Le coppie conviventi pongono alla Chiesa una questione tipicamente pastorale: come annunciare l’amore in un mondo che cambia? E la risposta non può, ovviamente, non partire da una attenta lettura della realtà, da una comprensione degli aspetti dell’odierno dibattito culturale, come ben emerge dalle precisazioni di Francesco Belletti, sociologo e direttore del Cisf (Centro internazionale studi famiglia) di Milano, il centro culturale del settimanale Famiglia Cristiana, al quale abbiamo rivolto alcune domande.
È possibile ipotizzare una tipologia dei motivi e delle forme che assumono oggi le convivenze in Italia?
«Le "convivenze non matrimoniali" provengono oggi da percorsi estremamente differenziati, sia rispetto ai progetti di vita individuali, sia rispetto alle modalità con cui la normativa li considera. Una sintetica tipologia dei motivi e delle forme che assumono oggi le convivenze in Italia può articolarsi su:
- a. la convivenza come "matrimonio non ancora perfezionato": un uomo e una donna decidono di vivere insieme condividendo in pratica i diritti e i doveri dell’istituto matrimoniale, anche nei confronti di eventuali figli, perché non possono (ad esempio in quanto già sposati e non ancora divorziati) legittimare la loro posizione, anche se pensano di "regolarizzarla" appena legalmente liberi. Qui non si contesta il matrimonio, ma si adotta la situazione di fatto come transitoria, in attesa di poter fare il matrimonio;
- b. la convivenza come "prova": un uomo e una donna si mettono insieme per "sperimentare" la loro relazione, per saggiarsi e adattarsi reciprocamente, in vista di un ideale di coppia che vogliono "riuscita"; temendo di sbagliare nella scelta del partner, si prendono un periodo di convivenza per assicurarsi che essa possa funzionare come desiderano e/o si aspettano;
- c. la convivenza come "scelta": un uomo e una donna scelgono la convivenza libera come condizione stabile di vita, ossia come progetto di vita che non prevede di legalizzare l’unione con il matrimonio. Naturalmente le motivazioni (psicologiche, materiali, ideologiche, ecc.) possono essere assai diverse e complesse. «Dal punto di vista della "cura pastorale", soprattutto la seconda tipologia è ormai presente in misura crescente e diffusa anche all’interno dei percorsi di preparazione al sacramento del matrimonio cristiano, chiedendo una forte modifica delle metodologie, dei contenuti e dei percorsi formativi».
Chi decide di sposarsi, normalmente lo fa perché crede di essere pronto per condividere, come coppia, un progetto di vita. Può l’opzione della convivenza racchiudere anch’essa questo sguardo ampio sul futuro?
«Difficilmente l’opzione della convivenza rafforza il progetto sul futuro, tanto più nella situazione odierna, in cui tutte le coppie, specialmente quelle giovani, si trovano in una condizione di precarietà economica, sociale, abitativa, relazionale, che diventa una dimensione costante delle loro esistenze. Manca la capacità di pensarsi in un tempo e in un rapporto che sia diverso da quello del momento presente, perché il cambiamento non trova uno spazio di pensiero. In una condizione di vita generalmente precaria, connotata dalla mutevolezza e dal cambiamento, l’opzione della convivenza quale forma di legame di coppia raramente sembra rientrare all’interno di un progetto di vita, fatto di scelte ragionate e consapevoli, frutto di un percorso intenzionale e di una decisione capace di avere uno sguardo ampio sul futuro. Emerge piuttosto una concezione della convivenza come processo spontaneo, come qualcosa di naturale, che viene da sé, che non ha bisogno di cure e di pensieri, ma si sviluppa con una sorta di autonomia propria, quasi "per inerzia", senza una "decisione", un cambio radicale, quale è invece la scelta di "sposarsi".
«Molti sono i fattori che rendono difficile la costruzione di un progetto di vita per i giovani di oggi: fattori socio-strutturali esterni, come la difficoltà di entrata nel mondo del lavoro, la difficoltà di trovare casa, i costi per una nuova famiglia, ma anche fattori relazionali familiari, come la resistenza nel distacco dai genitori, la difficoltà di progetto autonomo, l’adozione di strategie di "rinvio" su diverse scelte importanti (matrimonio, ma anche primo figlio, progetto professionale personale, ecc.). Non si tratta, dunque, solo di una "non scelta" personale o di coppia, per paura o incertezza, ma anche di un nuovo "patto relazionale familiare" stretto tra genitori e figli adulti nella famiglia di origine e fortemente condizionato da un contesto sociale che "non investe" nelle nuove famiglie.
«La scelta della convivenza sembra inoltre avere basi quasi esclusivamente passionali, istintive. Ben pochi se la sentono di "scommettere" oggi per tutta la vita; perché impegnarsi, perché indebitarsi relazionalmente, soprattutto quando c’è di mezzo l’amore? In questo caso emerge tutta l’ambiguità e la falsità di un certo modo di concepire e di "educare" all’affettività, proposta come il luogo dell’istintività, dell’immediata soddisfazione dei propri sentimenti, che non può né deve essere vincolata da altri criteri. Questa "istintività irrazionale dei sentimenti" indebolisce la capacità progettuale degli affetti».
Come si connota la scelta del matrimonio religioso?
«In primo luogo credo che nel matrimonio cristiano la prima promessa che ci si fa l’uno con l’altro è aiutarsi ad andare verso Dio; la prima terra di missione è la persona; prima ancora di pensare al compito di missione della famiglia e al compito di testimonianza della famiglia come orientata ad infideles. Quindi, il primo bene che la coppia deve avere a cuore è la fede della persona (la propria e quella dell’altro). Questa mi pare la vera "pedagogia degli adulti" che la Chiesa propone e richiede alla coppia; da questo punto di vista il sacramento del matrimonio è una grande "risorsa" (un dono dello Spirito) che viene messa a servizio della persona, ma che deve anche essere, ed esplicitamente, un contenuto di lavoro, di progetto e delle relazioni tra i coniugi.
«Quindi la prima opera del progetto di coppia è la Chiesa domestica; il contenuto di un progetto di un matrimonio cristiano è in primo luogo la costruzione di un posto che viva di questo valore, come quando ci si trova a tavola e si prega, ponendo così un piccolo segno che tenta di fare memoria che al centro di ogni cosa (il mangiare, e il mangiare insieme) non c’è solo un progetto umano, non c’è solo il problema della comunicazione, non c’è solo il rispetto del maschile e del femminile, non c’è solo essere bravi papà e brave mamme, ma c’è un valore, un Invitato importante, che va riconosciuto e accolto.
«Questo bene poi non deve restare chiuso in casa, ma esce nel mondo, perché è il contenuto della vita. Da questo punto di vista l’atteggiamento familiare aperto o chiuso è evidentemente discriminante; credo che questo sia uno degli agganci decisivi quando si fa un ragionamento con le giovani coppie, sia in senso pastorale, ma anche in termini di progetto "laico", umanamente definito, cioè l’idea che il progetto ve lo dovete costruire voi due, ma non è solo di voi due, è dentro la società, è dentro la comunità.
«Fare famiglia insieme significa inoltre generare un’eccedenza sociale, porsi come risorsa per la comunità, sociale ed ecclesiale (la famiglia come capitale sociale2, la famiglia come Chiesa domestica)».
In un periodo storico in cui si parla di de-istituzionalizzazione del legame tra uomo e donna, quale relazione esiste tra matrimonio e famiglia?
«Il matrimonio è tradizionalmente lo strumento di connessione tra una scelta squisitamente privata, quale è la scelta della persona con cui vivere la vita, e la sfera pubblica, l’assunzione di responsabilità e diritti nel contesto sociale da parte della nuova famiglia; in effetti con il matrimonio si assume un nuovo "stato civile", una condizione che ha a che fare con la cittadinanza (cives-civitas). In altri termini, attraverso il matrimonio la sfera privata del familiare diventa socialmente rilevante, pubblicamente impegnativa. Senza il passaggio del matrimonio, la scelta di "vivere-con" un’altra persona rimane comunque possibile, ma rimane privata/privatizzata; non consente cioè quella contaminazione tra privato e pubblico che è invece essenziale per la qualità della famiglia e della società.
«Le recenti discussioni anche legislative sul riconoscimento giuridico delle coppie di fatto hanno evidenziato invece un movimento culturale che sembra pretendere un "riconoscimento" giuridico (o di alcuni diritti) per forme familiari che rifiutano la giuridificazione (il matrimonio, appunto); ma al di là di analisi tecniche giuridiche (peraltro molto fondate), secondo il diritto del nostro Paese se una unione nasce intenzionalmente "di fatto", libera cioè dai vincoli del diritto, non può poi pretendere di essere assimilata a una unione "di diritto" (nata cioè proprio su un vincolo normato dalla legge), perché ne assumerebbe anche i vincoli e i doveri, oltre che i diritti, diventando così inevitabilmente "di diritto" anch’essa.
«La regolazione del pluralismo familiare va quindi fatta coniugando identità e varietà dell’essere famiglia, in base a due criteri fondamentali:
- a. il primo è il principio della differenziazione delle relazioni sociali: esso implica che si distinguano le forme familiari da quelle non-familiari, e si trovi una opportuna regolazione delle une e delle altre a seconda del loro contenuto e dei loro impegni verso la comunità politica e sociale;
- b. il secondo è il principio di gradazione della tutela delle relazioni sociali in base ai diritti-doveri assunti dai contraenti, nella misura in cui sono positivi per la coesione e la solidarietà sociale.
«Bisogna cioè distinguere fra contratti privati e contratti aventi valore pubblico: si tratta di guardare alla natura delle relazioni familiari e di promuoverle se e nella misura in cui esse si orientano all’assunzione di responsabilità interpersonali e sociali. Non bisogna infatti commettere l’errore "di confondere la distinzione (delle relazioni in gioco, sessuali e generazionali) con la discriminazione (delle persone). Un conto è distinguere, un conto è discriminare. Distinguere è riconoscere una diversità, non significa affatto discriminare. La discriminazione è un’altra cosa, è trattare in modo disuguale gli uguali. Ma i sessi e le generazioni non sono degli uguali. Sono un proprium, una identità segnata da una differenza. Se la differenza viene negata, si causano enormi problemi. Bisogna invece riconoscere che: uguale è la dignità morale e giuridica delle persone, ma non le qualità per cui fanno famiglia"3».
Paola Fosson - Vita Pastorale giugno 2009