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Sabato, 23 Luglio 2011 08:25

Il termine “carer”: da rivedere? Una critica all’adozione universale del termine

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Nella letteratura anglosassone si parla molto di carer, oppure di care-giver (americano).
Ormai si è abituati ad incontrare il termine anche in Italia, talvolta tradotto come “persona che cura”, oppure persona che “si prende cura di”.

 

Un recente articolo della rivista Ageing and Society mette in dubbio l’utilizzo della parola, e si chiede se non sia forse stata usato a dismisura, e se non sia  servita più ai ricercatori e ai gruppi di lobbying

Il termine è entrato nei dibattiti negli anni settanta/ottanta, all’interno soprattutto della ricerca di stampo femminista che voleva giustamente portare alla luce la massa di lavoro - non visibile  e non riconosciuto – svolto dalle donne. 
In quest’ottica e in quel periodo storico ha avuto, secondo gli autori,  una grande importanza,  tanto che il concetto di cura è presente oggi nei dibattiti sulle politiche familiari, nella contrattazione riguardante il lavoro, nella conciliazione famiglia/lavoro e via dicendo. Ma il termine ha comunque dei limiti. Infatti, sotto la parola cura si ricomprende una grande varietà di attività, spesso non paragonabile fra di loro, e questo non aiuta nella comparazione. Il termine, utilizzato ormai nel campo della cura agli anziani non autosufficienti, nel campo della disabilità, nelle cure palliative e in altri situazioni dove per un tempo più o meno lungo una persona urge di attenzione da parte di altri, spinge verso un pensiero di tipo dicotomico.  Da una parte infatti ci sarebbero i “bisognosi di cura”, e dall’altra quelli che provvedono a questa cura. Spesso questa dicotomia non corrisponde alla realtà, e alcuni studi mostrano come né i primi né i secondi si identificano automaticamente in ruoli cosi distinti, in quanto si tratta di relazioni che sono caratterizzate da una certa reciprocità e che hanno una storia. Il bisogno di cura si manifesta all’interno di una relazione e in un “progetto” spesso di lunga data, come può essere il caso nella complementarietà fra due coniugi anziani con eventuali disabilita.

Per i “curati”, l‘etichetta non promuove il pieno utilizzo delle risorse che comunque ci sono, e spinge alla esclusione  invece che alla integrazione, anche  in aree di vita dove questo sarebbe possibile. Questo aumento il rischio di vulnerabilità e addirittura di abuso. 
Quando ogni deficit o problema viene considerato tragedia, non è che si perde di vista l’estrema variabilità della esistenza umana?

Il termine carer è spesso associato a termini quali peso e fatica. Diversi studi invece riportano che per tante persone - anche secondo le culture di provenienza - queste attività non solo sono assolutamente normali, ma sono vissute con approvazione sociale e sono fonte di autostima. Inoltre, il termine carer è spesso associato a un familiare oppure ad un rapporto informale. Sono relazioni fra coniugi, genitori figli, partner, amicizie e questi sono concetti che implicano di per sé attenzione reciproca dell’uno verso l’altro. Non valorizzando questa complicità si rischia di dividere e di frenare la collaborazione, invece di utilizzare alla meglio le risorse.

Gli autori dell’articolo invitano dunque di tornare – ove possibile - alla terminologia di sempre: coniuge, figlio, partner, amico, etc. Anche verso i servizi bisognerebbe definirsi all’interno della relazione.

Non c’è allora il rischio di tornare alla non visibilità del lavoro di cura? Secondo gli autori, no. L’importante è  tenere pienamente in considerazione i bisogni delle persone coinvolte nella relazione per potere rispondere meglio.  Gli autori, inglesi,  sottolineano infine come le loro considerazioni non sono in alcun modo un invito al taglio della spesa sociale e nemmeno un tentativo di respingere le problematiche nel silenzio del privato, ma un invito a meglio comprendere.

Nasce la domanda: ma in Italia, con una bassa presenza delle donne nel mondo del lavoro, forti disuguaglianze nella divisone di compiti nel lavoro domestico e in quello di cura e dove persistono  ruoli di genere stereotipati,.è già arrivato il momento (storico) per abbandonare un concetto che forse non ha fatto ancora in tempo a penetrare nelle coscienze?

Molyneaux V., Butchard S., Simpson J, Murray C., 2011 - Reconsidering the term “carer”. A critique of the universal adoption of the term “carer”, J. Ageing and Society, n.3.

Letto 3943 volte Ultima modifica il Giovedì, 28 Marzo 2013 17:02

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