Lo Spirito santo è «sperma di vita» (cf. 1Gv 3,9 e Ireneo di Lione1) che entrando nell'uomo, crescendo e sviluppandosi crea una nuova vita, quella filiale. I padri della chiesa amavano dire che si diventa «figli nel Figlio», ma Ireneo ha audacemente affermato che si diventa il Figlio stesso di Dio. Certamente l'espressione paolina «adozione filiale» e quindi «figli adottivi» (cf. Rm 8,15; 9,4; Gal 4,5; Ef 1,5) risulta inadeguata e sviante. Diventare figli di Dio non è diventarlo attraverso una finzione giuridica, ma significa diventare figli in modo più profondo rispetto alla stessa generazione fisica, quella da carne e sangue. Infatti è evento di creazione: «non puro suono verbale come le adozioni umane, esso non dà solo l'onore del nome ... E' vera nascita, vera comunione con l'Unigenito nella realtà, non solo nominalmente: è comunione di sangue, di corpo, di vita ... e stabilisce un vincolo più stretto e più connaturalmente profondo della filiazione fisica»2.
Questa nascita a figlio di Dio compiutasi grazie allo Spirito santo, instaura un nuovo uomo: non c'è più infatti l'uomo naturale (psychikòs), ma un uomo spirituale (pneumatikòs) che conosce e comprende le cose dello Spirito e ha il pensiero (noûs) di Cristo (cf. 1Cor 2,14-16).
In quest'azione dello Spirito santo andrebbe colta maggiormente la sua qualità femminile-materna perché egli agisce, si comporta come una madre, e non a caso i simboli che lo evocano (la colomba, l'acqua) sono materni, colti nella loro capacità generativa... Generato dal Padre nello Spirito santo, il cristiano è nutrito dal «latte spirituale» (1Pt 2,2) dello Spirito e impara a chiamare Dio con il nome di «Abba, Padre!» (Rm 8,15; Gal 4,6) e a riconoscere Gesù come un fratello. Spirito materno, dunque, che gestisce la conversione (gestazione, gravidanza), partorisce la nuova vita battesimale (nascita), fa crescere in grazia e santità (allattamento) e, come una madre, consola sulle sue ginocchia chi è nel pianto (cf. Is 66,12-133). D'altronde il cristiano riconosce di essere diventato figlio di Dio proprio dalla capacità immessa in lui dallo Spirito santo di chiamare Dio «Abba, Padre» (Gal 4,6), «dal coraggio (parresia) di chiamare Dio "Padre"»4.
Dall'orfanità l'uomo passa alla filialità, e nel cuore del cristiano «si diffonde quel primo e sommo dono che noi chiamiamo grazia e che è come vita nuova..., che si espande nella rete della psicologia umana con impulsi d'azione facile e forte che chiamiamo doni e la riempie di effetti spirituali stupendi che chiamiamo frutti dello Spirito santo»5.
Dio diventa più presente nel cristiano di quanto il cristiano lo sia a se stesso e diventa possibile l'intimità tra Dio e l'uomo6. Così il cristiano diventa dimora di Dio, tempio dello Spirito santo (1Cor 3,16; Rm 8,9 e Gv 14,16-17), e in questo tempio che è il suo corpo il cristiano è abilitato ad essere sacerdote e vittima in una liturgia che è la sua vita stessa: egli infatti, proprio grazie alla potenza dello Spirito santo, offrirà la sua stessa vita come sacrificio vivente gradito a Dio (Rm 12,1).
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