Quando nel 2003, durante la seconda guerra del Golfo, l’americana diciannovenne Jessica Lynch cade prigioniera degli iracheni, per liberarla si organizza una spettacolare irruzione notturna con telecamere al seguito e gran battage mediatico. Per giorni e giorni, su tutte le tv passano le sequenze dell’azione e le centinaia di nastri gialli, simbolo dei «missing in action» , appesi agli alberi di sicomoro, agli steccati, ai semafori di Palestine, il paese di Jessica.
Il Pentagono ha fatto una buona mossa. Quella prigionia inquietava, evocava sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo luogo quello dello stupro. Anche se essere catturati rientra fra le ovvie possibilità del mestiere di soldato, è come se in quel momento si riscoprisse l’antico volto predatorio e antifemminile della guerra. Eppure negli ultimi decenni tutto sembra cambiato. In molti Paesi, compresa l’Italia, le forze armate hanno aperto alle donne. Con la fine della guerra fredda, con le nuove armi e i nuovi fondamentalismi, i modelli di conflittualità si sono moltiplicati. Si è modificata la concezione del nemico e dei limiti da porsi (o da non porsi). Abbiamo sotto gli occhi in contemporanea ogni tipo di guerra, tecnologica, tradizionale, etnica, religiosa, «umanitaria» , asimmetrica, a bassa intensità, e spesso mischiate fra loro. Come nell’intervento Nato contro la Serbia del marzo-giugno 1999, dove terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse: una tradizionale, fra l’Esercito di liberazione del Kosovo e le truppe di Milosevic, con le donne per lo più in veste di preda e di vittima; l’altra tecnologica, di soli bombardamenti Nato e azioni della contraerea serba, con alcune giovani pilote nel ruolo di combattenti. Dunque quando si parla di donne e guerra, la prima domanda dovrebbe essere: quale guerra, quali donne. Ma non vale solo per l’oggi.
Già decenni fa, alcune studiose — penso a Jean Bethke Elshtain, Françoise Thébaud, Cynthia Enloe e a parecchie italiane— avevano mostrato che il binomio donne-guerra andava scomposto, direi sminuzzato. Nei due conflitti mondiali, per esempio, moltissime hanno lavorato nella produzione bellica, hanno tollerato la violenza per rassegnazione o per convinzione, spesso sotto le insegne della maternità, hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli, mariti, fratelli, compagni. Alcune hanno preso le armi. Non è solo effetto dell’identificazione con il destino maschile o della propaganda. Il punto è che, in mezzo a sofferenze e rinunce, dalla guerra nascono anche nuove forme di autoaffermazione: maternità e lavoro delle donne sono promossi a fulcro dello sforzo nazionale, la femminilità viene esaltata come contraltare della violenza. Di più: nella seconda guerra, una donna può trovarsi a guidare un’azione armata, a fare sabotaggi, a salvare, a uccidere; e a potenziare con il proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute abitualmente per la interposta persona dell’uomo. A dispetto di recenti speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredità storica hanno immunizzato le donne dal piacere di condividere esperienze fondate sulle categorie di virtù civile, gloria, orgoglio nazionale, da cui nella normalità sono state escluse. Ma altre, o le stesse in tempi diversi, hanno dato vita a manifestazioni antibelliciste, tentato di fermare i treni diretti al fronte, nascosto disertori e renitenti. Come le molte italiane che all’indomani dell’ 8 settembre, quando l’esercito si disfa e decine di migliaia di soldati si sbandano nel Paese occupato dai tedeschi, li soccorrono a rischio della propria vita, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e mettendoli sulla via di casa.
Forse una continuità va cercata sul piano dei simboli. Nell’immaginario e nella propaganda di guerra ha ancora corso la figura della donna in pericolo, da sempre una delle leve più potenti per sollecitare la combattività maschile e per costruire la maschera barbarica da sovrapporre all’Altro. Una maschera così essenziale — scrive George Mosse a proposito della Grande guerra— che i tabù destinati a frenare l’iconografia della brutalità vengono abbandonati: all’epoca circolano in quantità le cartoline che rappresentano il nemico coperto di escrementi e con gli organi sessuali bene in vista, o che illustrano stupri e sodomie. Le allusioni a una presunta violenza subita da Jessica Lynch hanno una lunga storia. E ha una lunga storia lo stereotipo base, secondo cui donne e guerra sono reciprocamente incompatibili. Saggio stereotipo, se si decidesse di farne il primo passo verso il riconoscimento che l’inconciliabilità riguarda ogni essere vivente.
Anna Bravo- Cogito ergo sum, 15.04.11(Corriere della Sera 12.4.11)