Parlerò soprattutto delle religioni abramitiche, ma fin dall'inizio di questa riflessione dovrebbe essere chiaro che il buddhismo è di particolare significato nella sua negazione di qualsiasi entità personale al di fuori dei confini mondani. Se chiediamo il perché di tale negazione, dobbiamo concludere, come detto poc'anzi, che vi è la preoccupazione che la proiezione su una divinità esterna finisca per indebolire lo stimolo a venire alle prese con il nostro egoismo e la nostra leggerezza; e vi è la preoccupazione che l'atto stesso di affermare l'esistenza di tale divinità costituisca una fuga dalla rigida analisi pratica della liberazione mentale.
In risposta a questo, tutte e tre le religioni abramitiche devono essere esaminate con attenzione. Se crediamo in una fonte di energia, perdono ed amore indipendente da noi, come evitare che diventi un oggetto di fede che indebolisce la nostra responsabilità e ci intrappola in una proiezione? Dovremo (per non dire di più) definire che non stiamo cercando un'entità sovrannaturale che colmi le lacune della nostra imperfetta autocoscienza e della volontà di cambiare, una personalità consolatoria che esiste per assolvere alle esigenze dei nostri sé pigri e bisognosi. Dovremo esaminare con attenzione quegli aspetti del nostro linguaggio che da sé ammoniscono contro tale fraintendimento, e quelli che invece possono suggerirlo o alimentarlo tranquillamente. La nostra fede diviene consapevole in un modo nuovo; anche se finiamo per dire - come probabilmente accadrà - che il rifiuto buddhista di un Dio personale parte dal presupposto che l'attribuire a Dio personalità ed oggettività significhi necessariamente una semplice proiezione dei nostri bisogni, e anche se sosteniamo - come probabilmente faremo - che non si arriva a nulla negando la nostra dipendenza da ciò che esiste oltre il mondo, saremo stati avvertiti, in modo acuto e costruttivo, dell'uso da fare della nostra fede per rafforzare ciò che saremmo maggiormente tentati di trascurare.
Ma come applicare questo discorso alla conversazione sulle tradizioni abramitiche? Ecco alcuni suggerimenti.
Gli ebrei non accettano affermazioni come queste: Dio è libero di ignorare o di riscrivere la solenne promessa fatta ad uno specifico popolo in un dato momento della storia; Dio non fa richieste specifiche a coloro che sceglie di tenere vicini in seguito a tale promessa; Dio non può affrontare in modo adeguato il mondo rivelando la volontà divina, ma deve intervenire in modi più "sottili" o in modi diretti.
Il cristiano non crede in affermazioni come questa: Dio ha bisogno di essere convinto dalla nostra virtù ad amarci o ad agire nel nostro interesse; Dio è un individuo con una personalità paragonabile a quella dell'essere umano; Dio è metafisicamente incapace di agire come essere creato e dipendente; l'azione di Dio non può avere un impatto sui processi fisici.
E il musulmano non crede in affermazioni come queste: Dio è la sintesi di diversi e distinti agenti divini (che siano molti o anche solo tre); Dio vuole che il progetto divino sia realizzato solo nella vita di un segmento limitato della società o dell'umanità; Dio lo si conosce grazie ad un complesso di approssimazioni umane alla verità.
Come apparirà chiaro, in queste affermazioni vi sono delle sovrapposizioni; e tutte e tre le tradizioni concordano nel non credere che Dio sia uno degli oggetti che esistono nell'universo, soggetto al tempo e al cambiamento come gli esseri finiti, che condivida lo stesso territorio concettuale degli agenti limitati che ci sono familiari. Anche se il cristianesimo e l'ebraismo hanno sempre di più cercato di dare spazio alle immagini di vulnerabilità e sofferenza nella vita divina, si tratta tuttavia di uno sviluppo moderno la cui relazione concettuale con la struttura classica delle religioni è piuttosto complicata. Le potenti metafore devozionali richiedono un trattamento cauto in questo contesto, e non dovrebbero oscurare una delle più profonde convergenze esistenti tra le fedi abramitiche - ed anche tra queste fedi ed altre - in base alla convinzione che Dio non è un membro di alcuna classe di esseri esistenti.
Detto questo, tuttavia, i rispettivi sistemi di non credenza che ho rapidamente schematizzato pongono sfide ugualmente significative gli uni agli altri. Di fronte alle non credenze di altro genere, ognuno dei tre partecipanti alla conversazione abramitica dovrebbe essere spinto a chiedersi se il Dio in cui gli altri non credono sia il Dio in cui loro credono. Se la risposta fosse un semplice sì, il dialogo sarebbe ben più difficile di quanto è; la realtà del dialogo suggerisce che in realtà non abbiamo a che fare con un semplice "ateismo rispetto agli altri modelli di Dio. E parte del fascino e del significato spirituale del dialogo è la scoperta di come le rispettive visioni vengano arricchite dalle sollecitazioni esterne. È il cristianesimo ciò che l'ebraismo come tale nega? L'affermazione della fede cristiana è identica alla negazione di ciò che gli ebrei credono come ebrei? E lo stesso con l'Islam; una delle fasi più oscure e tragiche della nostra storia in rapporto alle altre fedi ("nostra" nel senso, qui, della storia di tutte le fedi abramitiche) è la costruzione dell'altro come avversario. Per riprendere un'idea che ho cercato di sviluppare altrove, dobbiamo porci alle spalle un'immagine del mondo religioso in cui ognuno è visto alle prese con le stesse domande; cosicché che i rispettivi "punti di vista" delle diverse tradizioni possono essere catalogati in termini di risposte giuste o sbagliate a queste domande. Le opposizioni binarie qui non ci servono a nulla.
Ciò che propongo è che vi sia qualche analogia tra il significato delle particolari non credenze sull'autocomprensione del discorso religioso in generale e il significato delle "non credenze" degli specifici discorsi religiosi l'uno per l'altro. Non esiste un sistema di "ateismo" globale: vi sono negazioni di dottrine specifiche per vari motivi, e l'esame di quali sono i punti di difficoltà nell'esposizione di queste dottrine ci permette in modo molto significativo di testare i vari aspetti del nostro universo di credenze e, idealmente, di emergere con una padronanza più consapevole di quegli aspetti. Ma allo stesso modo, la conversazione tra le tradizioni di fede può talvolta dare l'impressione che parte dell'essenza di una religione sia il suo non credere nel Dio che si suppone rivelato in un'altra; cosicché le opposizioni binarie dominano i nostri comportamenti. Trattiamo queste non credenze - ecco la mia proposta - come potremmo trattare l'ateismo: con immaginazione e sensibilità; vale a dire, cercando di vedere perché ciò che viene negato viene negato e se quella negazione viene rivolta contro ciò che un'altra tradizione in realtà rivendica. E alla luce di questo, cercare di scoprire ciò che la propria tradizione esige e il modo in cui risponde alla legittima critica dall'esterno, critica che spesso (come nel caso della mutevolezza di Dio) può essere sollevata anche all'interno della tradizione originaria. Ciò che emerge frequentemente è un mondo concettuale, immaginativo in cui alcuni interessi positivi delle diverse tradizioni vengono considerati comuni.
Ma questo non significa assolutamente condannare il dialogo interreligioso al compito sterile ed astratto, così spesso attribuitogli, di identificare un nucleo comune di credenze. L'esercizio che ho descritto non riguarda l'individuazione di un nucleo comune; riguarda l'individuazione di un linguaggio adatto in cui la differenza sia qualcosa di cui parlare e non una scusa per una separazione violenta. Come in un incontro con gli atei è talvolta possibile afferrare il senso positivo o le ragioni che conducono un ateo a rifiutare ciò che lui o lei immagina essere Dio, cosicché la conversazione non finisce semplicemente nell'affermare o negare, lo stesso accade qui. Non dobbiamo certo cercare un nucleo comune di credenze tra credenti ed atei, quanto piuttosto un linguaggio in cui riconoscere e comprendere la differenza. E nel dialogo interreligioso, continuiamo a fare le rivendicazioni che derivano dalla convinzione della verità, ma cerchiamo di abbattere la presunzione che tutto si riduca al dire sì o no ad una serie di semplici affermazioni. Solo sull'onda di un tale atteggiamento il dialogo può procedere; esso non si realizza quando il "nucleo comune" è all'opera, perché la premessa nascosta è che ciò che è comune deve per forza essere ciò che conta, nel qual caso, la differenza non è così interessante, dal punto di vista intellettuale o spirituale. Né si verifica quando la relazione tra le fedi viene vista come relazione tra una serie di risposte corrette e diverse serie di risposte sbagliate.
Questa lettura è iniziata come riflessione sul carattere sfuggente del termine "ateismo", e sulla necessità di opporsi all'elevazione dell'ateismo a livello di un sistema, pericolo, questo, che è stato molto dibattuto nel Regno Unito nei mesi passati. Ma più riconosciamo il significato variegato dell'ateismo, più importanti appariranno le negazioni fatte dagli atei come modo per comprendere più a fondo che cosa le dottrine e gli impegni comportano e non comportano. E sulla base di ciò, siamo passati a prendere in considerazione le negazioni, le non credenze di alcune tradizioni religiose, negazioni spesso ritenute (sia all'interno che all'esterno di una tradizione) necessariamente collegate al rifiuto della verità di un'altra fede, visto come un sistema costruito sulla base di ciò che una tradizione o un'altra negano. Permettere agli schemi dell'ateismo di essere esaminati come più di una semplice elaborazione di una singola negazione, e permettere alle fedi di essere esaminate come più di una mappa di reciproche esclusioni e incompatibilità sono due cose intimamente connesse. Di qui il suggerimento, dopo tutto non così paradossale, che possiamo imparare di più come comprendere gli altri credenti se impariamo a comprendere i non credenti. Se entrambe le imprese ci riporteranno ad un apprezzamento delle risorse e della complessità che la nostra fede ci offre e allo stesso tempo ci chiede, in modo tale da essere sempre più fiduciosi nel dialogo, non avremo perso il nostro tempo.
(da Adista n. 40, 29 maggio 2004)