Ecumene

Venerdì, 03 Giugno 2011 10:12

In dialogo con i fratelli maggiori (Brunetto Salvarani)

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Lo scopo della Giornata non è pregare per gli ebrei, ma iniziare i cristiani al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica. La quinta parola del Decalogo.

17 gennaio 2011: 22ª Giornata del dialogo cristiano-ebraico

Lo scopo della Giornata non è pregare per gli ebrei, ma iniziare i cristiani al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica. La quinta parola del Decalogo.

Da parecchi anni assistiamo a un boom d'interesse, in Italia, per l'ebraismo e la cultura ebraica nelle sue variopinte sfaccettature. Questo, si badi, a dispetto della scarsa presenza di ebrei (il cui numero non raggiungerebbe i trentamila, con appena ventuno comunità, di cui nessuna a sud di Napoli).

I segnali spaziano dalla passione letteraria per l'epopea yiddish di I.B. Singer, quella mitteleuropea di J. Roth e quella israeliana del trio Oz-Yehoshua-Grossman al favore per le performance teatrali di un Ovadia e le installazioni artistiche di Luzzati; dai festival su folklore, musica e cucina fino alla celebrazione della Giornata della memoria il 27 gennaio dal 2001, e di quella per la valorizzazione del patrimonio ebraico, nel primo week-end di settembre dal 2000. Potremmo dire che, oltre al debito verso il grande codice biblico, ci stiamo rendendo conto di come le radici profonde della nostra modernità affondino ampiamente nel pensiero e nella visione del mondo d'Israele.

Mutamento radicale

A fronte di tale scenario, qui appena sintetizzato, ci si dovrebbe stupire constatando quanto poco sia penetrata, nel tessuto delle nostre comunità, la dimensione del dialogo con gli ebrei e l'ebraismo cui pure esorta lo straordinario quarto paragrafo della dichiarazione conciliare Nostra aetate. Probabilmente, il motivo principale di tale difficoltà è che la provocazione di Israele alle chiese solo apparentemente riguarda un aspetto specifico delle chiese stesse, i loro rapporti con Israele. Se si va oltre le apparenze, infatti, occorre riconoscere che essa mette in discussione tutta la chiesa, la sua autocomprensione e persino la sua dimensione missionaria.

E c'è chi ritiene, al riguardo, che la forma più sottile di antiebraismo persistente fra i cristiani sia il considerare l'area dei rapporti ebraico-cristiani come un'area specialistica e limitata della fede cristiana.

La riflessione, è facile intuire, ha un'enorme portata. L'ha inteso bene il cardinal Martini, che quasi tre decenni or sono si era spinto ad avvertire come, dopo il concilio, il tema delle relazioni ebraico-cristiane si sia fatto decisivo per il futuro della chiesa: «La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì l'acquisizione della coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno sul piano dottrinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d'oggi». Un passo lucidamente profetico, quello martiniano, su cui le parrocchie e le diocesi sarebbero chiamate utilmente a meditare, in questo tempo segnato dalla ripetuta messa in questione della parola dialogo, in occasione della prossima Giornata per l'approfondimento e lo sviluppo del dialogo religioso ebraico-cristiano, fissata come da moderna tradizione per il 17 gennaio. Ventiduesima della serie.

Nel frattempo, è passato ormai un quarto di secolo dall'incontro epocale fra Giovanni Paolo II e rav Elio Toaff (uno dei due personaggi viventi che saranno citati nel suo testamento) del 13 aprile 1986, sorta di culmine di quella pedagogia dei gesti che caratterizzò l'azione pastorale del papa polacco.

Nell'occasione questi, primo pontefice a varcare la soglia di una sinagoga, quella della città di cui era vescovo nel suo viaggio più breve e insieme più lungo, affermò solennemente che «la religione ebraica non ci è estrinseca ma, in un certo modo, è intrinseca alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun'altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire, i nostri fratelli maggiori». Parole forti e innovative, indice di un mutamento di prospettiva radicale rispetto al tradizionale insegnamento del disprezzo (J. Isaac) che aveva caratterizzato, sin dalla reciproca rottura del primo secolo dopo Cristo, le relazioni fra cristiani ed ebrei.

Questo mutamento sarà prontamente recepito dalla Conferenza episcopale italiana sotto la spinta dell'allora vescovo di Livorno, Alberto Ablondi, recentemente scomparso che, nel 1989 e a partire dal '90, in sintonia con la citata dichiarazione conciliare Nostra aetate, invitavano le comunità e le chiese locali a vivere una Giornata del dialogo, da tenersi appunto il 17 gennaio di ogni anno.

La scelta della data, vale la pena di ripeterlo una volta di più, non fu casuale: la ricorrenza, infatti, si situa immediatamente prima della tradizionale Settimana di preghiera per l'unità dei cristiani (18-25 gennaio), con la doppia, evidente intenzione di rimarcare la priorità dell'incontro con Israele, radice santa della nostra fede rispetto a qualsiasi pur apprezzabile sforzo ecumenico e, nel contempo, l'impossibilità che quest'ultimo possa produrre risultati concreti di un certo livello senza un rinnovato invito a porsi appunto, tutti insieme, alla scuola di Israele. Affinché il dialogo cristiano-ebraico non sia un impegno solo di vertice nella chiesa, o di alcuni gruppi o movimenti, ma diventi coscienza ecclesiale di base.

In vista di una fruttuosa celebrazione di essa, non va dimenticato che lo scopo della Giornata non è di pregare per gli ebrei, ma di iniziare i cristiani al rispetto, al dialogo e alla conoscenza della tradizione ebraica, in sintonia con la svolta, sopra citata, del Vaticano II. Sarebbe opportuno, pertanto, che diocesi e parrocchie promuovessero nell'occasione momenti di approfondimento lungo questi due filoni complementari: la riflessione sul vincolo particolare, anzi unico, che lega chiesa e Israele, da un lato; e l'esistenza viva e attuale del popolo ebraico, dall'altro.

L'onore per i genitori

Un'interpretazione autorevole di questo rapporto fu offerta, nell'estate del 2005, da Benedetto XVI incontrando i leader della locale comunità ebraica nella sinagoga di Colonia il 19 agosto. Secondo Ratzinger, infatti, nel dialogo cristiano-ebraico lo sguardo dei cristiani non dovrebbe volgersi solo indietro, verso il passato, ma spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani: «Il nostro ricco patrimonio comune e il nostro rapporto fraterno ispirato a crescente fiducia ci obbligano a dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico per la difesa e la promozione dei diritti dell'uomo e della sacralità della vita umana, per i valori della famiglia, per la giustizia sociale e per la pace nel mondo. Il Decalogo (cf. Es 20; Dt 5) è per noi patrimonio e impegno comune. I dieci comandamenti non sono un peso, ma l'indicazione del cammino verso una vita riuscita».

Il tema è stato ripreso, lo scorso 17 gennaio 2010, dallo stesso papa, durante la sua visita al tempio romano, quando si è riferito al Decalogo come alla «fiaccola dell'etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell'amore, un grande codice etico per tutta l'umanità».

In tale chiave, dal 2006, le autorità ebraiche e quelle cattoliche hanno deciso, in relazione al tema della Giornata del 17 gennaio, di avviare un itinerario condiviso sul Decalogo, giunto quest'anno alla quinta parola: «Onora tuo padre e tua madre» (Es 20,12 e Dt 5,16).

Un richiamo non agevole, oggi, con la sociologia a raccontarci, a un tempo, della difficoltà a riconoscersi figli e della cosiddetta morte del padre, ma anche della crisi dell'autorevolezza genitoriale. Quella paterna, del resto, è la figura familiare modernamente più discussa: portatore del cognome e del rispetto del gruppo, il suo destino segue le vicende di questi valori, attualmente in caduta libera nel ranking sociale. Per questo, sarà fondamentale tornare al senso originario del quinto comandamento, nel cui testo ebraico compare il verbo kabad, a indicare il peso, l'importanza, il valore che i genitori dovrebbero avere agli occhi dei figli, chiamati a riconoscer loro il giusto rispetto. Per questo, qui non vengono comandati semplicemente l'amore o l'obbedienza filiali, ma anche il farsi carico con affetto, cura, riconoscenza, soprattutto dei genitori anziani.

Essi rappresentano il tramite che ci lega a tutta la storia che è - dal punto di vista dell'autore biblico - un succedersi di generazioni, collegate le une alle altre da solidarietà profonda. Tale legame con i padri, e l'onore a essi riconosciuto, sono carichi di una promessa - «affinché i tuoi giorni siano lunghi nel paese che Dio ti darà» (Es 20,12b) - e sono inseriti così nell'economia dell'alleanza. Per questo, anche l'apostolo Paolo ricorderà tale dato dichiarando che questo è il «primo comandamento associato a una promessa» (Ef 6,2).

 

La cifra della carità

Riflettendo di padri e madri, mi torna alla mente una bella considerazione del pastore svizzero Martin Cunz, secondo il quale «i veri padri e le vere madri del dialogo sono, almeno da parte cristiana, semplici pastori, membri di ordini religiosi o monastici, uomini e donne, soldati e ufficiali di frontiera; sono loro che, dopo il 1945, hanno reso moralmente possibile un dialogo tra le chiese e i teologi cristiani da una parte e i rappresentanti del popolo ebraico dall'altra».

Infine. Mentre si avvicina la prossima Giornata non dimentichiamo mai che, se il dialogo è il rischio del non ancora e dell'altrove, non nega le differenze e non le annulla; anzi, richiede le differenze e le mantiene, ma abbatte gli steccati e costruisce ponti sulle voragini che abbiamo scavato per separare noi dagli altri e gli altri da noi. Non rivendica diritti di verità (teologica o storica), né si arroga il diritto di determinare le scelte dell'altro, non rinfaccia né richiede nulla all'altro. Il dialogo - in misura somma, quello fra cristiani ed ebrei - è la cifra della carità, della speranza e della gratuità.

Brunetto Salvarani

 

 

(da Settimana, n. 1, anno 2011)

Letto 9000 volte Ultima modifica il Venerdì, 27 Gennaio 2017 10:29
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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