Ecumene

Sabato, 13 Novembre 2004 20:19

I cento anni della Sinagoga di Roma

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Solenne celebrazione, domenica 23 maggio 2004, del centenario del Tempio maggiore (la grande sinagoga) di Roma: un momento che, nei discorsi delle autorità intervenute, di parte ebraica e di parte cattolica, ha offerto riflessioni significative, per i problemi affrontati e per quelli lasciati in sottofondo (il rapporto ebrei della diaspora e Stato d'Israele; l’antisemitismo e l'antigiudaismo cristiano, la svolta del Concilio Vaticano II...).

Il Tempio maggiore, inaugurato il 28 luglio 1904, sorge in quella zona di Roma, al di qua dell'isola Tiberina, ove dal 1555 sorgeva il ghetto, voluto dai papi per controllare gli ebrei che, obbligatoriamente, là dovevano risiedere. Era un piccolo territorio, superaffollato, e anche malsano per la vicinanza al Tevere. Dopo che - 20 settembre 1870 - le truppe piemontesi presero Roma e posero fine al potere temporale dei papi, le mura del ghetto furono abbattute, e per gli ebrei iniziò finalmente l'ora della libertà. In un ampio spiazzo dell'ex ghetto, demolite le sue casupole, fu appunto eretto il Tempio maggiore.

Molti attendevano che, per ricordare i cent'anni da quell'evento, nel Tempio fosse presente anche Giovanni Paolo II, il primo papa che (13 aprile 1986) visitò, a Roma, una sinagoga. Ma il pontefice non ci è andato, e nessuna spiegazione convincente è stata data per la sua assenza: tensioni tra il Vaticano e la comunità ebraica a causa de La Passione (alti esponenti della Comunità ebraica romana hanno lamentato che il Vaticano non abbia criticato il film di Mel Gibson che essi considerano antisemita)? Contrasti tra la Santa Sede e la Comunità ebraica romana sul giudizio da dare per le responsabilità dell'aggravarsi del conflitto israelo-palestinese? Come che sia, il papa non c'era; come suo rappresentante ha inviato il card. Camillo Ruini, vicario di Roma e presidente della Conferenza episcopale italiana, il quale era accompagnato dal card. Walter Kasper, presidente della Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l'ebraismo.

Oltre ai massimi esponenti dell'ebraismo italiano (tra essi, l’ex rabbino capo di Roma, Elio Toaff, applauditissimo; il presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane, Amos Luzzato; tutti i rabbini di Roma; il presidente della Comunità ebraica romana, Leone Paserman) e a numerose autorità dello Stato, del Parlamento, del Comune di Roma (era presente il sindaco Walter Veltroni, sono intervenuti alla cerimonia gli ambasciatori d'Israele presso il Quirinale e presso la Santa Sede (Ehud Gol e Oden Ben H'ur), e i due rabbini capo d'Israele, l’ashkenazita Yona Metzger e il sefardita Shlomo Moshè Amar. Presenti ancora rappresentanti delle Comunità islamiche in Italia.

Degli interventi pronunciati durante la celebrazione del 23 maggio riportiamo qui quelli del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e del rabbino Yona Metzger; e il testo del messaggio inviato dal papa e letto nell'assemblea dal card. Ruini.

(Da Adista)

 

di Riccaro Di Segni

La Sinagoga,
simbolo e luogo di incontro

Quando circa tre millenni fa il re Salomone costruì il Tempio di Gerusalemme, lo inaugurò con una lunga preghiera. È un testo che ancora oggi fa impressione per la sua forza spirituale e per la chiarezza con cm pone una domanda fondamentale. Rivolgendosi a D., il re si chiese: "il cielo e i cieli dei cieli non Ti possono contenere, e come mai potrebbe farlo questo luogo che ho costruito?" (1Re 8:27). E la stessa domanda di ogni fedele monoteista davanti a qualsiasi tempio che vorrebbe avere la pretesa di limitare o concentrare m un unico luogo Colui che invece è il luogo del mondo. La risposta di Salomone fu che il suo Tempio era o un riferimento, un simbolo, un luogo di attenzione speciale, di incontro e di comunicazione tra uomo e cielo, tra trascendente e immanente.

Se la domanda se la poneva Salomone per il suo Tempio, unico e sacro, tanto più la domanda è lecita dopo la distruzione di quel Tempio e del successivo che lo sostituì. Il Talmud (Meghillà 29a) chiamava le Sinagoga della diaspora babilonese con il nome di miqdash meàt, Santuario in miniatura (l’espressione è in Ez. 11:16); e se questo nome da una parte conferisce sacralità al luogo, dall'altro ne sottolinea la limitatezza in rapporto a quell'edificio originario di cui piangiamo la distruzione e per la cui costruzione ancora preghiamo.

Ogni Sinagoga propone quindi interrogativi e richieste. Richieste all’uomo perché impari a riconoscere nelle dimensioni dove vive, nel tempo e nello spazio, la presenza del sacro; che si imponga il dovere di trasformare e rendere speciale una parte dello spazio che lo circonda, che non può essere tutto uguale; e perché si renda anche conto che il sacro cui fa riferimento è ben oltre la sua capacità di limitazione e definizione.

Con timore e amore celebriamo oggi il centenario della costruzione di questa Sinagoga, Santuario monumentale ma al tempo stesso in miniatura, che per la sua collocazione e la sua storia aggiunge interrogativi agli interrogativi e richieste alle richieste. Sono gli interrogativi che continua a porsi una comunità profondamente radicata nella città dove vive senza interruzioni da 21 secoli, da quando l'antico Tempio era stato appena restaurato dai Maccabei, e che poi assistette sgomenta all'arrivo dei prigionieri e degli oggetti sacri portati in trionfo dal Romani che avevano distrutto quel Tempio. Una comunità che è stata accolta e che poi ha accolto, assorbendo e integrando per secoli diverse ondate di esuli, l'ultima dalla Libia, 37 anni fa; che è riuscita a sopravvivere dignitosamente a ogni tipo di cessazione e umiliazione. Questo edificio nasce da una fede indomita che, nel momento in cui venivano a cadere restrizioni secolari, volle esprimersi con una costruzione simbolica che fosse a tutti evidente nel panorama della città. Ma c'era anche l’espressione della fiducia nella possibilità di una convivenza pacifica di diversi con pari dignità in una nuova società. Eppure proprio nel secolo di esistenza di questa Sinagoga la storia si è particolarmente accanita contro questa comunità e questo luogo, dal fascismo al nazismo al terrorismo palestinese, ogni volta mettendo in discussione le speranze su cui si basava l’investimento pacifico dei costruttori.

Ma la comunità non solo non si è fermata e arresa, ma ha saputo trovare nuove energie; ha partecipato con tutte le sue risorse sociali e culturali al progresso dell'Italia repubblicana; ha stretto forti legami di fratellanza con lo Stato d'Israele; ha avuto negli ultimi anni un'incredibile rinascita culturale e religiosa; ha visto in questo luogo il centro vitale dove esprimere una voce unitaria nei momenti drammatici e in quelli di gioia; e questo luogo è diventato anche il riferimento simbolico per l'incontro e il dialogo con altre fedi, iniziando da quella cattolica, e speriamo presto con quella islamica. Come un secolo fa, è la speranza che guida le iniziative di questa comunità e di questo luogo che la rappresenta. Malgrado ciò che è successo alla sua ombra, questo luogo è sempre più un riferimento di richiesta vera di pace, la pace interna che invochiamo, come comanda la tradizione, per questo Stato, la pace per questa comunità, e la pace per tutti. Come chiedeva Salomone: "ogni preghiera e ogni supplica di ogni uomo... stenderà le braccia verso questa casa... e Tu dal cielo ascolterai" (1Re 8:38).

Il Midrash (Jalqut Melakim 1:6) racconta che le finestre del luogo più sacro del Santuario di Gerusalemme erano costruite in un modo strano. Di solito le finestre si fanno perché la luce entri dentro la casa. Nel Santuario le finestre erano fatte al contrario, larghe fuori e strette dentro, in modo che la luce uscisse dall'interno verso l'esterno. Il mondo ha bisogno di quella luce. Una luce che ancora brilla nei tanti Santuari in miniatura, e che emana anche da questo luogo. Segno di fede in D. e di fiducia nell'uomo, di resistenza, ma anche di apertura al mondo. Un piccolo grande contributo che la parte del popolo d'Israele che vive a Roma offre a questa città, all'Italia e al mondo.

 

di Yona Metzger

Il Tempio Maggiore,
la continuità del nostro futuro

Onorevole Presidente, Onorevoli Rabbini, Onorevoli Capi della Comunità e rappresentanti del Vaticano, a pochi giorni dalla festa di ShavouT, nella quale fu data la Torà ad Israele, ricordiamo che la sera del Seder quando abbiamo cantato "Dayenu" (ci sarebbe bastato) abbiamo detto: "se ci avesse avvicinato al Monte Sinai ma non avesse dato la Torà, ci sarebbe bastato".

Ci si pone allora la domanda: che valore avrebbe avuto lo stare ai piedi del Monte Sinai senza meritare di ricevere la Torà; cioè, come possiamo dire questo: "Dayenu" ci sarebbe bastato?

Il fatto è che lo stare ai piedi del Monte Sinai fu un momento di unità raro e speciale. Eravamo uniti, "Israele si accampò", - al singolare - come un sol uomo con un solo cuore. Questa unità valeva perfino di più del dono della Torà. Se il Signore ci avesse fatto avvicinare al Monte Sinai con una tale unione ci sarebbe bastato, anche se non ci avesse dato la Torà.

Per mostrare questa unione, malgrado gli impegni come Rabbini Capo a pochi giorni dal dono della Torà, siamo venuti per solidarizzare con l'antica ed importante Comunità di Roma. Siamo venuti per gioire con voi per il centenario della Sinagoga che è tra le più belle del mondo.

Questa Sinagoga ha una lunga storia che l'ha trasformata in un simbolo speciale. Roma, che è stata nella storia tanto nemica di Gerusalemme, ha costruito una così magnifica Sinagoga, le cui mura hanno conosciuto tanti Salmi e preghiere, tante lacrime sparse nei momenti difficili per il nostro popolo.

Imperatore Tito! Tu hai distrutto l'edificio del nostro Santuario ed ecco, nella tua città, si innalza da cento anni il piccolo santuario! La continuità del nostro futuro.

Ho la certezza che le anime sante che non sono più con noi ed in particolare quelle di coloro che hanno fondato questo Tempio, sono fiere della loro opera e godono di grande appagamento nel vedere la forza della sua spiritualità e dei suoi valori. Esse ci dicono: siamo fieri di voi!

Il Bet ha Keneset (la Sinagoga) è la fucina e la fortezza dell'animo dell'ebreo. È il luogo del risveglio spirituale, è il luogo che influisce sui nostri valori educativi e spirituali. Non a caso coloro che odiano Israele si sono accaniti proprio contro le Sinagoghe nel mondo. Nella Torà, il profeta dei gentili, Bilam, indicando le Sinagoghe, ha detto: "quanto sono belle le tue tende Giacobbe!". Commenta il Talmud (Senedrin 105B): "dalla benedizione dì un tale uomo cattivo puoi capire cosa aveva nel cuore: desiderava in realtà che non avessero Sinagoghe!".

La Shoà è iniziata la notte in cui centinaia di Sinagoghe sono state date alle fiamme. Stalin distrusse e spianò innanzitutto le Sinagoghe. il Talmud (Berachot 8) dice: "Il Bet ha Kenset allunga la vita dell'uomo!". Per questo non è opportuno entrarvi armati, le armi sono il simbolo dell'accorciamento della vita.

Il Bet ha Keneset educa al rapporto positivo del popolo ebraico con ogni uomo creato ad immagine del Signore; e non accada, come abbiamo visto in Turchia, che i nostri nemici considerino la Sinagoga un luogo in cui è permesso uccidere, un obiettivo per il terrore perfino nel momento della preghiera o della gioia per una maggiorità religiosa.

Noi siamo un popolo che anela alla pace! E questa è l'occasione per ringraziare il presidente della Repubblica per il suo rapporto di calorosa amicizia con lo Stato di Israele che combatte con coraggio, giorno dopo giorno, il terrorismo che dilaga nel mondo.

Questo Bet Ha Keneset ha un merito del tutto particolare: in esso ha esercitato il suo magistero Rav Toaff, uomo di elevatissima statura, che lo ha reso un luogo di riavvicinamento dei cuori, non solo tra di noi, bensì anche tra religioni diverse.

Quando abbiamo reso visita al Papa egli ricordò che nella sua storica visita fu il primo ad attraversare il confine vaticano per entrare in una Sinagoga. Questo attraversamento ha richiesto secoli ma è divenuto un simbolo della condanna dell'antisemitismo ed ha posto l'accento sul principio che "ogni uomo viva la propria fede", che si debba rispettare ogni uomo per l’immagine divina che porta tra di noi.

Benedico la Comunità per il traguardo storico di 100 anni di vita di questa Sinagoga; ed auguro a tutti noi di avere il merito di rincontrarci in Erez Israel, se lo vorrà il Signore, nella ricostruzione del nostro Santuario presto ai nostri giorni. Amen!

di Giovanni Paolo II

"Fratelli prediletti",
 Cittadini di Roma prima di noi...

All'Illustrissimo Dr. Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma, Shalom!

"Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme

Hinneh ma tov u-ma na'im, shevet akhim gam jakhad!" (Sal 133 [132], 1).

  1. Con intima gioia mi unisco alla Comunità ebraica di Roma in festa per celebrare i cento anni del Tempio Maggiore, simbolo e ricordo della millenaria presenza in questa città del popolo dell'Alleanza del Sinai. Da oltre duemila anni la vostra comunità è parte integrante della vita dell'urbe; essa può vantarsi di essere la Comunità ebraica più antica dell'Europa occidentale e di aver avuto una funzione rilevante per la diffusione dell'ebraismo in questo Continente. Pertanto, l'odierna commemorazione assume un particolare significato per la vita religiosa, culturale e sociale della Capitale e non può non avere una risonanza del tutto speciale anche nel cuore del Vescovo di Roma Non potendo partecipare di persona, ho chiesto di rappresentarmi in questa celebrazione al mio Vicario Generale per la diocesi di Roma, il Cardinale Camillo Ruini, che è accompagnato dal Presidente della Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo, il Cardinale Walter Kasper. Sono essi ad esprimere concretamente il mio desiderio di essere con voi in questo giorno. Nel rivolgerLe il mio deferente saluto, illustre Dr. Riccardo Di Segni, estendo il mio cordiale pensiero a tutti i Membri della Comunità, al suo Presidente, Ing. Leone Elio Paserman, e a quanti sono costì convenuti per testimoniare ancora una volta l'importanza e il vigore dell'eredità religiosa che si celebra ogni sabato nel Tempio Maggiore. Voglio riservare un saluto particolare al Gran Rabbino emerito, Prof Elio Toaff, che con spirito aperto e generoso mi ricevette nella Sinagoga in occasione della mia visita del 13 aprile 1986. Tale evento rimane scolpito nella mia memoria e nel mio cuore come simbolo della novità che ha caratterizzato, negli ultimi decenni, le relazioni tra il popolo ebraico e la Chiesa Cattolica, dopo periodi a volte difficili e travagliati.
  2. La festa odierna, alla cui letizia tutti ci uniamo di cuore, ricorda il primo secolo di questo maestoso Tempio Maggiore, che, nell'armonia delle sue linee architettoniche, s'innalza sulle rive del Tevere a testimonianza di fede e di lode all'Onnipotente. La Comunità cristiana di Roma, per il tramite del Successore di Pietro, partecipa con voi al ringraziamento al Signore per questa fausta ricorrenza. Come ebbi a dire nella menzionata visita, noi vi salutiamo quali nostri "fratelli prediletti" nella fede di Abramo, nostro patriarca, di Isacco e di Giacobbe, di Sara e Rebecca, di Rachele e Lia. Già san Paolo, scrivendo ai Romani (cfr Rm 11,16-18), parlava della radice santa di Israele, sulla quale i pagani sono innestati in Cristo; "perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili" (Rm 11,29) e voi continuate a essere il popolo primogenito dell'Alleanza (Liturgia del Venerdì Santo, Preghiera Universale, Per gli Ebrei).Voi siete cittadini di questa Città di Roma da oltre duemila anni, prima ancora che Pietro il pescatore e Paolo in catene vi giungessero, interiormente sostenuti dal soffio dello Spirito. Non solo le Scritture sacre, che in larga parte condividiamo, non solo la liturgia, ma anche antichissime espressioni artistiche testimoniano il profondo legame della Chiesa con la Sinagoga, per quell'eredità spirituale che, senza essere divisa, né ripudiata, è stata partecipata ai credenti in Cristo, e costituisce un vincolo inscindibile tra noi e voi, popolo della Torà di Mosé, buon olivo sul quale è stato innestato un nuovo ramo (cfr Rm 11,17). Durante il Medio Evo, anche alcuni dei vostri grandi pensatori, come Yehudà ha-levi e Mosé Maimonide, hanno cercato di scrutare in qual modo fosse possibile adorare insieme il Signore e servire l'umanità sofferente, preparando così le vie della pace. Il grande filosofo e teologo, ben noto a S. Tommaso d'Aquino, Maimonide di Cordoba (1138-1204), del quale ricordiamo quest’anno l'ottavo centenario della scomparsa, espresse l’auspicio che un miglior rapporto tra ebrei e cristiani possa condurre "il mondo intero all'adorazione unanime di Dio, come è detto: "Allora darà ai popoli un labbro puro, così che servano il Signore spalla a spalla" (Sofonia 3, 9)" (Mishneb Torà, Hikhòt Melakhim XI, 4, ed. Gerusalemme, Mossad Harav Kook).
  3. Molta strada abbiamo percorso insieme da quel 13 aprile 1986, quando, per la prima volta - dopo l'Apostolo Pietro - il Vescovo di Roma vi rese visita: fu l’abbraccio dei fratelli che si erano ritrovati dopo un lungo periodo in cui non sono mancate incomprensioni, rifiuto e sofferenze. La Chiesa cattolica, con il Concilio Ecumenico Vaticano II, aperto dal beato papa Giovanni XXIII, in particolare dopo la Dichiarazione Nostra aetate (28 ottobre 1965), ha allargato le sue braccia verso di voi, memore che "Gesù è ebreo, e lo è per sempre" (Commissione per i Rapporti Religiosi con l'Ebraismo, Note e suggerimenti [1985]: III, § 12). Nel Concilio Ecumenico Vaticano II, la Chiesa ha ribadito in modo chiaro e definitivo il rifiuto dell'antisemitismo in tutte le sue espressioni. Tuttavia, non basta la pur doverosa deplorazione e condanna delle ostilità contro il popolo ebraico che spesso hanno caratterizzato la storia; occorre sviluppare anche l’amicizia, la stima e i rapporti fraterni con esso. Queste relazioni amichevoli, rafforzate e cresciute dopo l’assise conciliare del secolo scorso, ci vedono uniti nel ricordo di tutte le vittime della Shoà, specialmente di quanti, nell’ottobre del 1943, furono qui strappati alle loro famiglie e alla vostra cara Comunità ebraica romana per essere internati ad Auschwitz. Il loro ricordo sia in benedizione e ci spinga ad operare da fratelli. È doveroso, peraltro, ricordare tutti quei cristiani che, sotto l'impulso di una naturale bontà e rettitudine di coscienza, sostenuti dalla fede e dall'insegnamento evangelico, hanno reagito con coraggio, anche in questa città di Roma, per dare concreto soccorso agli Ebrei perseguitati, offrendo solidarietà e aiuto, a volte anche a rischio della loro stessa vita. La loro memoria benedetta resta viva, insieme alla certezza che per essi, come per tutti "i giusti delle nazioni", gli tzaddim, è preparato un posto nel mondo futuro, alla risurrezione dei morti. Né si può dimenticare, accanto ai pronunciamenti ufficiali, l'azione, spesso nascosta, della Sede Apostolica, che in molti modi è venuta in aiuto di Ebrei in pericolo, come è stato riconosciuto anche da loro autorevoli rappresentanti (cfr "Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoà", 16 marzo 1998).
  4. Nel percorrere, con l'aiuto del Cielo, questa strada di fraternità, la Chiesa non ha esitato a "deplorare le mancanze dei suoi figli e delle sue figlie in ogni epoca", ed in un atto di pentimento (teshuvà), essa ha chiesto perdono per le loro responsabilità in qualsiasi modo collegate con le piaghe dell'antigiudaismo e dell'antisemitismo (ibidem). Durante il Grande Giubileo, abbiamo invocato la misericordia di Dio, nella Basilica sacra alla memoria di Pietro in Roma, e a Gerusalemme, la città amata da tutti gli Ebrei, cuore di quella Terra che è santa per tutti noi. Il Successore di Pietro è salito pellegrino sui monti della Giudea, ha reso omaggio alle vittime della Shoà a Yad Vashem, ha pregato accanto a voi al monte Sion, ai piedi di quel Luogo santo.Purtroppo, il pensiero rivolto alla Terra Santa suscita nei nostri cuori preoccupazione e dolore per la violenza che continua a segnare quell'area, per il troppo sangue innocente versato da israeliani e palestinesi, che oscura il sorgere di un aurora di pace nella giustizia. Per questo vogliamo oggi rivolgere una fervida preghiera all'Eterno, nella fede e nella speranza, al Dio di Shalom, affinché l'amicizia non travolga più nell'odio coloro che si richiamano al padre Abramo - ebrei, cristiani e musulmani - e ceda il posto alla chiara consapevolezza dei vincoli che li legano e della responsabilità che grava sulle spalle degli uni e degli altri. Molta strada dobbiamo ancora percorrere: il Dio della giustizia e della pace, della misericordia e della riconciliazione, ci chiama a collaborare senza esitazioni nel nostro mondo contemporaneo, lacerato da scontri e inimicizie. Se sapremo unire i nostri cuori e le nostre mani per rispondere alla divina chiamata, la luce dell'Eterno si avvicinerà per illuminare tutti i popoli mostrandoci le vie della pace, dello Shalom. Vorremmo percorrerle con un solo cuore.
  5. Non solo a Gerusalemme e nella Terra d'Israele, ma anche qui, a Roma, possiamo fare molto insieme: per coloro che soffrono vicino a noi a motivo dell'emarginazione, per gli immigrati e per gli stranieri, per i deboli e per gli indigenti. Condividendo i valori per la difesa della vita e della dignità di ogni persona umana, potremo accrescere la nostra fraterna cooperazione in modi concreti.

L'incontro di oggi è quasi una preparazione alla vostra imminente solennità di Shavu'òt e alla nostra di Pentecoste, che celebrano la pienezza delle rispettive feste di Pasqua. Che tali feste possano vederci uniti nella preghiera dell'Hallel pasquale di Davide:

"Hallelu et Adonay kol goim
 shabbehuHu kol ha-ummim
 ki gavar 'alenu khasdo
 we-emet Adonay le- ‘olam"

"Laudate Dominum, omnes gentes,
collaudate Eum, omnes populi.
Quoniam confirmata est super nos misericordia eius,
et veritas Domini manet in aeternum"
Hallelu-Yah (Sal 117 [116])

Dal Vaticano, 22 maggio 2004

 

Letto 2149 volte Ultima modifica il Sabato, 11 Febbraio 2012 16:58
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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