Nel 1965 venne promulgata da Paolo VI la dichiarazione conciliare Nostra aetate: uno dei testi più innovativi del Concilio Vaticano II, dedicato alle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane. Le parole latine «nostra aetate» significano «nel nostro tempo» e bene chiariscono i contenuti della «dichiarazione» e quel «segno dei tempi» che accompagnò come un filo rosso l'intero Concilio.
Fu così grande l'impatto di questa «dichiarazione» che il grande filosofo Norberto Bobbio sostenne che essa rappresentava una svolta vera, da porre accanto ad altre pagine della storia come la Riforma e la Rivoluzione francese.
È noto che Giovanni XXIII si convinse, grazie anche a un colloquio che ebbe con lo storico francese Jules Isaac nel corso di un'udienza il 13 giugno I960, dell'opportunità che il Concilio emanasse un documento che esprimesse innanzitutto una netta condanna dell'antisemitismo e che scagionasse gli ebrei dall'accusa di deicidio. Un incontro fortemente voluto, con passione spirituale e lucidità teologica, da Maria Vingiani, fondatrice e a lungo presidente di quel grande laboratorio del dialogo ebraico cristiano che è il Segretariato per le attività ecumeniche. Venne così nominata una commissione, presieduta dal cardinale tedesco Agostino Bea, che doveva predisporre i vari schemi da sottoporre al dibattito conciliare. Il cammino fu lungo, tortuoso, pieno di sorprese. Passaggi che testimoniano di un dibattito anche aspro dal quale nacque appunto la Nostra aetate.
L'originaria intuizione di Giovanni XXIII si era arricchita di altre prospettive, l'orizzonte ora includeva non solo le relazioni con l'ebraismo ma anche tutte le altre religioni. Infatti i cinque paragrafi che compongono la «dichiarazione» sono così suddivisi: il primo e quello finale si presentano come introduzione e conclusione generali; il secondo presenta le religioni «primitive», quindi l'induismo e il buddhismo: il terzo è dedicato all'islam, il quarto, quello più ampio, alla religione ebraica.
Per comprendere meglio il cammino percorso, i passi avanti, le battute d'arresto, ma soprattutto le questioni aperte bisogna avere la consapevolezza che ogni tipo di rapporto, di relazione, di dialogo deve disporsi in tre dimensioni: quella del passato, quella del presente e infine quella del futuro. Un passato fatto non solo di incomprensioni dottrinali e teologiche, ma di violenza e morte.
Senza risalire alla polemica tra cristiani ed ebrei nei primi secoli, alle leggi anti-giudaiche in regime cristiano, al periodo patristico con i suoi trattati Adversos Judaeos, basterà ricordare alcuni dati significativi del ventesimo secolo che per gli ebrei significò morte, ma anche insperata possibilità di rinascere. Morte nei campi di sterminio nazisti nell'indifferenza di milioni di persone, rinascita con lo Stato di Israele. Il silenzio inerte e agghiacciante della morte divenne silenzio della speranza e della vita. Auschwitz, l'esilio della parola, fu seguito da un tempo di riflessione delle Chiese cristiane occidentali sul destino dei figli di Israele.
La riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo
Da questa presa di coscienza è nato un interesse sempre maggiore delle Chiese cristiane per il loro rapporto con il popolo ebraico, caratterizzato dalla riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo. Una precisazione si impone a questo punto. L'ebraismo è una realtà per definizione pluralistica. Si può parlare degli ebrei come popolo, come fede e tradizione religiosa e si può parlare di Israele come realtà politica. Questi e altri aspetti fanno parte di quella difficile definizione dell'identità ebraica costruita e ricostruita, nei lunghi secoli della diaspora e dell'epoca biblica, che trovano un’approssimativa semplificazione nella duplice realtà religiosa e politica. La natura dei rapporti tra ebrei e cristiani risente ovviamente delle complesse realtà che essi rappresentano. Del carattere pluralistico dell'ebraismo si è detto. Ma anche il cristianesimo è costituito da tendenze e posizioni molto diverse tra di loro. Non sempre quello che è valido per un gruppo, per una Chiesa, lo è per un altro/a. Ogni generalizzazione diventa pericolosa. Quello che vale per un ebreo riformato o conservativo non vale sempre per un ebreo ortodosso e quello che vale per un cristiano occidentale non vale per uno orientale. Quando parliamo di dialogo con l'ebraismo dobbiamo tener presente che non c'è una sola Chiesa. Che l'approccio al dialogo con gli ebrei ha tonalità diverse in Occidente e in Oriente e spesso anche all'interno di una stessa tradizione. Che dire infatti dei reiterati tentativi di alcune realtà cristiane di convertire gli ebrei, ancora oggi? Che dire dei tanti fondamentalismi cristiani che esprimono ancora discutibili posizioni antigiudaiche?
Sono passati quarant'anni. È vero che la Nostra aetate, ma direi l'intero Concilio Vaticano II, hanno aperto una nuova era nelle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane e con l'ebraismo in particolare, ma qualche riflessione metodologica e di merito è necessaria. Partiamo dai problemi generali che la «dichiarazione» pone. Problemi che il trascorrere degli anni ha reso ancora più evidenti e ineludibili.
L'allargamento tematico della Nostra aetate, lo sguardo gettato sull'intera e complessa realtà delle religioni del mondo ci induce a porci una domanda: l'ebraismo è solo una religione non cristiana come tante? Se c'è una particolare relazione tra cristiani ed ebrei, che peso ha questa specifica relazione sul rapporto con le altre religioni? È chiaro che il punto prospettico fondamentale è lo sguardo gettato sulle altre religioni da parte cristiana, in questo caso segnatamente cattolica In gioco è appunto una teologia cristiana delle religioni, un rapporto in cui una delle parti definisce l'altra e la «riduce» alle proprie categorie teologiche, filosofiche, culturali.
In questi quarant'anni le direttrici del dialogo si sono sempre più incentrate verso due direzioni: le relazioni ebraico-cristiane e il dialogo interreligioso.
Il lungo pontificato di Giovanni Paolo II e quello ancora agli inizi di Benedetto XVI hanno mostrato che su entrambi i fronti vi è stato un intenso impegno, di vasto respiro pur in presenza di qualche ambiguità. Non è il caso di ricordare i tanti eventi (alcuni epocali), gli atti pubblici, i documenti, i convegni, gli incontri, le pubblicazioni che hanno accompagnato il lungo cammino di questo quarantennio, aventi significativi che hanno visto al centro la Chiesa cattolica e il suo rapporto con le altre religioni e con l'ebraismo.
Tuttavia, più si va avanti in questo cammino e più è evidente che la ricerca teologica procede con un passo più lento rispetto ai gesti, pur significativi, fin qui compiuti. È evidente che lo scopo principale della «dichiarazione» era quello di fornire le indicazioni di principio alla base del dialogo o dei dialoghi interreligiosi. Insomma il problema era: quale atteggiamento tenere nei confronti delle altre fedi entro una cornice di fondo che esprimeva (ovviamente) l'obbligo di manifestare la convinzione che Gesù Cristo va annunciato a tutti e che Egli è «la via la verità e la vita» (Gv 14, 6)?
Alla base della Nostra aetate, a mio parere, vi sono due convincimenti fondamentali. Il primo, di carattere teologico, sostiene la perenne alleanza tra Dio e il popolo ebraico. Insomma, Israele non può e non deve essere in alcun modo ritenuto rifiutato dal suo Signore, anzi Egli gli riserva un amore che non conosce pentimenti.
Il testo evidenzia, inoltre, sia la comune eredità di tutti i figli di Abramo, sia l'ebraicità di Gesù, di Maria sua madre e degli apostoli. Siamo di fronte a quello che si definisce la radice ebraica del cristianesimo.
L'altra affermazione richiama con fermezza la denuncia dell'odio, delle persecuzioni e delle manifestazioni di antisemitismo contro gli ebrei di ogni tempo. Ciò ha posto termine alla errata convinzione che sugli ebrei gravi la colpa atavica per quanto è avvenuto nel corso della passione e morte di Gesù.
Un dialogo da ripensare
Ma c'è un nodo teologico alla base della ricezione della Nostra aetate che accompagna il dialogo tra cristianesimo ed ebraismo e le altre religioni, espresso lucidamente dal cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani: «Come si può conciliare la tesi del perdurare dell'alleanza tra Dio e il popolo d'Israele con l'unicità e l'universalità di Gesù Cristo, costitutive entrambe, nel cristianesimo, della nuova alleanza?». È un interrogativo netto, perentorio, a cui è difficile rispondere e che fa esplodere ogni stucchevole tentativo di edulcorare i contenuti del dialogo ebraico-cristiano. Si tratta di un tema decisivo, di un nodo nevralgico difficilmente aggirabile, in cui ne va non solo dell'identità e della coscienza cristiana, ma anche del futuro del dialogo con l'ebraismo e le altre religioni. Dal tipo di risposte eventualmente fornite si capirà il tipo di futuro che avrà il dialogo. Del resto nonostante la svolta storica, quella teologica, quella teoretica seguite alla promulgazione della «dichiarazione» e di altri documenti e costituzioni del Concilio Vaticano II e le prese di posizione di numerose Chiese protestanti, permangono alcuni elementi che andrebbero rimossi. Ma è possibile? Se è vero che i passi avanti sono stati giganteschi rispetto ai tempi della storia e che il dialogo ha prodotto pagine importanti in cui il cristianesimo ha rivisto e rovesciato da cima a fondo il proprio rapporto con l'ebraismo. è anche vero che permane ancora una teologia della sostituzione (la Chiesa ha preso il posto d'Israele) che fa problema. E che dire della questione della «salvezza-redenzione» visto che per il cristianesimo, come si è detto, Gesù Cristo è l'unica via di salvezza? Ancora: nella prassi quotidiana vi sono tentativi di proselitismo nutriti dalla volontà di «salvare» gli ebrei grazie a un altro ebreo, Gesù appunto.
Onesti elementi rendono evidenti le caratteristiche del dialogo e le difficoltà per procedere oltre. Molto è stato detto, molto si è fatto e quello che resta da fare, il futuro del dialogo, le prospettive, i contenuti inediti di esso sono vaghi e indecifrabili. Per uscire dalle secche di incontri ormai scontati occorre pensare altrimenti. Ma si può? Nella difficile dialettica di identità e differenza, di particolarismo e universalismo, nel variegato farsi e disfarsi delle nostre identità si può trovare un percorso che vada oltre i fondamenti delle nostre tradizioni senza cancellarle? Si può parlare di tutto ciò senza imporre regimi di verità?
Il dialogo ebraico-cristiano è un dialogo asimmetrico. I cristiani devono riscoprire le proprie radici, ma allo stesso tempo per un cristiano è impossibile non «vivere» l'incarnazione di Cristo che è la negazione stessa della tradizione originaria di Israele. Una asimmetria teologica e storica che va presa sul serio e fino in fondo.
Racconta la Genesi (27, 45) che quando Esaù minacciò di uccidere il fratello Giacobbe non appena Isacco fosse morto, la madre Rebecca ordinò a Giacobbe di fuggire dicendo «perché dovrei rimanere priva di voi due in un solo giorno?». Rashi, riprendendo l'idea del Talmud (TB Sotà 13) dice che in quel momento Rebecca era stata dotata di spirito profetico e aveva intuito, come deduce il midrash, che effettivamente, dopo molti anni, i due fratelli gemelli sarebbero morti (o sarebbero stati sepolti) nello stesso giorno.
Le parole di Rashi fanno pensare a una cosa importante: che tra i due fratelli non ci sarà uno che sopravvivrà all'altro. Finché uno dei due vivrà, vivrà anche l'altro.
Ottavio Di Grazia
(tratto da Confronti, gennaio 2006, pp. 26-28)