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Giovedì, 13 Dicembre 2007 23:25

Educarsi ed educare alla preghiera

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EDUCARSI ED EDUCARE ALLA PREGHIERA



Educare il corpo e lo spirito, cuore e gesti, per mettere la vita davanti a Dio, che si è fatto vicino.

Il faro centrale illumina l’altare.

Là chiesa è buia e silenziosa. Qualche giovane entra, alla spicciolata, e viene a sedere sulle prime panche. A ciascuno viene consegnato un foglietto che riproduce una pagina di un “aureo” libretto di Romano Guardini, I santi segni.

Tanti anni fa mi aveva impressionato quell’attacco sul segno di croce «Quando fai il segno di croce, fallo bene. Non così affrettato, rattrappito, tale che nessuno capisce cosa debba significare. No, un segno di croce giusto, cioè lento, ampio, dalla fronte al petto, da una spalla all’altra. Senti come esso ti abbraccia tutto?». Ora lo ripropongo al ragazzi, nel silenzio della chiesa. Dobbiamo riprendere i gesti fondamentali, questo linguaggio ormai tanto remoto da risultare sconosciuto. Di settimana in settimana riproporremo l’inginocchiarsi, lo stare in piedi, il battersi il petto, e poi gli spazi e gli oggetti: il portale, i gradini, l’acqua benedetta, il pane e il vino, l’altare, il calice, fino alle campane. Un foglio con una breve lettura, una riflessione essenziale; in chiusura, la preghiera dell’Angelus. Il tutto compreso in un quarto d’ora, una volta la settimana per i giovani e forse non solo per loro.

È necessario riprendere l’educazione alla preghiera, l’educazione del corpo e dello spirito, dei cuore e dei gesti, per mettere la vita davanti a Dio, per raccogliere tutta la nostra povertà umana — la povertà umana, di noi tutti — e condurla ad attendere insieme. Ci scoraggiamo o ci arrabbiamo a scoprirci carichi di bisogni, di problemi insoluti, di dolore, di ignoranza: tutto questo, preso sul serio, esige qualcosa di “altro”, di “oltre”. Per questo la preghiera diventa l’atto più semplice e più sentito da tutti, l’atto fondamentale dell’umana consapevolezza. La domanda fatta insieme nasce dalla scoperta che l’impotenza a essere felici costituisce ciò che abbiamo di più in comune con gli altri. La gente che ai funerali o ai matrimoni sta seduta alla consacrazione, quelli che rimangono muti in atteggiamento sussiegoso e impettito, quelli che non sanno dove guardare e che cosa dire, sono il segno della distanza dal mistero.

I bambini che arrivano al catechismo e muovono i primi passi (di corsa!) nella grande navata della chiesa, ci guardano stupiti mentre facciamo il segno della croce e la genuflessione, mentre ci segniamo la fronte, la bocca e il petto al vangelo, mentre stendiamo le mani per la comunione. Ci guardano e tentano di ripetere, goffamente. Intanto imparano i gesti che ci identificano, che ci fanno popolo..…. La ritualità cristiana è piena di contenuto. Per questo è importante educare il popolo di Dio alla preghiera e a riscoprire il silenzio. Il ritardo alla messa festiva non e soltanto tutto quello che di male si può dire, come mancanza di educazione, come mancanza di rispetto per i presenti e quant’altro. Il ritardo voluto ripetuto è rubare all’anima una parte necessaria, togliere al tempio il portale d’ingresso, lasciando entrare il vento e le intemperie. Ci si trova nel mezzo del dramma senza conoscere i personaggi, senza cogliere il tema dell’avvenimento è rimanendone sempre un poco estranei, fino alla fine dei tempi.

C’è invece chi entra in chiesa molto in anticipo sull’orario della celebrazione. Cerca uno spazio di silenzio personale, lontano dalle cose. Non è solo un’esigenza fisica, per introdursi a una desiderata pace del cuore, ma è la ricerca di un luogo interiore nel quale l’anima possa discendere nel profondo e non volare sul pelo dell’acqua, disperdendosi. E’ un affacciarsi desideroso alle soglie del mistero. Venire o non venire a messa non mette semplicemente in gioco la partecipazione a un atto liturgico, autentico o formale; non è solo un bel gesto di devozione perché abbiamo bisogno di Dio: Andare a messa o non andarci implica molte premesse e trascina tante conseguenze. Chi partecipa alla messa festiva, riconosce di non essere solo e di non farsi da solo, di non camminare da solo nella vita, di non poter gestire da solo la sua religiosità, e di non essere padrone della fede. Riconosce che il mistero di Dio non si può raggiungere attraverso la natura creata: la natura ci consegna un Dio anonimo e sfumato, un Dio profondo come il cielo e inscrutabile come un abisso, senza svelarci il cuore del Padre, il volto del Figlio, l’anima dello Spirito Santo.

Chi va a messa, di fatto riconosce che Dio gli è venuto incontro attraverso un volto umano; si chiama Gesù di Nazaret: lo stesso Gesù che ora si rende presente con la sua vita umana e divina nell’azione sacramentale della Chiesa. Non camminiamo più come a tentoni, costretti a immaginare chi è Dio. É semplice mettersi ad ascoltare il Signore che parla ancora dalla riva del lago, sedere a mensa con lui in compagnia degli altri discepoli, gli amici, i piccoli, i grandi, i vicini, i lontani, gli occasionali, i peccatori: tutti noi, senza paura di farci vicini a lui che si avvicina a noi. Ci vuole tanta superbia e tanta solitudine — o tanta disperazione —. per obiettare a questa strada di Dio fino a noi; oppure tanta estraneità come chi non abbia mai sentito raccontare la storia di Dio che si fa uomo.

di Angelo Busetto

Vita Pastorale /Aprile 2007

 

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Letto 6395 volte Ultima modifica il Venerdì, 03 Dicembre 2010 10:21

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