Quando un Concilio Panortodosso, non più convocato per oltre dodici secoli, si riunisce di nuovo, tutti i contemporanei, gli ortodossi in primo luogo, diventano testimoni di un avvenimento storico. “Oggi si è levato un giorno gioioso, durante il quale celebriamo la storica manifestazione dell’istituzione della Chiesa, che è stata costituita dallo Spirito Santo…” – proclama a Creta il Patriarca Bartolomeo il 19 giugno, durante l’omelia, nel giorno di Pentecoste (secondo il calendario ortodosso) e giorno di apertura del Concilio.
Per essere precisi, prima dobbiamo chiarirci sulla terminologia. In italiano, come anche nelle altre lingue europee il termine Concilio (dal greco Σύνοδος) si traduce spesso come Sinodo, mentre in russo la parola Sinodo ha un significato molto più modesto. Chiamiamo Sinodo un raduno di vescovi, permanente o temporaneo, della Chiesa locale. Concilio è un’assemblea che rappresenta la pienezza della Chiesa locale, radunata per eventi epocali: l’elezione del Patriarca, qualche cambiamento o correzione alla vita della Chiesa... Ma sempre all’interno dei confini della Chiesa autocefala, indipendente dagli altri. Così il Concilio di Mosca del 1917-1918 ha introdotto alcune importantissime riforme (per es. il vescovo eletto direttamente dal clero e dal popolo, l’ampliamento del ruolo dei consigli parrocchiali e dei laici, ecc.), nella prospettiva di sostituire il modello rigidamente verticale del potere ecclesiastico con un modello più “democratico” (nel linguaggio ecclesiale: con ampliamento dei diritti del Popolo di Dio). Questo Concilio sarebbe potuto diventare un momento di svolta nella storia della Chiesa Russa se non fosse stato poi soffocato dalla persecuzione che la devastò nei decenni successivi. Ma quando poi, negli anni ‘90 del secolo scorso, la libertà è finalmente arrivata, la Chiesa è tornata al suo vecchio modello preconciliare.
Si può dimenticare un concilio locale perché le sue decisioni riguardano la vita interna di una sola Chiesa, mentre un Concilio di tutte Chiese ortodosse non può essere né dimenticato né emarginato. Il Concilio è come l’icona, circondata dalla venerazione; esso riceve la grazia di esprimere il mistero di Cristo in formule razionali, rivela la fede retta, vera e giusta, e come esso entri nel “Santo dei Santi” della Rivelazione. Di più: le decisioni del Concilio panortodosso per principio sono vincolanti per tutte le Chiese, anche per quelle che non hanno partecipato – non c’è stato alcun Concilio in cui si sia verificata la partecipazione di tutte le Chiese esistenti. Ciò che il Concilio Ecumenico ha deciso rimane per sempre nel deposito della fede, se in seguito le sue decisioni vengono percepite e approvate da tutto il popolo. I sette Concili Ecumenici (di cui l’ultimo fu convocato nel 787 per proclamare la venerazione delle sacre immagini) fanno parte inalienabile di questo deposito. Con il passare del tempo la stessa cifra sette si è sacralizzata; per questa ragione, dal punto di vista di tanti fondamentalisti, ogni nuovo Concilio Panortodosso che diventi l’Ottavo è già condannato, come violazione del santuario in cui è custodito il tesoro immutabile dell’unica fede infallibile.
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Cosa vuol dire fondamentalismo? La parola stessa ha una risonanza chiaramente negativa, che evoca la nera figura del terrorista musulmano. Il fondamentalismo, però, è proprio a tutte le religioni ed il suo tratto comune è il separare la propria fede e comunità dagli altri, dagli infedeli. Si può recidere in diverse modalità: con la condanna, con il disprezzo, con l’odio, con l’anatema, con il rogo, con la spada o con la guerra. Ma nel mondo contemporaneo il modo più diffuso del recidere è semplicemente quello di non conoscere, non voler sapere del mondo diverso ch’è attorno a noi. Non vedere il proprio vicino, anche provvisorio, è la forma più pacifica e più diffusa del fondamentalismo; gli altri tipi, di solito, sono più imponenti ed aggressivi. Il principio del fondamentalismo: tu devi essere come noi o non esisti più. Moralmente e fisicamente. Sulla mappa politica tutti i totalitarismi sono fondamentalisti; quando essi diventano più aperti, allora si sfasciano.
Nel cristianesimo il fondamentalismo è presente in tutte le confessioni; nel protestantesimo il fondamentalismo significa la credenza assoluta nella lettera della Scrittura (Adamo ed Eva come genitori biologici della famiglia umana, il mondo creato in sei giorni di ventiquattro ore ciascuno, ecc.). Nel cattolicesimo il fondamentalismo non riconosce nessuna evoluzione della dottrina e della pratica ecclesiale, rifiuta il Vaticano II e trova il suo riparo nel movimento lefebvriano, ma non solo. Anche oggi vediamo una assai aspra polemica al vertice della Chiesa cattolica, provocata dell’enciclica Amoris Laetitia; il tentativo, molto cauto, di Papa Francesco di separare l’amore umano e le norme giuridiche che puniscono tutte le cosiddette “irregolarità”, non è stato accolto anche da alcuni fedelissimi dello stesso Papa. Il fondamentalismo cattolico, a mio avviso, proviene oggi dal vecchio giuridismo del campo morale.
Il fondamentalismo ortodosso è diverso; prima di tutto non si tratta di un fenomeno marginale, anzi. Direi che sia piuttosto dominante. Se la medesima tendenza nel cattolicesimo romano non possiede una solida terra sotto i piedi poiché l’ubbidienza filiale al papa e al Vaticano II, per la fede cattolica, rimane comunque vincolante, il fondamentalismo ortodosso è molto più sicuro di sé, ben “equipaggiato” e teologicamente armato. Di più: esso non è così legato all’autorità concreta, appoggiandosi su di un’autorità più alta di qualsiasi gerarchia ecclesiale: la Tradizione (con T maiuscola, ma anche minuscola – poiché le due sono sempre mescolate) che ha plasmato la Chiesa Ortodossa e continua a vivere in essa. La Tradizione porta una ricchezza (spirituale, dogmatica, rituale) davvero enorme, ma manifesta anche una certa durezza. Non si piega davanti al secolo, non s’uniforma al mondo presente (Rm 12, 2). Quando un cattolico innamorato della ricchezza orientale, di questa “Ex Oriente lux”, comincia a cercare la piena unità con l’Ortodossia, nella quale lui non vede nessun ostacolo, di solito non si ricorda mai che questa profondità della devozione, l’abbondanza dei riti solenni, la bellezza dell’iconografia, ecc. furono create secoli fa da Padri della Chiesa che furono durissimi con gli eretici. Anche se la differenza nelle formule dogmatiche tra l’Oriente e l’Occidente possono essere percepite solo dai dottori della teologia. “Malevolo”, “disgraziato”, “maledetto” sono gli epiteti normali usati nelle discussioni con coloro che hanno sbagliato sul piano dottrinale. È normale tagliare un membro maligno dalla Chiesa per salvaguardare il corpo sano. La logica del recidere fa parte inalienabile della Tradizione, come anche le riflessioni più penetranti sulla preghiera o sulla Santissima Trinità stessa. Recidere non solo gli eretici, ma anche quelli che tentano il dialogo con essi.
Il fondamentalismo ortodosso non è provocato soltanto dalla cattiva volontà umana, dal fanatismo o dalla xenofobia (tutti questi sentimenti sono presenti in qualsiasi fondamentalismo); il vero problema è il ripensamento della Tradizione e della sua separazione dalle tradizioni che possono cambiare nel corso della storia. Il corso della storia è assente dalla mentalità teologica ortodossa. Si è fedeli non soltanto all’eredità dei Padri, ma anche ai costumi locali, considerati come perenni, come dei vasi di marmo dello Spirito Santo, da non toccare mai. Di più: nella memoria della Chiesa Russa non si è ancora guariti dal trauma dello scisma del XVII secolo, avvenuto a causa della riforma di alcuni riti, imposta сon violenza. Non si può superare il fondamentalismo senza una profonda riflessione teologica sul senso ed il ruolo della Tradizione (anche con “t” minuscola) nella vita della Chiesa. Senza questo ripensamento, che solo un prossimo Concilio Panortodosso potrebbe fare, il progetto dell’ecumenismo ortodosso rimarrà sempre l’avventura di qualche anima entusiasta, ma non della Chiesa nel suo insieme.
La differenza del fondamentalismo cattolico da quel ortodosso consiste nel fatto che il primo, dopo il decreto “Sull’ecumenismo” del Vaticano II, ha perso il suo fondamento ecclesiale, mentre l’ortodosso ha una ferma base antiecumenica nella Tradizione stessa. La ricerca sincera dell’unità è un’iniziativa di pochi che ogni volta devono difendersi o giustificarsi. Perché la risposta è semplice: il problema dell’unita non dovrebbe esistere affatto, poiché la Chiesa esiste già: è quella che Cristo stesso ha fondato. Dunque, non esistono altre chiese, ma solo le diverse comunità che si sono separate da essa e che devono tornare nella Chiesa, una santa, cattolica e apostolica. Cioè, la nostra. Tutti sono chiamati a tornare all’unica eredità del primo millennio ed ogni ecumenismo sotto tale o talaltro nome è soltanto un miscuglio della verità con le menzogne che provengono dall’Anticristo. Così può essere formulato il principio del fondamentalismo ortodosso. Se l’ecumenismo può essere legittimo, la sua unica giustificazione è data dalla “teoria della testimonianza”. Vale a dire: noi, ortodossi, facciamo parte dei molti comitati ed organismi ecumenici solo per testimoniare davanti agli altri la verità della nostra fede. Questa teoria, però, non ispira molta fiducia.
Per questo motivo il movimento antiecumenico è molto forte nei paesi ortodossi, anche più forte di quanto possa apparire dall’esterno. Di solito, il mondo giudica secondo le parole degli alti rappresentanti delle Chiese, che possono essere assai ecumeniche e diplomatiche. Anche tra le persone a loro sottomesse, non tutti vogliono rischiare la propria posizione di prete o di parroco per contestare le azioni dei loro patriarchi che, a volte, loro malgrado, firmano dichiarazioni comuni con i rappresentanti delle altre Chiese. All’interno della galassia ortodossa esistono inoltre le chiese o chiesette alternative, spesso non canoniche, che condannano a voce alta tutti i contatti e le trattative con gli eterodossi. Il mondo che si trova al di fuori di questa galassia non sente quasi le voci di protesta perché parla e tratta solo con le Chiese ufficiali e riconosciute, ma le chiesette fondamentaliste, non canoniche, sono assai influenti all’interno delle “grandi Chiese”. E non di rado, anche dall’interno di queste Chiese, si producono proteste clamorose che giungono alla rottura, con gesti, anche simbolici, contro i loro capi. L’incontro del Patriarca Kirill con il Papa Francesco, anch’esso avvenimento piuttosto simbolico, ha provocato una cascata di critiche nell’Ortodossia russa. C’è anche un monastero sul monte Athos, canonicamente sottomesso al Patriarca Ecumenico, la cui l’identità stessa si fonda proprio sulla resistenza al Patriarca, gravemente colpevole di ecumenismo. E questa identità si esprime attraverso l’esposizione di una bandiera nera recante lo slogan “Ortodossia o morte!”. Si potrebbero moltiplicare gli esempi...
Certo, non tutta l’Ortodossia è così fondamentalista; tante persone, vescovi, sacerdoti, laici, cercano la via dell’uscita dalla chiusura tradizionale che si esprime nella formula: Unica Chiesa di Cristo siamo noi, ortodossi o, meglio, soli veri ortodossi (alla differenza degli altri, “ecumenici”). Ma per poter uscire dall’impasse, bisogna creare una via d’uscita, canonica e teologica, un po’ più valida che la teoria della testimonianza. Per ora siamo ancora al livello delle dichiarazioni; così nell’Enciclica del Concilio di Creta è proclamato che la Chiesa ortodossa, essendo Una, Santa, Cattolica ed Apostolica, occupa il posto principale nel movimento verso l’unità cristiana nel mondo contemporaneo. Questa proclamazione può trovare la sua conferma solo nel mondo dei sogni e dei desideri. La strada che porta all’unità non è stata ancora battuta nel senso teologico, ma anche psicologico. Tutti coloro che cercano il dialogo con l’Ortodossia senza illusioni devono rendersi conto di questa situazione per non creare un’immagine dell’altro a sua propria immagine. La tentazione simile mi è conosciuta bene dalla propria esperienza; tante volte mi è stato proposto di parlare o di scrivere sull’ecumenismo ortodosso, visto sempre nell’ottimistica prospettiva cattolica. Aspettando da me, naturalmente, un’affermazione che il nostro ecumenismo va sotto le vele gonfiate, ancora meglio di quello cattolico; che la nostra piena unità è già praticamente garantita, se non domani, ma dopodomani di sicuro. Il paradosso d’essere ortodosso in Occidente: non voler scoraggiare troppo le aspettative degli ascoltatori e leggere sull’internet nella mia madre lingua russa le lettere di protesta contro qualsiasi ombra dell’ecumenismo. Contro me stesso, insomma.
C’è anche un’altra spiegazione per questa chiusura: troppo a lungo le Chiese ortodosse che hanno vissuto in comunione sono rimaste, per i motivi storici, quasi senza comunicare tra di loro. La comunione ecclesiale ed eucaristica è stata mantenuta non solo dalle definizioni dogmatiche della fede condivisa, ma anche dal suo habitus rituale, liturgico, canonico, mentale. Il miracolo dell’unità interna, non sostenuta da nessuna autorità esterna – anzi, i popoli ortodossi furono spesso politicamente e umanamente divisi – è stato possibile grazie alla Tradizione. Tradizione unisce all’interno e divide (ancora divide) all’esterno.
Ecco, dunque, la prima reazione di tanti ortodossi alla notizia della convocazione del Concilio: tutto questo non si tocca. Nulla di nulla. Toccare vuol dire cambiare, cambiare vuol dire colpire la propria identità religiosa, la nostra esistenza di fedeli che cercano la salvezza sulla retta via ortodossa. Ma quando è nata l’idea del Concilio – più di 50 anni fa – l’ordine del giorno proponeva la discussione di 120 temi e di questi ne sono rimasti pochissimi. Rispetto ad uno di essi – l’importanza del digiuno – il Concilio ha fatto una dichiarazione preparata molto in anticipo e che, in pratica, ha lasciato tutto come prima, a quanto stabilito dallo Statuto di Gerusalemme (che risale al VI secolo e che durante l’anno prevede più giorni “magri” che “grassi”). Il digiuno – che è come un sigillo dell’identità ortodossa – è regolato in modo dettagliato, e non ha subito alcun aggiornamento, tranne forse il suo collegamento con gli atti di misericordia, aggiungendo all’astinenza da certi cibi una tonalità profetica.
Tutte le quattordici Chiese ortodosse canoniche hanno preso parte alla preparazione dei documenti preconciliari, ma improvvisamente quattro di esse (tra cui la più grande, la Chiesa Russa) hanno rinunciato alla partecipazione al Concilio e non sono andate a Creta. Il motivo comune della rinuncia: il Concilio non è stato preparato in modo soddisfacente, bisogna procrastinarlo ancora per un certo tempo (senza sapere quanto). Il lavoro preparatorio ha superato i 50 anni. E in tutti questi anni si sono riunite le commissioni, i vescovi, i teologi... Gli incontri erano protocollati e si redigevano i documenti – anche se non senza difficoltà. Una di queste, la Chiesa serba, ha detto di “no”, ma poi è venuta – è venuta all’ultimo momento, come il fratello della parabola. Ma il vero motivo, credo, è stata la resistenza, aperta o sotterranea, di tanti ortodossi, vescovi, preti, laici, a mettere in discussione la materia della fede vissuta e assimilata in tanti secoli. Ma cos’è la materia della fede? Il suo corpo, fisico e mentale, non può essere mai separato dalla sua anima spirituale e le Chiese ortodosse (i chierici e la maggioranza del popolo) sono pronti a gettare via tutto il resto (il dialogo con il mondo, l’accomodamento alla vita moderna, l’ecumenismo, ecc.) pur di salvaguardare questa unità
Tra i motivi della rinuncia il più valido era proprio il dubbio sul rapporto delle Chiese Ortodosse con il mondo cristiano fuori dall’Ortodossia. Prima di tutto: se sia possibile chiamarle chiese? La dichiarazione su questo argomento, emessa a Chambésy nell’ottobre del 2015 con un tono molto cauto, afferma che la Chiesa resta indivisa, cioè Ortodossa, mentre le altre chiese sono chiamate così solo di nome, e tuttavia l’Ortodossia si apre al dialogo con loro. Ma anche questa apertura ha provocato delle forti reazioni negative. Sono molto note le lettere di protesta dei padri atoniti e di altri contro qualsiasi avvicinamento con la Chiesa Cattolica. Per tanti ortodossi, l’ecumenismo spesso (non sempre, certo), anche quello dei gesti simbolici e degli abbracci spettacolari, porta la minaccia del tradimento della vera ed unica fede. Anzi, la minaccia alla sua identità, addirittura attraverso il progetto della globalizzazione, guidato dal Vaticano e dagli Stati Uniti. Così almeno dicono alcuni pubblicisti di orientamento conservatore. Soprattutto in Russia, che oggi vive una certa ossessione antioccidentale, la ricerca dell’unità cristiana diventa la prima vittima. Credo che proprio per questo motivo il Patriarca Kirill – reduce molto criticato dal suo incontro con il papa Francesco a Cuba – non sia andato al Concilio. Partecipare al Concilio e firmare i documenti (almeno uno di essi) nei quali l’ecumenismo è formulato (anche se in modo elusivo), sarebbe stato per lui un rischio serio. Di più: c’è anche il complicatissimo nodo ucraino, con le sue tre chiese ortodosse (due non sono canoniche e non riconosciute da nessuno). il Patriarca Kirill ha insistito perché questo problema non venisse menzionato e il patriarca Bartolomeo aveva espresso il proprio consenso. Ma il Patriarca serbo Ireneo è intervenuto affermando che questa questione riguarda tutta l’Ortodossia nel suo insieme. E questo argomento avrebbe potuto apparire in qualsiasi momento.
Il Concilio ha condannato ogni tipo di fondamentalismo e non solo. Anche l’etnofiletismo è stato condannato, sulla base delle decisioni del Concilio di Costantinopoli del 1872. L’etnofiletismo è la riduzione della Chiesa alla nazione o almeno la confusione, anche parziale, tra questi concetti, e corrisponde a ciò che nella Russia d’oggi viene chiamato Russkij Mir (il mondo Russo), dove la confessione della fede ortodossa diventa quasi “una cosa sola” con l’appartenenza al popolo russo, con la russicità della Chiesa. Il Patriarca Ecumenico, anche se non è completamente libero dall’attaccamento alla grecità del suo gregge, rimane comunque il difensore del carattere exta-etnico – universale – dell’Ortodossia. L’etnofiletismo, una malattia quasi nativa di ogni Chiesa autocefala organizzata canonicamente sul principio «un paese-una Chiesa», è diventata proprio una sfida ai canoni nella diaspora. La struttura canonica chiede un solo vescovo per un territorio. Soltanto in Italia, però, paese prevalentemente cattolico, sono presenti almeno sette diaspore, sottomesse ai loro rispettivi Patriarcati (Romeno, Russo – che include la massiccia emigrazione ucraina e moldava –, Ecumenico – che include russi e greci –, Serbo, Georgiano, Bulgaro, Polacco, Albanese). Si tratta solo delle Chiese canoniche, ma sono presenti anche le comunità ortodosse che non riconosciute dalla pienezza dell’Ortodossia. Il problema è rimasto irrisolto, ma il Concilio ha richiamato ad una più stretta collaborazione tra i vescovi delle Chiese autocefale (canoniche) affinché in futuro possa nascere una Chiesa Autocefala locale (italiana o dell’Europa Occidentale), con un Metropolita o Patriarca comune, senza guardare alle diverse nazionalità.
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Il Concilio ha dichiarato anche che la Chiesa vive non per se stessa, ma per i fedeli, liberandosi così dal proprio ecclesiocentrismo, una tentazione da cui né cattolici né ortodossi sono incolumi (1). Il Concilio fa una dichiarazione inaspettata e cioè che la Chiesa ortodossa è la continuazione della Chiesa Santa, Cattolica (in russo Conciliare) e Apostolica. Cosa che può trovare un’analogia nell’espressione del Vaticano II (la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa Cattolica) e che può aprire la strada al dialogo con le altre comunità religiose che pure si considerano continuazione della stessa Chiesa, ma senza alcun compromesso in materia di fede. Quella che a mio avviso è la più importante di tutte le decisioni (che non hanno portato e non hanno neanche potuto portare grandi novità) è il progetto di convocare Concili simili ogni 7-10 anni. Così il Concilio – se questo progetto non rimarrà soltanto una buona intenzione – sarà uno spazio di riflessione comune e di discussione permanente. Tutto ciò che è rimasto non detto nel Concilio attuale, potrà essere detto e articolato nei Concili successivi, ma anche nella Sinassi (è una riunione permanente dei capi di tutte le Chiese ortodosse), un istituto nuovo, proposto dal Patriarca Bartolomeo.
Il Concilio ha inaugurato l’epoca della discussione, che può andare lontano e portare grandi opportunità ma anche certi pericoli. Le opportunità sono le nuove scoperte del mistero di Cristo che, nella ricchezza della fede antica e apostolica, sotto la guida dello Spirito continua a rivelarsi in modo vario e stupendo; la fede che può illuminare con una visione inaspettata l’uomo e il cosmo, le ricerche scientifiche, i postulati morali, i modelli sociali... La discussione presuppone che la fede sia una realtà dinamica, non solo un tesoro intatto da conservare per i secoli.
Ma ci sono anche dei pericoli che si profilano: il peso del passato è troppo grande, quasi schiacciante, e per difendere ogni virgola della nostra Tradizione sarà chiamato un esercito di difensori con l’unico programma di dire no a qualsiasi dialogo con gli eterodossi. Così il Concilio (che ha combinato in modo molto cauto e bilanciato l’apertura e la fedeltà alla Tradizione millenaria) suo malgrado, forse, ha prodotto una prima crepa fra due Ortodossie, quella rivolta anche ai problemi del mondo (e che sarà sicuramente chiamata «modernista») e quella che scriverà sulla sua bandiera il nome «vera». Il dissenso latente e aperto è già in corso e ci vorrà un grande sforzo umano e l’intervento dello Spirito per evitare un nuovo scisma.
Per concludere. Ho chiamato il mio arcivescovo Jean de Charioupolis, partecipante al Concilio, per chiedere le sue impressioni. «Il Concilio si è svolto in modo meraviglioso – mi dice – ispirato dallo Spirito Santo, nella libertà di parola e nell’unanimità, in un clima di amore reciproco. Amareggiato, certo, dall’assenza delle altre Chiese sorelle. Ma nonostante tutto è stato un gran successo! Anche inaspettato».
Vladimir Zelinskij
nota
1) Mi ricordo che nell’ormai lontano 1987 (in piena perestrojka) p. Gleb Jakunin ed altri otto firmatari (tra cui anche l’autore di queste righe) iniziarono la loro lettera aperta al Patriarca Pimen proprio con la stessa affermazione.