetto alla quale lo Stato non deve interferire? Sono dell'avviso che la recente proposta del FattoreFamiglia avanzata del Forum delle associazioni familiari vada nella direzione giusta, essendo in grado di annullare le obiezioni sollevate contro l'adozione del quoziente familiare da parte di chi teme che quest'ultimo abbia effetti regressivi. Ma su tale questione rinvio altri contributi del presente fascicolo. Un problema di ordine pratico da risolvere con urgenza è quello concernente le forme degli interventi di sostegno: in natura oppure in denaro? Come è noto, la letteratura in argomento è amplissima e non v'è una posizione, per così dire, dominante a livello teorico, mentre nella pratica è di gran lunga prevalente la forma in natura. Ma se si vuole dare vita a una politica della famiglia adeguata ai nostri tempi è giunto il momento di dare la preferenza alla forma in denaro;
3. un terzo ambito di intervento ha per oggetto quelle misure che tendono a ridurre l'incertezza endogena oggi gravante sulle famiglie, soprattutto su quelle giovani. Da sempre, la creazione di nuova ricchezza e il conseguente miglioramento delle condizioni di vita sono serviti a ridurre l'incertezza di vita dei singoli e delle famiglie. La transizione già in atto verso la società globale ci pone, invece, di fronte a un'economia in cui la produzione di incertezza sembra connaturata al problema economico, anzi una sorta di precondizione per l'ulteriore progresso. II messaggio che veicola la sindrome dell'incertezza, diventata ormai una vera e propria sociopatia, è quello dell'incertezza naturale ovvero "fabbricata", come la chiama A. Giddens: le persone sono indotte a pensare che occorra autoinfliggersi una certa dose di incertezza per migliorare le performance economiche. Non ci si deve allora meravigliare se, all'interno di un simile contesto culturale, le giovani famiglie si formano in età avanzata e soprattutto se l'attività procreativa si limita a un solo figlio. Come venirne fuori? In pratica, si tratta di lanciare iniziative volte ad assicurare una qualche forma di reddito permanente alla famiglia, in sostituzione dell'ormai obsoleto concetto di lavoro permanente (il posto fisso!) assicurato al capofamiglia, tipicamente il marito. In altri termini, nelle condizioni odierne, alla famiglia interessa assai più la prospettiva di una sorta di reddito permanente, che non la garanzia del posto fisso di lavoro per il cosiddetto capofamiglia.
Una misura concreta in tal senso è quella che riprende un'idea avanzata da B. Ackerman nel suo saggio Stakeholder Society del 1999: l'idea del baby bond. Per ogni bambino che nasce lo Stato apre un conto in cui versa una somma iniziale (variabile in relazione alle condizioni di reddito della famiglia) alla quale faranno seguito accreditamenti successivi all'età, poniamo, dei 5,10 e 15 anni. Genitori e parenti sono incentivati a effettuare versamenti sul conto mediante l'adozione di schemi dì deducibilità fiscale. Conseguita la maggiore età, il giovane riceve il fondo accumulato, comprensivo degli interessi maturati, e potrà decidere come disporne: se per finanziarsi gli studi superiori, per dare inizio ad attività lavorative, per acquistarsi una casa in vista del matrimonio o altro ancora. Come è agevole comprendere, è questa una proposta che tende a realizzare congiuntamente tre obiettivi importanti: la parità, sia pure parziale, dei punti di partenza delle persone; la responsabilizzazione dei giovani nei confronti del loro futuro; una certa garanzia di reddito permanente per la famiglia con figli. È chiaro, infatti, che un buon funzionamento del piano di baby bond varrebbe a ridurre di molto le preoccupazioni, talvolta le angosce, dei genitori circa il futuro dei propri figli.
Flessibilità intertemporale
Passo, da ultimo, al terzo pilastro di una politica promozionale della famiglia, quello che ha per oggetto la vexata quaestio della possibilità di conciliare tempi di lavoro e tempi di vita familiare. Occorre acquisire consapevolezza del fatto che, oggi, il principale ostacolo alla formazione di nuove famiglie e, all'interno di queste, alla procreazione è la percepita impossibilità da parte di non poche coppie di sciogliere il trade off tra avanzamenti di carriera e/o di livello professionale nel lavoro e necessità di dedicare ai figli le attenzioni indispensabili per la loro educazione. Se le cose stanno, come a me pare, in questi termini, la questione urgente da affrontare è quella di studiare tipi specifici di politiche d'uso del tempo, tenendo presente che il problema non è tanto quello della riduzione delle ore di lavoro settimanali o mensili, quanto piuttosto quello, assai più complesso, della regolazione della sequenza temporale del lavoro retribuito in modo da consentire, da un lato, alla persona di aggiustare il tempo di lavoro alle proprie esigenze nelle diverse fasi del ciclo di vita lavorativa e, dall'altro alle imprese, di ridurre i costi di riorganizzazione dei processi produttivi conseguenti all'implementazione di nuovi modi di occupazione. In altro modo, non si tratta tanto di procedere a una riduzione dell'orario di lavoro, di rilanciare lo slogan degli anni ottanta: "Lavorare meno, lavorare tutti". Anzi, da un lato gli orari di fatto di lavoro si stanno allungando e, dall'altro, le stesse discussioni a livello internazionale sugli orari di lavoro definiti per legge o tramite la contrattazione collettiva stanno arenando (in Italia, la divaricazione tra orario contrattuale e orario di fatto è marcata; dal 1980 al 1993, l'orario contrattuale medio nell'industria si è ridotto di circa 60 ore su base annua, mentre le ore effettivamente lavorate, includendo la Cassa Integrazione Guadagni, sono cresciute di circa 90 unità). Piuttosto, il nodo da sciogliere è l'articolazione dei tempi — di lavoro, di formazione, di cura, di tempo libero — e la suddivisione del tempo di lavoro tra "lavoro retribuito a prezzi di mercato" e "lavoro diversamente retribuito".
In uno studio non pubblicato del 1999, il Bureau of Labor Statistics degli Usa indicava che il 18,4% dei dipendenti federali e il 12,2% degli occupati nel settore privato usufruivano di schemi di lavoro temporalmente flessibili. Schemi in base ai quali, ciascun lavoratore è sempre presente durante intervalli fissi di tempo di due ore al mattino e al pomeriggio. Le ore restanti, necessarie a completare l'orario contrattualmente fissato, vengono recuperate su un arco di tempo, usualmente di quattro settimane, secondo un piano predisposto dal lavoratore. In altri Paesi, quali l'Australia, l'Inghilterra e i Paesi Scandinavi, le imprese di più grandi dimensioni già attuano da anni forme di organizzazione del lavoro family-friendly volte a consentire ai propri dipendenti di conciliare esigenze di lavoro e impegni familiari. Ciò che consente a tali imprese sia di attrarre personale di talento sia di mantenere nel lungo periodo in ambito aziendale dipendenti che altrimenti verrebbero persi. I career breaks, introdotti per via legislativa in Belgio nel 1985, vengono oggi offerti, su base volontaria, da non poche imprese in molti altri Paesi. Per esempio, la Midland Bank in Inghilterra consente ai propri dipendenti di prendersi fino a cinque anni, in tre intervalli separati con almeno un anno di servizio continuativo tra un intervallo e l'altro, per la cura dei figli, degli anziani o per altre ragioni familiari. Agli occupati di livello dirigenziale vien assicurato il reimpiego al medesimo grado, ma costoro devono lavorare almeno dieci giorni all'anno per mantenersi in contatto con la banca. E così via3.
In buona sostanza, l'idea dell'approccio del ciclo di vita alla tematica occupazionale si basa sulla possibilità di organizzare la scelta tra tempi di lavoro, tempi "familiari" e tempo libero avendo come riferimento l'intero arco di vita degli individui. Un numero crescente di persone è desiderosa di abbandonare temporaneamente il luogo di lavoro per trarre vantaggio dall'opportunità di formazione di vario tipo che le nuove tecnologie dell'informazione rendono oggi disponibili o per soddisfare esigenze di cura familiare. Ma, a buon considerare, anche le imprese hanno il medesimo interesse: il tasso di obsolescenza del capitale umano è oggi così elevato da imporre, di fatto, continui programmi di retraining per tutto il personale se si vogliono vincere le sfide della concorrenza nell'era della globalizzazione. Non solo, ma le stesse imprese hanno tutto l'interesse ad avere come dipendenti o come collaboratori uomini e donne che si sentono realizzati a livello personale perché in grado di declinare in maniera non più oppositiva lavoro e famiglia. In non poche aziende vige tuttora una mistica quantitativa del lavoro, per cui un dipendente è tanto più apprezzato quante più ore serali di straordinario svolge. E i capi devono inventarsi sempre nuove incombenze pur di trattenere i propri dipendenti oltre l'orario contratto, oppure escogitare astruse combinazioni di orario. De Masi racconta di una raffineria della "Esso" che prevede l'inizio giornaliero del lavoro alle 7.43 e la fine alle 16.51. Sempre De Masi ha svolto indagini accurate sul telelavoro, da cui emerge che i compiti che in azienda richiedono otto-dieci ore a casa si svolgono comodamente nella metà del tempo. Come a dire che l'azienda, in quanto istituzione totale, tende ad assorbire quanto più tempo dai suoi quadri e dipendenti e ciò indipendentemente da ragioni legate all'attività produttiva.
Un triste circolo vizioso
Di qui il triste circolo vizioso: quante più ore si resta in azienda, tanto più si diventa estranei alla famiglia e alla vita di relazione; d'altro canto, quanto più sì diventa estranei alla famiglia e agli amici, tanto più ci si sente a proprio agio dentro l'azienda. E infatti le aziende tendono, disperatamente, a internalizzare i luoghi della socializzazione, realizzando ritrovi, bar, piscine, campi da gioco e così via. Vale a dire, si preferisce fingere che ci sia lavoro sufficiente a far lavorare tutta la giornata i propri dipendenti piuttosto che riorganizzarsi e lasciare che costoro occupino il tempo non necessario a generare valore aggiunto nella vita di famiglia ovvero nello svolgimento di altre attività lavorative.
In definitiva, una politica tesa a realizzare una flessibilità intertemporale del lavoro segnala una profonda trasformazione negli stili di vita e un marcato avanzamento culturale: l'esperienza di lavoro tiene conto, almeno in qualche misura significativa, dei bisogni personali e dei progetti di vita. E non v'è chi non veda come una prospettiva del genere possa concretamente contribuire ad avviare a soluzione il problema della donna e, più in generale, della famiglia. Siamo stati abituati, durante la fase della società industriale, a declinare il concetto di libertà di scelta nei termini della scelta sul mercato tra vari tipi di beni e servizi. La nuova frontiera della libertà, nell'era post-industriale, richiede che la nozione di libertà di scelta venga progressivamente estesa alla scelta dei piani di vita. È consolante sapere che gli aumenti continui di produttività associati alle nuove tecnologie rendono - se si persegue con intelligenza e saggezza - un obiettivo del genere concretamente realizzabile.
Certo, l'implementazione pratica del progetto sulla conciliazione famiglia-lavoro non può prescindere da un ripensamento radicale del modo di funzionamento della Pubblica amministrazione (Pa). Se non muta il presupposto primo che sta al fondo del modo di operare della Pa, difficilmente progetti innovativi come quello di cui si sta parlando potranno trovare piena ed efficiente attuazione. L'idea di fondo è presto detta: si tratta di riportare al centro dell'azione amministrativa la persona. Ciò significa che devono essere le situazioni concrete a definire i bisogni e quindi le aspettative dei cittadini, e non viceversa le rappresentazioni standardizzate del sistema di protezione sociale alle quali devono essere ricondotti i casi concreti. Per dirla in termini un po' perentori: è la domanda che deve orientare i servizi e non l'offerta dei servizi a costringere la domanda ad adeguarsi a essa. Tale mutamento di prospettiva porta a grandi conseguenze: a) come gestire l'organizzazione della struttura pubblica quando il cittadino giunge all'operatore di contatto; b) quali processi attivare per passare dall'autoreferenziale centralità delle competenze istituzionali alla centralità della domanda che obbliga il sistema amministrativo al confronto con bisogni mutevoli. Come si comprende, senza questo tipo di innovazione organizzativa, difficilmente sarà possibile rispettare appieno lo spirito del progetto di conciliazione.
V'è una seconda condizione che va soddisfatta: il rispetto della centralità del territorio. È noto che gli ambienti in cui le persone vivono e lavorano esercitano su di esse e sui loro progetti di vita un'influenza tutt'altro che marginale. E gli ambienti non sono tutti eguali, anche se situati spazialmente in una medesima Regione. Ciò comporta che si deve transitare dal government (approccio top-down) alla governance (approccio bottom-up), basata su procedure che coinvolgano le tre sfere della società regionale: la sfera della Pa, della business community, della società civile organizzata (È in questo coìnvolgimento tripolare il significato della nozione di capitale sociale di tipo linking). In uno schema del genere, la Pa non appare più come un sistema gerarchico, ma come rete di unità organizzative in continuo dialogo con le altre due sfere di cui sopra. Con il che le vecchie istituzioni cessano di rappresentare l'unico centro di potere. Il vero governo del sistema diviene il governo delle reti delle unità che producono i servizi, non delle prestazioni. Dalla pianificazione prescrittiva (government) si passa così alla programmazione, nella quale alle istituzioni pubbliche spetta sia il compito di regia del processo cui partecipano una pluralità di attori, sia il compito di fissare norme e regole da far rispettare, oltre che la responsabilità politica. In definitiva, la filosofia che deve guidare una politica della famiglia deve lasciarsi alle spalle la nozione di cittadino-utente per accogliere quella di cittadino-committente, di un soggetto cioè che si riconosce come elemento attivo che orienta i servizi e li valuta. Di qui l'arricchimento della nozione di responsabilità, che non può solo significare dare conto di quel che si è fatto, ma anche tener conto dei bisogni reali che vengono espressi e reclamati. Ecco perché non basta preoccuparsi del rispetto delle sole procedure; occorre anche badare ai risultati (outcomes) che di quelle procedure sono la conseguenza.
Verso una conclusione
Una sorta di pre-condizione generale deve essere soddisfatta per dare ali a una coraggiosa politica della famiglia: che si attui finalmente il principio di sussidiarietà orizzontale. Infatti, la domanda che non pochi si pongono è: come mai nonostante il Titolo V della Carta Costituzionale sia stato modificato nel 2001, non sono ancora visibili in Italia, salvo lodevoli ma sporadiche eccezioni, significativi risultati sul fronte della sussidiarietà? Potrei rispondere con una frase idiomatica americana che rende l'idea: «It takes two to tango» (bisogna-essere in due per ballare il tango). Per attuare la sussidiarietà bisogna agire da ambo i lati del processo decisionale e cioè l'ente pubblico deve cedere quote di decisionalità a favore di soggetti della società civile; ma dall'altro bisogna che tali soggetti siano in grado di assumersi la responsabilità di quelle decisioni. Ebbene, per ragioni a tutti note, queste due condizioni non sono ancora pienamente soddisfatte. Dal versante dell'ente pubblico si osserva una naturale resistenza a condividere con altri il potere decisionale. Ma si dovrebbe sapere che la democrazia rappresentativa non significa affatto che l'eletto possa fare ciò che lui pensa sia opportuno fare per tutto il periodo della carica senza il confronto, in itinere, con la comunità politica di cui ha la rappresentanza. Nasce qui la necessità di riflettere sul significato proprio di democrazia deliberativa, un modello che con molta fatica si va facendo strada nel nostro Paese. È comprensibile, ma non giustificabile, che l'ente pubblico, abituato da decenni, a una cultura dello statalismo, sia restio oggi a cedere ad altri quote del potere decisionale. Ma è altrettanto vero che i soggetti della società civile organizzata non sono ancora pronti, ad assumersi il ruolo di coprogettazione e di coproduzione. Sono bensì pronti a gestire ma non ancora a prendere decisioni. Il mondo dell'associazionismo, del volontariato, delle cooperative sociali, dopo decenni di esperienze sul campo hanno acquisito grande esperienza di gestione, ma le capacità decisionali sono altra cosa.
Decidere, in latino significa tagliare. E' capace di decisione chi è capace di eliminare opzioni ritenute irrilevanti e dunque di assumersi le responsabilità conseguenti che è quella di far fronte ai costi opportunità. Quanto detto ci aiuta a capire la straordinaria fortuna in Italia del cosiddetto welfare mix, che finora è stato lo spazio prevalente al quale si è potuto applicare il principio di sussidiarietà. Ma il welfare mix non è propriamente la sussidiarietà; e ciò che gli inglesi chiamano outsourcing. In altre parole, in un sistema di welfare mix l'ente pubblico dà in gestione ad altri soggetti sulla base di convenzioni, o gare d'appalto, una serie di servizi, ma le scelte strategiche restano opera sua, anche se prese sulla base di informazioni raccolte dai soggetti gestori. In definitiva, nonostante i tanti sforzi profusi a favore del principio di sussidiarietà, stentiamo ad applicarla perché non abbiamo riflettuto a sufficienza su come accelerarne l'implementazione. Per un verso, fare in modo che l'ente pubblico non si senta sminuito quando condivide con altri il processo decisionale, per l'altro, i soggetti della società civile devono imparare ad assumersi la responsabilità. Si badi che la responsabilità è sia per quel che si fa e sia per ciò che non si fa. Ritengo che i tempi siano maturi per dare "l'assetto al ciclo".
Stefano Zamagni
Famiglia Oggi di Gennaio-Febbraio '11