Scrittura e lettura nell'ebraismo
di Paolo De Benedetti
In italiano la parola ‘lettura’ ha molti significati: può indicare una lettura silenziosa, mentale, come quella che abitualmente si pratica oggi quando si legge un libro, un giornale, un’insegna, una lettera; o una lettura ad alta voce, perché gli altri ascoltino senza avere il testo davanti: è quella che si fa nelle assemblee religiose o civili, a scuola, a gente che non sa leggere (gli antichi leggevano sempre ad alta voce, anche quando erano soli, quindi il loro leggere era anche un ascoltare); infine, lettura significa modo di intendere e interpretare ciò che si legge.
Per accostarci al modo ebraico di leggere la Scrittura, partiamo dunque da un dato linguistico: quell’insieme di libri che chiamiamo Bibbia o, appunto, Scrittura, sono chiamati in ebraico Miqra’ (lettura). Ma quale lettura?
«Come fu giunto il settimo mese, e i figliuoli d’Israele si furono stabiliti nelle loro città, tutto il popolo si radunò come un sol uomo nella piazza ch’è davanti alla porta delle Acque, e disse a Esdra, lo scriba, che portas-se il libro della legge di Mosè che il Signore aveva data a Israele. E il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti alla radunanza, composta di uomini, di donne e di tutti quelli ch’eran capaci d’intendere. E lesse il libro sulla piazza ch’è davanti alla porta delle Ac-que, dalla mattina presto fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne, e di quelli ch’eran capaci d’intendere; e tutto il popolo tende-va le orecchie a sentire il libro della legge. Esdra, lo scriba, stava sopra una tribuna di legno, ch’era stata fatta apposta, e accanto a lui stavano, a destra, Mattitia, Scema, Anaia, Uria, Hilkia e Maaseia; a sinistra, Pedaia, Misael, Malkia, Hatum, Hashbaddana, Zaccaria e Meshullam. Esdra apri il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava in luogo più eminente; e, com’ebbe aperto il libro, tutto il popolo s’alzò in piedi. Esdra benedisse il Signore, l’Iddio grande, e tutto il popolo rispose: ‘Amen, amen’, alzando le mani; e s’inchinarono, e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. Jeshua, Bani, Serebia, Jamin, Akkub, Shabbenthaj, Hodia, Maaseia, Kelita, Azaria, Jozabad, Hanan, Pelaia e gli altri leviti spiegavano la legge al popolo, e il popolo stava in piedi al suo posto. Essi leggevano nel libro della legge di Dio distintamente; e ne davano il senso, per far capire al popolo quel che s’andava leggendo» (Ne 8, 1-8).
Questa scena, avvenuta o verso il 444 a.e.v. o circa cinquant’anni più tardi (vi sono grossi problemi di cronologia), ci rappresenta per la prima volta un culto di ‘lettura’: culto che nelle sue linee generali e nel suo spirito è rimasto immutato nella liturgia sinagogale, e che ci mostra come, dei tre significati della parola ‘lettura’, l’ebraismo classico e tutta la tradizione che ne deriva realizzassero il secondo e il terzo significato.
In altri termini, vediamo come il popolo fosse davanti al «libro» (ebr. sefer, rotolo) in posizione di «ascolto», e questo ascolto includesse sia le parole del testo biblico vero e proprio, sia - probabilmente - il targum o traduzione estemporanea in aramaico (lingua allora parlata dal popolo), sia l’interpretazione o esegesi al fine, come afferma Esodo 24, 7, di «eseguire e ascoltare». Ricordiamo che in ebraico ‘leggere’ (qara’) significa «leggere ad alta voce», ma anche ‘chiamare’ e ‘gridare’.
Tutto quanto s’è detto fin qui potrebbe riassumersi simbolicamente in un’immagine: il rapporto dell’ebreo con la parola di Dio non è rappresentabile dal fedele che si legge la sua Bibbia, e neppure - a essere precisi - dal fedele che nella sinagoga vede estrarre il rotolo della Scrittura dall’Arca santa e lo sente leggere. Invece, se in un certo senso sia la lettura sinagogale sia quella di Esdra attualizzano la situazione del popolo ai piedi del Sinai in ascolto di Mosè, in ogni caso tra il fedele che ascolta e il libro che viene letto c’è un terzo elemento, fondamentale: la tradizione, o Torà orale. E la tradizione che mi offre il senso, anzi i sensi, e che mantiene la parola del Sinai «molto vicina a te, nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica» (Dt 30, 14).
La tradizione orale (Torà she-be- ‘al-pè, «Torà che è sulla bocca») è presentata all’inizio del trattato rabbinico Pirqè Avot (Capitoli dei Padri), come identica e distinta dalla Torà scritta: un commentatore medievale anonimo (Machazor di Vitry) chiarisce: «la Torà tutta intera, sia quella scritta che quella orale». E il più antico rabbi Jona: «Sia la Torà che è stata messa per iscritto, sia la Torà che è sulla bocca, perché la Torà è già stata data insieme a tutte le sue interpretazioni».
Un esempio di ricorso alla tradizione orale è offerto da Gesù stesso, a proposito della disputa con i sadducei (Mt 22, 23-32), che negavano la resurrezione. Essi avevano in certo senso ragione di sostenere che la Torà non la insegna: infatti nel testo scritto della Torà non ve n’è traccia, ed essi appunto rifiutavano la tradizione orale. Gesù condivideva invece con i farisei la concezione sopra ricordata dai Pirqè Avot, e professava una «lettura» che faceva dire alla Torà scritta qualcosa che stava dietro alla lettera, qualcosa che si era venuto formando nella coscienza delle generazioni leggenti, attraverso i secoli (verrebbe da citare il detto di Gregorio Magno secondo cui «la Scrittura cresce con chi la legge»).
Che la Scrittura sia per così dire trasportata dal fiume della tradizione orale, è illustrato per un verso dalla stessa scienza biblica moderna, che presuppone le tradizioni orali a monte del Pentateuco e dei libri storici, per un altro verso dalla necessità che ha la Torà scritta di chiarimenti, precisazioni, istruzioni altrettanto autorevoli per essere applicabile.
Un esempio classico è la legge del sabato, che in Es 31, 15 si limita a vietare «un lavoro», senza specificare quale: ecco perciò che l’esegesi rabbinica ‘legge’ nei versetti precedenti 3-12 un’esemplificazione delle categorie di lavori vietati, secondo il principio ermeneutico rabbinico che vede una connessione tra due testi contigui.
L’interpretazione come ricerca (ebraico midrash) di ciò che sta dentro e dietro al testo perché Dio l’ha pure rivelato a Mosè sul Sinai, ma Mosè l’ha trasmesso oralmente, non è una ricerca arbitraria anche se ricchissima di esiti, e non è solitaria neppure quando è eseguita da un solo maestro.
Sin dall’epoca di Gesù furono formulate regole molto precise da applicare alla ‘scoperta’ del non detto: le sette regole di Hillel, le tredici regole di rabbi Jishma’el e le trentadue regole di rabbi Eliezer, basate sul ragionamento a fortiori o a minori ad maius, sul confronto di passi diversi contenenti un elemento comune, sul passaggio da un caso particolare a uno generale e viceversa. Un caso particolare di lettura biblica, molto interessante, è la charizà («collana»), consistente in un accostamento di passi di diversi libri biblici per provare una tesi: è il metodo seguito da Gesù, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti» (Lc 24, 27), con i discepoli di Emmaus.
Come si è detto, tutto ciò porta a un vero accrescimento della Torà, o anche a una sua diversificazione secondo le varie scuole: a partire dal famoso, e già citato (cfr. pp. 13, 24, 34), contrasto fra due scuole dell’inizio dell’era cristiana, la «casa di Hillel» e la «casa di Shammaj», che divergevano su almeno trecento interpretazioni della legge, e quindi della prassi. Del resto, tutto il procedimento che va dal testo al commento, dal commento alla discussione, dalla discussione alla definizione (o meglio alla «scoperta») del precetto, è un percorso che deve essere considerato interno alla rivelazione sinaitica, come appare da questa affermazione: «Perfino ciò che un discepolo provato insegnerà davanti al suo maestro è già stato detto a Mosè sul Sinai» (Talmud Palestinese, Pe’à 2.4; 17a). In questo caso il maestro garantisce la «catena della ricezione», ossia il nesso generazionale della tradizione orale, così come la garantisce il padre che risponde alle domande del figlio (Es 12, 26-27 ecc.).
Scoprire il precetto ed eseguirlo significa, in ultima analisi, «dare compimento alla Torà»: ossia eseguire la volontà di Dio. Questa espressione va intesa in tutta la sua profondità, mentre molto spesso viene letta dai cristiani in modo superficiale e quasi caricaturale. Non bisogna dimenticare che il precetto, e l’insieme dei precetti, sono detti halakhà, «via» perché sono la via da percorrere. Ma dove conduce questa via? A realizzare l’immagine e somiglianza con Dio che Egli aveva nel suo progetto creativo. Ora, in tutta la Scrittura l’ebreo vede una sola, sia pure molteplice immagine di Dio, una sola rivelazione di «Colui che parlò e il mondo fu fatto»: la rivelazione della sua volontà. Dio non dice di sé chi è, ma che cosa vuole; tutti gli attributi che di sé rivela sono modelli che l’uomo deve incarnare: la misericordia, la fedeltà, la pazienza ecc.
Cercheremmo invano nella Bibbia attributi metafisici di Dio: e perciò l’ebreo vede nel precetto non già una fonte di merito, bensì un gratuito incontro con Colui che, chiedendo ubbidienza a un precetto di cui non mi dà spiegazione, mi assicura però che in esso si cela il mistero della sua immagine.
«Rav disse: I precetti non sono stati dati che allo scopo di parificare le creature; e che, forse importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l’animale [ritualmente] lo colpisca al collo [come è prescritto] o lo colpisca alla nuca [come è vietato]? Così, i precetti non sono stati dati se non allo scopo di purificare le creature» (Bereshit Rabbà XLIV, 1). Perciò «non bisogna soffermarsi a ponderare sul valore dei precetti della Torà» (Devarim Rabbà VI, 2).
La Scrittura, dunque, non ci dice nulla sulla natura di Dio, ma ci dice tutto sulla sua misteriosa Volontà: perciò vi furono mistici cabbalisti che sostennero che l’intera Torà altro non è che un unico, immenso nome di Dio. Quel nome rivelato al roveto ardente che nell’interpretazione rabbinica indica Dio in quanto misericordia.
La pluralità delle interpretazioni, se di fatto manifesta una delle caratteristiche fondamentali dell’intelligenza ebraica, e una delle eredità più preziose del fariseismo e del rabbinismo classico, va vista in primo luogo come ricchezza inesauribile del parlare divino, in cui ogni parola può legittimamente essere intesa secondo le diverse potenzialità umane (si pensi al miracolo delle lingue a Pentecoste, in Atti 2, dove l’evento è deliberatamente modellato sulla Pentecoste sinaitica). Due sono i passi biblici che vengono citati a sostegno di questo modo di intendere i sensi scritturali:
«Abbajje dice: Siccome la Scrittura dice: ‘Una cosa ha detto Dio: due ne ho udite; è questa la potenza di Dio’ (Sal 62, 12), [se ne deve dedurre che] un solo passo dà luogo a sensi molteplici» (Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a).
E «è stato insegnato nella scuola di rabbi Jishma’el: ‘Non è forse la mia parola come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia?’ (Ger 23, 29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza (= Dio), si divideva in settanta lingue» (Talmud Babilonese, Shabbat 88b).
Settanta indica la totalità dei popoli, ai quali tutti è offerta la Torà, nella loro propria lingua e comprensione. Ma lo stesso avviene all’interno di Israele, al quale anche è offerta, come si è detto, una pluralità di sensi: commentando Qohelet 12, 11 («Le parole dei sapienti sono come pungoli, e come chiodi piantati quelle dei maestri delle assemblee: sono state date da un unico Pastore»), il Talmud Babilonese, Chaghigà 3a-b, scrive:
«I maestri delle assemblee: sono i discepoli dei sapienti [espressione di umiltà per designare i maestri], che stanno in tante comunità per occuparsi dello studio della Torà. Gli uni dichiarano una cosa impura, e gli altri la dichiarano pura; gli uni legano e gli altri sciolgono. [...] Ma se uno dicesse: Siccome questi dichiarano puro e quelli dichiarano impuro, questi legano e quelli sciolgono [...], come posso io imparare la Torà? La Scrittura insegna: (Tutte queste parole) ‘sono state date da un unico Pastore’. Un unico Dio le ha date, e un unico capo le ha dette».
L’unico senso, nascosto nella mente divina, sarà rivelato nell’età messianica: ma anch’esso in realtà sarà soltanto l’inizio di un cammino entro il testo che proseguirà nella vita futura, in compagnia - come afferma un bellissimo midrash - di Dio stesso.
(da Introduzione al giudaismo, Brescia, Morcelliana, 1999, pp. 45-50)