Esperienze Formative

Attenzione

JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 65

Venerdì, 04 Settembre 2015 18:23

Anno B: Mc 9,14 – 10, 12

Vota questo articolo
(0 Voti)

"La Messa, occasione di ...

catechesi della Parola"

Anche in quest'ultima volta, che incontriamo in Marco uno spirito impuro,

l'intervento di Gesù è messo ancora in relazione con gli scribi (si veda ad es. 1,21-28): con essi i discepoli, pur con orientamenti e aspettative differenti, condividono la stessa ideo­logia di un Messia trionfatore e violento animato dallo stesso zelo di Elia.

Gesù aveva costituito il gruppo dei discepoli per mandarli a predicare con potere di cacciare i demòni (Mc 3,14; 6,7): è la forza del messaggio quel che libera le persone.

In questo caso i discepoli sono incapaci di scacciare uno spirito muto, muto perché è pure sordo (v.25): spirito così radicato nell'individuo che neanche cerca lo scontro.

Il lamento di Gesù (v. 19) ricorda quello del Libro dei Proverbi (Pr 1,20-32), e investe tutti i presenti, ma si rivolge principalmente ai discepoli già destinatari di un prece­dente rimprovero (Mc 4,40).

Anche qui appare la preghiera in relazione alla cacciata di questo genere di demoni.

Due termini possono aiutare la comprensione del brano: il fuoco e l'acqua, simboli con i quali venivano raffigurati Elia e Mosè. Elia è il profeta che tenta di attuare una purificazione religiosa attraverso la soppressione degli avversari col fuoco (Sir 48,1-3; 1 Re 19,10.14). L'immagine dell'acqua viene dalla tradizione applicata a Mosè perché salvato dalle acque, e per il prodigio del mar Rosso. (Es 2,10 e 14,21).

La guarigione del ragazzo viene posta dopo l'episodio della Trasfigurazione quando era loro apparso Elia con Mosè che conversavano con Gesù.

Nella situazione del ragazzo viene raffigurata la condizione disperata d'Israele, dove la dottrina degli scribi alimentava l'immagine di una liberazione attraverso la violenza come erano state quelle di Elia e Mosè. Nella figura del padre si rappresenta la spe­ranza suscitata nel popolo da Gesù: il padre ha fede in Gesù, e gli chiede aiuto.

Gesù libera completamente e definitivamente ("...non rientrare più") il ragazzo, ma la folla è scettica e lo giudica morto: se nella gente viene meno la speranza di una liberazione attraverso la forza, il popolo crede di non avere più possibilità di vita. Ma al contrario, per Gesù era proprio quella speranza errata che teneva il popolo in una condizione di morte dal quale egli lo toglie e lo riporta in vita.

Gesù annuncia poi un'altra volta la sua morte e resurrezione: i discepoli ancora non comprendono, anzi la reazione è ancora di incomprensione e paura, è difficile capire il progetto di salvezza di Dio che passa attraverso la morte.

Ed in forte contrasto con quanto dice Gesù, i discepoli discutono su chi di essi fosse il più grande: vedono in Gesù un potere, vogliono anch'essi essere potenti.

Gesù allora chiama i "dodici" (richiamo alle dodici tribù, quindi tutto Israele): ma si trovavano già in casa, il chiamarli rappresenta quindi una distanza non tanto fisica, quanto la distanza dall'aderire a lui ed al suo messaggio.

"Se qualcuno vuol essere il primo (e non il più grande, segno di superiorità) sia l'ultimo di tutti ed il servitore di tutti". Non come un servo, costretto, ma per un servizio spontaneo e gratuito, per amore. La superiorità condannata nel vangelo è quella che vuole comandare gli altri, limitarne la libertà, usarli a proprio vantaggio.

E prende un "garzone" (non lo chiama, è già vicino a lui): il termine usato da Marco indica un ragazzo di non più di dodici anni, di quelli che devono solo servire ed obbedire, e che nella società ebraica sono gli individui all'ultimo posto, ma che per Gesù sono i più vicini a lui. Lo pone in mezzo, dove c'è Gesù stesso, lo abbraccia: vicini al signore non sono i grandi ed i potenti, ma i più emarginati. Accogliere uno di questi "piccoli" equivale ad accogliere Gesù, e tramite lui il Padre.

Giovanni poi denuncia a Gesù che uno (dal contesto si vede che è un estraneo, non un giudeo) caccia i demoni: vediamo che nei tre versetti 37-39 compare tre volte "in mio/tuo nome". Ma c'è differenza nel testo originale in greco. Giovanni dice cioè di cacciare i demoni "con" il tuo nome, Gesù dice invece che si cacciano i demoni "per assomiglianza, al posto di": cioè non basta usare il nome o la parola, bisogna asso­migliare a Gesù per poterlo fare, bisogna essere cambiati nell'intimo facendo vivere lo Spirito in sé. Anche chi non fa parte di Israele, dei "dodici", come appare il "piccolo" in questo caso, può agire con lo Spirito di Gesù: "chi non è contro di noi, è con noi", non conta l'appartenenza ufficiale ad un gruppo (vedere Mc 3,35).

Seguono insegnamenti concisi e lapidari: non dobbiamo essere motivo di scandalo, né per noi stessi, né per i "piccoli" visti sopra, termine che indica anche i semplici, quelli con meno istruzione e difese verso l'esterno. Lo scandalo (inciampo) è la causa dell'abbandono di Gesù o è ostacolo per quelli che vorrebbero dargli adesione.

I termini molto forti dei versetti 42-47 indicano la severità di Gesù verso colui che è motivo di scandalo, chi sceglie l'ambizione a scapito del messaggio: meglio che muoia. Non solo, ma Gesù indica la forma più tragica per un ebreo: in fondo al mare, cioè senza sepoltura nella terra promessa, che è la più grande maledizione per un ebreo perché secondo la tradizione non avrebbe potuto risorgere. Oppure muoia gettato nella Geenna, grande immondezzaio appena fuori Gerusalemme, dove i rifiuti bruciavano di continuo: significa la dissoluzione dell'individuo, la sua scomparsa.

L'immagine del verme e del fuoco sono tratte da Isaia 66,24, ed il riferimento al sale richiama una usanza degli ebrei, perché era usato nei contratti e nei patti per dare il valore di durata. L'invito finale è un invito a dare senso alla propria vita (abbiate sale in voi stessi) e a vivere in pace con gli altri.

Gesù si avvia poi verso la Giudea, e trova anche qui chi vuole "tentarlo" (per questo verbo si veda la scheda 12) per poterlo giudicare e condannare: i farisei cercano di fargli scegliere una delle due scuole di pensiero giudaiche sul matrimonio, quella re­strittiva e quella permissiva, cercano di comprometterlo di fronte alla Legge di Mosé.

Gesù prende le distanze dalla legge ebraica: "cosa vi ha ordinato Mosé?" (e non cosa "ci" ha ordinato); l'amore di Dio non si può racchiudere in leggi fisse. E rimanda al progetto originario di Dio creatore del Genesi, che indica nell'unione di uomo e donna la formazione di un nuovo essere, un'alleanza definitiva e fedele come quella di Dio verso il suo popolo. Questo nuovo essere è così forte che supera i preesistenti fattori familiari di sicurezza (suo padre) e di affetto (sua madre).

La legge di Mosé era stata un passaggio, concesso agli ebrei per la durezza del loro cuore, non certo per disegno di Dio.

 

Filippo Giovanelli
Parrocchia di San Giacomo – Sala (Giaveno, TO

 

Clicca qui per andare all'INDICE di questo TEMA: 

"La Messa, occasione di ... catechesi della Parola"

in "Altre esperienze di lettura bibblica"

 

 

 

 

 

 

Letto 4124 volte Ultima modifica il Venerdì, 04 Settembre 2015 19:26

Search