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Giovedì, 06 Ottobre 2011 12:56

Divorzio all’italiana. Ecco perché è bene (per tutti) che le donne lavorino.

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Trastevere, edicola sacra Trastevere, edicola sacra

Se lavorate, tenete stretto il vostro posto. E, se avete una figlia, insegnatele, sì, a tenere in ordine la casa, ma spronatela soprattutto a essere economicamente autonoma. Per una donna non c’è assicurazione migliore. È quanto mi viene da dire dopo aver lavorato su separazioni e divorzi per scrivere il post che state leggendo. E lo dico con un qualche disagio avendo io molta considerazione per il lavoro femminile come valore in sé e anche rispetto per il matrimonio e per la fiducia nelle e tra le persone.

 

Penso che sia in corso una trasformazione profonda in tema di famiglia, con regole “tradizionali” nel momento del matrimonio e “all’americana” (non mi viene un termine migliore) nel momento della sua fine, ma senza le stesse regole Usa. Un po’ quanto accade in parallelo nel mondo del lavoro. Non è un giudizio ”bene/male”, ma una constatazione per cercare di capire dove/quali correttivi è necessario adottare. Anche perché l’accelerazione è fortissima, ci si divide sempre di più e sempre prima: a dieci anni dalle nozze, erano ancora insieme 963,8 coppie su 1.000 di quelle sposate nel 1972, ma solo 877,5 di quelle sposatesi nel 2000.

Io penso, come ho già scritto, che molto stia nell’origine: in come ci si sposa.

Più volte il tema della crisi del matrimonio è stato toccato nei commenti di chi frequenta il nostro blog, soprattutto per sottolineare l’impoverimento che ne consegue. Provo, dunque, ad affrontarne (per ora) una parte, attraverso una serie di numeri e i commenti di alcuni esperti della materia. Mi sono concentrata sulle affermazioni più ricorrenti nel blog, e in particolare quelle al post Perché il matrimonio fa così paura? che sintetizzo così: 1) in Italia le mogli si fanno mantenere, 2) sono le donne che chiedono la separazione, 3) a causa del divorzio gli uomini diventano poveri, 4) la casa finisce sempre all’ex moglie, 5) la Giustizia è in realtà una inGiustizia e fa crescere un business attorno a separazioni/divorzi.

Essendo il tema sterminato e trasversale a diversi settori (dalla psicologia alla sociologia al diritto) ho preferito “tagliarlo”, rimandando a un’altra volta un aspetto diverso e delicato come l’affidamento condiviso dei figli, anche se in qualche punto (per esempio, la casa) si intersecano. Sarò purtroppo estremamente lunga, ma non sono riuscita a fare di meglio. Spero di aver scritto senza urtare troppo i sentimenti che, in questo ambito, sono già abbastanza messi alla prova.

Ho puntato sul rapporto tra gli adulti, che sono gli attori del matrimonio e della sua fine, mentre ho volutamente escluso il mantenimento dei figli: penso che quando si diventa genitori ci si assuma una responsabilità di cui bisogna essere consapevoli nel tempo. Trascrivo qui la prima delle regole di civiltà indicate dall’Associazione dei papà separati che dice: “I figli non vi hanno chiesto di venire al mondo. Domani ve ne chiederanno sicuramente conto”. Parlerò principalmente della separazione perché è il momento in cui si definiscono gli assetti tra due coniugi che diventeranno ex.

Donne al lavoro, dunque, non per far crescere il Pil, per aumentare la competitività del Paese e quella delle imprese, per realizzarsi professionalmente - tutti motivi assolutamente importanti – ma come forma di protezione. Di se stesse, dei figli se ve ne sono e anche degli uomini che hanno sposato. 

“Il lavoro delle donne è la maggiore protezione contro la povertà – dice Chiara Saraceno, sociologa della famiglia cui si devono alcuni dei principali studi sul tema -. Non c’è alcun dubbio che la miglior politica di contrasto alla povertà dei bambini sia aiutare le loro mamme a trovare un lavoro . Purtroppo – prosegue Saraceno – le donne non si proteggono. Come diceva in tempi non sospetti il sociologo francese Francois de Singly quando una donna decide di non investire nel lavoro perché investe nel matrimonio fa una cosa che, se fosse un investimento finanziario, sarebbe altamente sconsigliabile perché concentra tutto il proprio investimento in un unico bene che è il matrimonio e la sua durata. Una situazione molto efficiente se il matrimonio dura e se il marito ha successo nel mercato del lavoro, ma totalmente perdente se qualcosa non funziona. Gli uomini – dice ancora la sociologa – anche quando investono tanto nel matrimonio, non vi investono tutte le proprie risorse perché continuano a investirle anche nel lavoro. Non è solo un problema di risparmi – spiega Saraceno – ma del fatto che per la maggioranza delle persone il bene più grosso che si ha è la propria capacità di lavoro.

Anche se divido il patrimonio, se divido la casa, se divido equamente ogni bene al momento della separazione, la ricchezza più grande che uno ha accumulato è la capacità di continuare a guadagnare, oltre che la propria futura pensione. Una capacità che non è divisibile.

Una donna che si ripresenta sul mercato del lavoro, che ha lasciato per accudire i figli, si presenta con un curriculum perdente e in competizione con donne e uomini più giovani e spesso senza figli”.

1) In Italia le mogli si fanno solo mantenere?

Mica tanto. Vediamo qualche numero.

Nel nostro Paese è consensuale l’85,6% delle separazioni e il 72,1% dei divorzi (su questo andate anche il successivo punto 5).

 Le separazioni che si concludono con l'assegno di mantenimento al coniuge (di solito, il marito alla moglie) sono 1 su 5 (21,1% dei casi nel 2009). In 4 casi su 5 nessuno dei due coniugi si deve niente. Solo due anni prima (2007) le separazioni con assegno al coniuge erano il 27,1%, un po’ più di 1 su 4. Va detto che, nella serie storica dal2000 a oggi, il 2007 è stato l’anno di punta.

 Se si guardano le diverse aree geografiche si vede un cambiamento negli ultimi tre anni: il Nord Est è passato dal 22% di assegni al coniuge del 2007 al 16,6% del 2009; il Nord Ovest dal 22% al 17,3%, il Centro dal 30,7% al 22,2%, il Sud dal 34,6% al 28,1, le isole dal 31,3% al 25,3.

I numeri diminuiscono ulteriormente con il divorzio: quelli che si concludono con un assegno al coniuge (di solito alla moglie) erano il 15% nel 2007, il 13,3% nel 2008 e il 12,8% nel 2009. Poco più di 1 su 10.

Non si possono leggere questi dati senza ricordare che in Italia ha un lavoro retribuito meno di una donna su due (46,1% il tasso di occupazione femminile), con differenze profonde tra Nord e Sud (56,1 al Nord, 30,5% al Sud). E “resistono” differenze rilevanti di stipendio tra uomini e donne.

Nelle coppie che si separano, però, le donne hanno un tasso di occupazione più alto della media italiana: hanno un lavoro nel 65,5% dei casi (e questo dato influenza anche il successivo punto 2). Resta, in ogni caso, uno scarto importante rispetto ai dati degli assegni di mantenimento.

“I giudici sempre meno riconoscono un assegno di mantenimento alla moglie, neppure nel caso in cui sia casalinga. Se è in età da lavoro, in nome della parità, si dice che deve attivarsi, il che è anche una buona cosa ma farlo a 25 anni o a 45 dà delle chance diverse – dice Saraceno -. Oggi un assegno di mantenimento al coniuge si dà se è molto anziano o se vi sono figli molto piccoli”.

Ma l’Italia, come abbiamo visto, non è tutta uguale: “I giudici prendono atto del mercato del lavoro, così finiscono per pagare più spesso un assegno di mantenimento alla moglie uomini con redditi modesti nel Mezzogiorno anziché uomini più abbienti nel Centro Nord. Già da tanti anni negli Stati Uniti – prosegue la sociologa – nei casi in cui la donna aveva lasciato il proprio lavoro per aiutare il marito, le sentenze prevedono spesso l’obbligo per l’ex marito di aiutare finanziariamente il ritorno in formazione dell’ex moglie, in modo che lei recuperi almeno in parte una capacità spendibile sul mercato del lavoro – ricorda Saraceno –. Ma questo segnala come i due capitali umani in caso di separazione non abbiano lo stesso valore dal punto di vista del mercato”.

Sul tema assegno al coniuge Marino Maglietta, fondatore di Crescere insieme, storica associazione che spinge per la bi-genitorialità, dice però che “è completamente assurdo che la Cassazione continui a ribadire ancora oggi che, se una coppia aveva deciso che la moglie non lavorasse ma si occupasse della casa, ha diritto a continuare a non lavorare anche dopo la separazione. Siamo uno degli ultimi Paesi al mondo in cui esiste il vitalizio sine die, quasi ovunque si prevede un tempo per raccordare la situazione di prima a quella del dopo”. È assurdo, dice Maglietta, “perché quella che prima era una mini comunità in cui ciascuno svolgeva un proprio compito, chi lavorando in casa e chi fuori, dopo non esiste più e il principio è che ognuno deve provvedere a se stesso”. Ci sono però Paesi come gli Stati Uniti dove con il divorzio ci si divide il patrimonio di famiglia fin lì messo insieme. “Gli Stati Uniti scontano una tradizione matriarcale, ma esistono anche altre soluzioni. La solidarietà è fuori discussione, ma penso che si debba verificare  in ogni singolo caso se davvero esiste uno stato di necessità: non si può fare del mantenimento del coniuge una regola generale”.

2) Sono le donne che chiedono la separazione?

Sì, se si guarda la persona che attiva il processo di separazione: quasi 3 volte su quattro è la moglie (73,3% nel 2007).

Al divorzio, però, la situazione esattamente si inverte, anche se non con la stessa proporzione: sono gli uomini a chiederlo più frequentemente (il 55,2% delle richieste di divorzio arriva da un uomo, contro il 41,3% delle mogli – dati 2007).

Sulle motivazioni della separazione, fornisco un dato Istat ma poi chiedo a voi in fondo al post: prendendo in considerazione le sole separazioni giudiziali, l’80,6% di queste è concesso per intollerabilità reciproca della convivenza, il 16% con addebito al marito e il 3,4% con addebito alla moglie.

Quanto al divorzio, “meno donne lo chiedono perché  in misura minore vogliono risposarsi e anche perché hanno meno chance, soprattutto se hanno figli che vivono con loro – dice Saraceno -. Se guardiamo i nuovi matrimoni in cui uno dei due proviene da uno precedente si vede che si risposano di più i vedovi delle vedove, i divorziati delle divorziate”.

 “Tutte le ricerche – prosegue però Saraceno – mostrano che è più facile separarsi quando si ha un lavoro. A due anni dalla separazione chi non lo aveva, lo ha cercato. È più facile che una donna decida di rompere il matrimonio perché ha aspettative più elevate, non solo in termini economici ma in termini relazionali e affettivi. Accetta meno che il matrimonio non funziona. Oltre ai suoi aspetti negativi, l’instabilità coniugale è anche un segno di accresciuti gradi di libertà. Non a caso nel Mezzogiorno ci si separa meno, perché si hanno meno risorse per uscirne”. Nel 2009 al Sud si sono registrate 198,6 separazioni per mille matrimoni contro le 374,9 per mille matrimonio del Nord-ovest, punta massima italiana.

3) A causa del divorzio gli uomini diventano poveri?

Se guardiamo i numeri, la risposta è no.

Quando una famiglia “normale” si rompe diventa necessariamente più povera perché vengono meno le economie di scala (le case da mantenere diventano due, etc) e si impoverisce a maggior ragione in questi anni di crisi economica. Questo è un dato indubbio del quale bisogna tener conto: le persone separate/divorziate rappresentano il 12,7% delle persone che si rivolgono ogni anno alla Caritas Italiana. La metà di loro (50,9%) ha problemi di povertà. Il 13% vive con figli minori.

Ma se  (purtroppo) si deve guardare su chi ricadono nella media i danni, “certamente esistono padri in gravi condizioni, ma i dati Istat ci dicono  che sono le donne sole e con figli separate/divorziate le persone a maggior rischio di povertà e non lo afferma solo l’Istat ma anche altre ricerche”, come dice Linda Laura Sabbadini, direttore di dipartimento Istat.

I dati Istat sull’incidenza di povertà relativa del 2010 dicono che tra gli uomini separati e single è povero l’1,6%, dato che cresce al 3,5% tra le donne single separate.  Il dato esplode in presenza di figli: le donne monogenitore sono povere nel 10,4% dei casi, dato che sale al 15,4% se il figlio è minorenne.  Per gli uomini il dato statistico di povertà è in molti casi non significativo.

Prendiamo un’altra fonte: la Caritas Italiana. Del 12,7% di separati/divorziati che chiede aiuto alla Caritas, il 66,5% è donna, il 33,5% è uomo e “non ci sono modifiche significative nel tempo di questo rapporto”, dicono all’Ufficio studi dell’organizzazione pastorale della Cei (Conferenza episcopale italiana), sottolineando che “noi non riscontriamo il fenomeno dei padri separati che ricorrono alla Caritas così come viene descritto.

Ci sono casi eclatanti che colpiscono, ma i numeri dicono una realtà diversa. Il punto – proseguono all’ufficio studi – sta probabilmente nel fatto che la donna separata riesce ad avere maggior accesso al welfare e alla rete della solidarietà, mentre i padri riescono meno e quindi ricorrono a forme più estreme”.

Su questo punto concorda anche Maglietta. “Ci sono casi di grossi sacrifici da parte dei padri, ma vedo tante più donne separate in difficoltà per il disinteresse dei padri nei confronti dei figli. Sono padri che fanno male a tutti, anche a chi vorrebbe una legge più equilibrata sull’affidamento dei figli, e inducono la magistratura a scelte sbagliate”. Maglietta stima nel 15% delle separazioni giudiziali la categoria dei padri emarginati, “il restante 85% è ben contento di fare il padre assente”.

Vittorio Vezzetti, medico e presidente di Adiantum, l’Associazione delle associazioni  nazionali di tutela dei minori (dai Papà separati alle Mamme separate a Figli per sempre) ribatte, però, che “facciamo anche che siano il 10% del totale, si tratta sempre di 140-150.000 genitori massacrati dai Tribunali italiani. Quanto ai molti padri assenti, noi siamo per inasprire le sanzioni per chi si dilegua”.

Il vero discrimine, secondo Vezzetti, è nella casa (e questo ci ricollega al punto 4): “Con la separazione donne e uomini entrano in crisi economica. Ma l’emergenza abitativa – soprattutto nelle realtà urbane – colpisce solo gli uomini”. La soluzione, per Vezzetti, è nel cercare di recuperare potere economico per entrambi con una diversa gestione dei figli: non più il collocamento prevalente accompagnato dall’assegno di mantenimento ma l’alternanza del figlio presso i genitori, metà tempo dalla madre e metà del padre che direttamente provvedono alle sue necessità. Assicurando in questo modo ai figli due genitori “interi”. ”In Francia - prosegue Vezzetti - il 24% dei minori ormai vive in alternanza tra i due genitori e sta meglio di altri, è più socievole, più adattabile. Molti Paesi hanno adottato i tempi paritetici, oltre alla Francia, per esempio anche la Germania e la Svezia”.

Sul punto della povertà dei padri, Chiara Saraceno ha una visione netta. “È vero – dice – che c’è una minoranza di papà separati non abbienti per i quali la separazione produce dei costi e diminuisce il tenore di vita solo per il fatto di pagare l’affitto perché la casa è rimasta alla moglie perché lì abitano i figli . Ma oggi nei Tribunali si vede solo il flusso che esce dalle tasche dei padri e non si vede l’inadeguatezza di ciò che entra in quelle delle madri e non per cattiveria dei padri. Spessissimo i giudici sono più simpatetici nei confronti di un padre piuttosto che interrogarsi sull’altra parte, i bambini mangiano tutti i giorni. È una guerra tra poveri, ma proprio perché la donna a volte ha lasciato il lavoro e ha dedicato più tempo alla famiglia che non al lavoro, la sua capacità di lavoro è diminuita: è la persona con lo stecchino più corto”.

Sull’emergenza abitativa, un dato Istat 2010 che può essere utile: il 15,4% degli uomini separati/divorziati che sono tornati nella famiglia di origine sono poveri, per le donne il dato sale al 17,5%. Si tratta, per entrambi i sessi, di valori superiori alla media. Passiamo, così, al punto successivo: la casa.

4) La casa finisce sempre all’ex moglie?

 Nella metà dei casi di separazione sì, poco più di una su tre in caso di divorzio. “Segue” i figli.

Più di 1 separazione su 2, infatti, si conclude con l’assegnazione della casa coniugale alla moglie (57,8% nel 2000, 56% nel 2009). La casa al marito scende dal 24,9% del 2000 al 21,9% del2009. In nove anni i casi di ex coniugi con case distinte salgono da15,3 a 19,7%.

Anche in questo caso i dati cambiano con il divorzio. Arrivati alla chiusura definitiva del matrimonio prevalgono le case distinte tra i due coniugi: 47,8% nel 2009. Le case assegnate all’ex moglie sono il 37,5%, quelle all’ex marito il 13,8%.

Evidentemente, ha un peso l’età dei figli.

Maria Dossett, che a questo tema ha dedicato un libro (La famiglia e la casa, Editore La Tribuna, 2007), precisa, però, per prima cosa che “il provvedimento di assegnazione viene preso solo quando la casa è di proprietà dell’altro coniuge, o in comproprietà, oppure se l’altro coniuge è titolare del contratto che dà diritto al godimento (locazione, comodato, etc)”. Negli ultimi tempi “la giurisprudenza ha confermato a più riprese che in mancanza di figli la casa familiare non può essere assegnata al coniuge economicamente più debole, come componente in natura dell’assegno di separazione o di divorzio. Perciò, tenendo conto delle nuove norme sull’affidamento condiviso, la casa familiare è attribuita “tenendo conto prioritariamente dell’interesse dei figli”.

 Ma cosa significa “interesse dei figli”? “La formula normalmente utilizzata è che l’assegnazione della casa familiare risponde all’esigenza di garantire l’interesse dei figli alla conservazione dell’ambiente domestico, inteso come centro degli affetti, degli interessi e delle abitudini in cui si esprime e si articola la vita familiare, al fine di evitare loro l’ulteriore trauma di un allontanamento dal luogo ove si svolgeva la loro esistenza e di assicurare una certezza e una prospettiva di stabilità in un momento di precario equilibrio familiare”.

Se questa è la teoria, poiché nella pratica anche in presenza dell’affidamento condiviso i figli abitano prevalentemente con uno dei genitori, è a quest’ultimo che la casa viene normalmente assegnata. “Sotto questo profilo – conclude Dossetti -, la situazione non si differenzia in modo significativo dal sistema precedente, che era imperniato sull’affidamento esclusivo”.

“Ma è sempre vero che i figli hanno interesse a rimanere nella casa coniugale?”, domanda Maglietta. Secondo il quale la risposta non è necessariamente sì. “Bisogna vedere nel caso concreto, ci sono situazioni per cui invece l’interesse dei figli sarebbe di lasciare quella casa”.

Anche Maria Dossetti concorda che forse non sempre i figli hanno interesse a rimanere nella casa coniugale. “Se sono molto piccoli il cambiamento di ambiente non crea loro problemi, mentre, di contro, l’assegnazione al coniuge non proprietario crea un vincolo sul bene a lungo termine, che rischia di far aumentare la conflittualità; se sono grandi, potrebbe essere per loro un bene allontanarsi dalla casa dove hanno vissuto la crisi tra i loro genitori; se poi sono maggiorenni, viene scaricato sulle loro spalle il peso della decisione, perché è dalla loro scelta di vivere con l’uno o con l’altro che dipende l’assegnazione della casa”.

 5) La Giustizia è in realtà una inGiustizia?

In molti casi sì.

Per una separazione consensuale “occorrono” poco più di 150 giorni in media (287 per il divorzio), per una separazione giudiziale ne “occorrono” 909 (516 il divorzio). Meno di sei mesi contro 2 anni e mezzo. Una notevole differenza anche in costi di avvocati che pure per i casi più semplici espongono cifre impegnative per persone che hanno guadagni normali.

Questo spiega quello che, invece, può sembrare un “boom di buonsenso”. Dice, infatti, Dossetti che “il numero largamente prevalente dei procedimenti consensuali rispetto a quelli giudiziali spesso non è dovuto a una conflittualità bassa o inesistente ma, al contrario, alla prevaricazione del coniuge più forte sul più debole, che si trova a dover accettare condizioni non eque, perché non in grado di affrontare la maggiore spesa per l’avvocato o di attendere un tempo molto lungo per la definizione dei suoi diritti patrimoniali”.

Lo sottolinea anche l'Istat nelle sue rilevazioni.  “Il tipo di procedimento è condizionato da vari fattori, tra cui molto rilevanti sono la durata della causa e i costi da sostenere. La procedura che porta alla separazione consensuale o al divorzio congiunto è più semplice, meno costosa e si conclude in minore tempo. Per questa ragione, non sempre una causa di separazione o divorzio termina con lo stesso rito con cui è iniziata. Nel 2009 il 13,4% delle separazioni e il 14,7% dei divorzi si sono chiusi con un rito diverso da quello di apertura. Tra i cambiamenti di rito è più frequente il passaggio dal giudiziale al consensuale e non viceversa”.

Un altro dato interessante è che con gli anni il ricorso agli avvocati è cresciuto e nei divorzi punta a raggiungere quota 100%.

Se nel 2000 al momento della separazione si faceva assistere da un legale il 69% delle mogli e il 75,2% dei mariti (78,5% delle mogli e 78,2% dei mariti in occasione del divorzio), nel 2007 ha chiesto l’appoggio di un avvocato l’88,5% delle mogli e l’84,7% dei mariti (rispettivamente, 93,5% e 92,2% in caso di divorzio).

“I buoni genitori sono forse la maggioranza - dice Marino Maglietta - ma purtroppo il sistema legale favorisce i padri assenti e le madri prepotenti”.

Ma, allora, qual è la strada?

  • Per quale motivo il vostro matrimonio – o di persone che vi sono vicine – si è concluso?
  • Perché avete (o hanno)  scelto la strada consensuale o quella giudiziale?
  • Chi vi ha aiutato o ostacolato?
  • E’ un problema di regole o un problema di cultura?

 

Maria Silvia Sacchi. Corriere della Sera/La ventisettesima ora. 3 ottobre 2011

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