Per conoscere il giudaismo
di Paolo De Benedetti
Prendiamo le mosse da un fatto puramente linguistico: la lingua italiana ha la fortuna - che è anche una sfortuna - di avere, a proposito del fenomeno ebraico, una grande quantità di vocaboli che rappresentano delle realtà diverse. La sfortuna è che questi vocaboli vengono usati generalmente a sproposito.
Proviamo ad elencarli, a impostare storicamente il discorso: ebreo - ebraico; giudeo - giudaico; israelita - israeliano; ebraismo - giudaismo.
Questi vocaboli, sostantivi e aggettivi, non descrivono la stessa realtà; eppure l’oscillazione linguistica è continua, soprattutto in quel che riguarda gli aggettivi. Si pensi alla differenza tra ‘ebraico’ ed ‘ebreo’ e anche tra ‘giudaico’ e ‘giudeo’, per i quali di solito giornali e libri non fanno alcuna distinzione: la distinzione c’è ed è la seguente: tranne eccezioni trascurabili, l’aggettivo ‘ebreo’ o ‘giudeo’ si riferisce a persone; l’aggettivo ‘ebraico’ o ‘giudaico’ si riferisce a cose (es. ‘lingua ebraica’, un ‘bambino ebreo’). Ci sono poi realtà intermedie, per le quali si può usare l’una e l’altra forma (es. ‘una famiglia ebrea’, ma anche ‘una famiglia ebraica’).
Che cosa vuole distinguere la lingua italiana quando usa ‘ebraismo’ piuttosto che ‘giudaismo’, e quindi ebreo o giudeo, ebraico o giudaico? Non è che la lingua italiana abbia inventato qualche cosa nella realtà ebraica: sa solo con maggior finezza rispetto ad altre lingue denotare diverse realtà.
Si pensi, per esempio, ad Abramo: nella Bibbia è chiamato ‘l’ebreo’. Sarebbe un grave errore se noi dicessimo che era ‘giudeo’. Analogamente la religione di Abramo si può chiamare ‘ebraismo’ ma non ‘giudaismo’; la religione professata da Gesù, può essere invece definita sia ‘giudaismo’ sia ‘ebraismo’.
La fede degli ebrei di oggi si può del pari chiamare sia ‘ebraismo’ sia ‘giudaismo’. Non solo, ma se io vado in Israele e mi aggiro nel deserto che c’è intorno a Gerusalemme, mi trovo nella Giudea; ma se vado a Nazaret, sono in Galilea. Allora un abitante della Giudea è giudeo in un modo ancora diverso; un abitante della Galilea non è, geograficamente, un giudeo ma un galileo. Gesù era in tal senso galileo (anche se nato a Betlemme, ma vi era nato per caso, se vi era nato).
Premessa questa analisi, fonte inevitabile di complicazione, è necessario vedere ora quali sono le linee storiche entro cui va compreso un fenomeno che solo schematicamente possiamo chiamare ‘religione’ o ridurre al termine religioso. Fenomeno che va da un’epoca remotissima di cui la Bibbia ci dà testimonianza, ma di cui la storia ci dà solo sparse indicazioni: l’epoca dei patriarchi.
Tale fenomeno religioso attraversa una evoluzione che fino a un certo punto è testimoniata dalla Bibbia, ma continua nel tempo e giunge fino a noi. Questo intero arco, noi lo possiamo chiamare ‘ebraismo’.
L’origine della parola ‘ebreo’ è un problema non del tutto chiarito. Atteniamoci solo ai dati biblici: Abramo è chiamato ebreo dalla Bibbia (Gen 14, 15), perché un antenato di Abramo si sarebbe chiamato Eber (Gen 11, 14-17); perciò da Abramo a oggi e a domani, questo mondo religioso che discende dal ‘padre’ Abramo, si può chiamare ‘ebraismo’, e quindi, in tutte le sue fasi, chi lo professa può chiamarsi «ebreo».
A un certo punto della storia biblica noi apprendiamo che gli ebrei-giudei sono stati deportati in Babilonia nel 587 o 586 prima dell’era volgare.
Gli ‘ebrei-giudei’, perché dopo la morte di Salomone, intorno al 922 (2 Re 25), il regno unitario si era spezzato in due: nel nord il regno d’Israele, nel sud il regno di Giuda, con capitale Gerusalemme. Il regno d’Israele venne spazzato via dagli assiri nel 722 a.e.v., e gli ebrei che abitavano questo regno, che quindi in senso proprio e letterale sono chiamati israeliti, cioè abitanti del regno d’Israele, vennero deportati o assimilati e di loro si persero le tracce. Perciò dopo il 721 e fino al 587/586 a.e.v. gli ebrei erano ormai solo gli abitanti del regno di Giuda, che si chiamava così perché era limitato alla Giudea, sede della antica tribù di Giuda. Essi erano gli unici ebrei identificabili come tali (se possiamo esprimerci così). Questi ebrei-giudei vennero in parte deportati da Nabucodonosor in Babilonia, ma non disparvero, tanto è vero che circa cinquant’anni dopo, nel 538, cominciarono, col permesso del re di Persia, a ritornare.
Durante l’esilio (la cosiddetta ‘cattività babilonese’) il loro modo di credere e la loro religione si erano profondamente mutati: il Tempio era stato distrutto da Nabucodonosor, e quindi gli esuli dovettero organizzare la loro vita religiosa senza un Tempio e senza tutto quello che si faceva nel Tempio (sacrifici, pellegrinaggi, feste ecc.). Ecco perché, riferendosi al periodo che va dal 587/586 o, se vogliamo, dal 538 a oggi, si parla anche, in alternativa a ‘ebraismo’, di ‘giudaismo’: il termine definisce allora il mondo spirituale, la religione di quei giudei, ossia di quegli abitanti del regno di Giuda deportati e poi tornati, che durante l’esilio avevano profondamente meditato sulla propria fede e sulla propria storia, avevano ripensato le tradizioni e le avevano redatte per iscritto, e di conseguenza avevano trasferito l’epicentro della loro vita religiosa dal sistema che vigeva nel Tempio di Gerusalemme a un altro: culto della Parola di Dio, liturgia della Parola, studio della Parola. Ecco perché è conveniente, in un certo senso, parlare di giudaismo solo dall’esilio in poi: perché è una trasformazione (non un capovolgimento) della fede d’Israele in un modo che sarà definitivo, anche se nel 515 ca. verrà consacrato il nuovo Tempio. Il cuore pulsante e vivo dell’ebraismo, progressivamente, non sarebbe più stato il Tempio, ma il culto consistente nel leggere, studiare e predicare la Scrittura, nel recitare le preghiere e i salmi, nei molti luoghi di culto, che si chiameranno, dal greco, ‘sinagoghe’ (in ebraico bet ha-keneset, ‘casa di riunione’).
Il passaggio dall’ebraismo pre-esilico al giudaismo rappresenta però anche il passaggio da un ceto, da una categoria religiosamente dominante a un’altra: dai sacerdoti, che nell’ebraismo si trasmettono il sacerdozio di padre in figlio nella famiglia di Aronne, e avevano l’esclusiva sul Tempio di Gerusalemme, a un altro ceto di laici, che nella Bibbia sono chiamati soferim, ‘scribi’ (scribi, nel senso che erano esperti nella Scrittura, dottori della Legge), da cui si sviluppa intorno al II secolo a.e.v., tra varie altre correnti, una categoria di dotti così ingiustamente vituperata e invece così importante anche per il cristianesimo: quella dei ‘farisei’. Gli scribi di formazione farisaica spesso provenivano dalle classi umili - più vicine al popolo, mentre i sacerdoti di Gerusalemme erano aristocratici, legati al potere, spesso ricchi - e si mantenevano, come san Paolo che dal fariseismo proveniva, con il proprio lavoro.
Se, alla luce di quanto si è detto fin qui, vogliamo periodizzare l’ebraismo, possiamo proporre alcune date fondamentali:
- 587/586 a.e.v.: distruzione del Tempio di Salomone a opera di Nabucodonosor e deportazione dei giudei;
- 538 a.e.v.: inizio del ritorno (editto di Ciro);
- 70 e.v.: distruzione del secondo Tempio a opera di Tito. Da questo momento la classe sacerdotale che dai Vangeli e da altre fonti ci è nota con il nome di ‘sadducei’ rimase, se così si può dire, scavalcata dalla storia.
Non bisogna però credere che nell’ebraismo non vi siano più stati sacerdoti: ci sono, se non altro perché hanno continuato ad avere figli e nipoti; ma poiché il sacerdozio era funzionale al Tempio di Gerusalemme, dopo il 70 i sacerdoti nella vita religiosa ebraica hanno conservato qualche piccolo onore e qualche piccolissima partecipazione rituale, ma nulla di più.
Un’altra data fondamentale nella storia ebraica è il 1492. Non è la scoperta dell’America: è il gherush, la cacciata degli ebrei dalla Spagna. Tale cacciata porta un tale rivolgimento nel mondo ebraico da ridisegnarlo diversamente, con risvolti tragici, e mutamenti culturali ed economici rilevanti, tali che l’ebraismo di oggi, in un modo o nell’altro, è dipendente da questa data.
(pubblicato in Introduzione al giudaismo, Brescia, Morcelliana, 1999, pp. 9-12.)