Ecumene

Giovedì, 22 Luglio 2010 18:01

Cina. Il monastero di Shaolin (Hervé Bruhat)

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Nella provincia di Henan, la regione più povera della Cina, il tempio di Shaolin attira un fiume continuo di pellegrini buddisti. Conosciuto in Occidente per la pratica delle arti marziali, in Asia è dotato di una fama ben diversa: forte di una storia di 1500 anni Shaolin è la culla dello zen.

Nella provincia di Henan, la regione più povera della Cina, il tempio di Shaolin attira un fiume continuo di pellegrini buddisti. Conosciuto in Occidente per la pratica delle arti marziali, in Asia è dotato di una fama ben diversa: forte di una storia di 1500 anni Shaolin è la culla dello zen.

Situato nella Cina centrale, sulla vetta del monte Song, a picco sul bacino del fiume Giallo, Shaolin deve il suo nome alla foresta che lo ospita, uno scrigno che unisce scogliere scoscese di granito verde, laghi trasparenti e alberi millenari. La forza di questo paesaggio in cui la natura si declina tra armonia e potenza non sfuggì ai primi saggi taoisti. In cerca delle cinque montagne sacre corrispondenti ai cinque elementi che costituiscono l’universo, essi riconobbero il monte Song come il punto centrale, il simbolo della terra. Molte dinastie di imperatori vennero perciò a raccogliervisi  e a edificare dei templi.

Fondato nel 495 dall’imperatore Xiao Wen, quello di Shaolin si compone di quattro strati che si innalzano gli uni al di sopra degli altri, ognuno dei quali è suddiviso in varie terrazze. Ma, a parte alcuni ruderi del muro di origine, conservati come reliquie preziose sotto una custodia di vetro, gli edifici più antichi, sulle terrazze superiori, datano dalle dinastie Ming (1368-1644) e Qing (1644-1911).

Il percorso iniziatico compiuto dai pellegrini comincia alla porta del tempio, oltrepassata sotto lo sguardo terribile dei generali Hong e Ha, divinità custodi alte tre metri, e finisce nel santo dei santi, il padiglione dai Mille Budda, gioiello architettonico ornato di affreschi che rappresentano i cinquecento arhat (luohan in cinese), discepoli risvegliati del Buddha. Nei due primi cortili si innalzano delle stele, centinaia delle quali sono sostenute da gigantesche tartarughe  di pietra: sono i Bi Xi, i figli del drago re, animali mitologici che incarnano la longevità. Più avanti due torri che ritmano la vita quotidiana di ogni monastero cinese: la torre della Campana, a est, che suona al mattino, e la torre del Tamburo, a ovest, che risuona la sera. Al di là si estendono due grandi edifici rossi sormontati da un doppio tetto ricurvo dalle tegole verdi: la sala del culto, dove troneggiano i buddha dei Tre Mondi (passato, presente, avvenire) e la biblioteca dei testi buddisti, che raggruppava un tempo 5480 opere classiche, in gran parte distrutte nel 1928 da un incendio criminoso. All’inizio degli anni ’90 altri monasteri hanno fatto dono alla biblioteca di alcuni loro preziosi manoscritti.

La leggenda di Bodhidharma

Il monastero Shaolin si iscrive nella tradizione del Mahayana, il Grande Veicolo del buddismo. Esso raggruppa così dei padiglioni dedicati ai bodhisayyva, gli esseri di compassione che hanno rinunciato per un tempo al nirvana, per accompagnare i fedeli nel loro progresso spirituale. Fra loro Dizang che libera dai tormenti dell’inferno, Guanyin che personifica l’ideale materno, o ancora Wenshu che rappresenta la sapienza e il potere dello spirito. Il penultimo padiglione è consacrato al fondatore dello zen, il monaco indiano Bodhidharma, considerato come un buddha a parte.

Originario del sud dell’India, descritto come un gigante irsuto dagli occhi blu, Bodhidharma fa parte dei monaci erranti che hanno fatto la scelta, alla fine del sec. v, di recarsi da solo in Cina, a rischio della vita, per diffondere la parola del Buddha. Al suo arrivo è ricevuto a Nanjing dall’imperatore Liang Wu Di. Fervente buddista, questi è arrivato fino a farsi ordinare monaco, a costruire centinaia di templi e soprattutto a organizzare le imprese titaniche di traduzione delle sutre indiane. Enumerando le sue pie azioni, egli si aspetta segretamente da Bodhidharma un segno di riconoscenza, ma è sconcertato dalle parole dell’eremita: “Non si tratta qui che di azioni minime e illusorie.  Il solo atteggiamento virtuoso e meritorio consiste nel purificarsi interiormente, nel giungere alla sapienza, nel divenire vuoto di ogni attaccamento al mondo”.

Per provare il suo asserto, Dodhidharma abbandona gli onori di una corte che gli è completamente devota per portarsi a Shaolin, dove sotto la giurisdizione del nuovo imperatore della dinastia del Nord, i buddisti sono perseguitati. Là non prende parte a nessuna battaglia, non si dà a nessun certame oratorio, ma compie un atto di portata universale, esattamente l’illustrazione della non violenza. Per nove anni vive ritirato in una grotta che sovrasta il monastero, passando le giornate immobile, seduto con la schiena diritta, la gambe incrociate, i sensi orientati verso l’interno, nel solo intento di pacificare il suo spirito. Lascia così in eredità alle generazioni future la tecnica chiave dello zen: la meditazione di fronte al muro. Pronunciato chan in cinese, la parola zen significa meditazione.

La saga dei bonzi marziali

La figura del monaco combattente è centrale in Cina e fin dal VI secolo sono ricordati fatti di bravura a Shaolin. Si racconta in particolare che un maestro del chan riusciva, con un solo salto, a polverizzare le travi del soffitto con la sua testa. Gli affreschi del padiglione dell’Abito bianco illustrano anche l’episodio in cui tredici monaci salvano il futuro imperatore Taizong (626-649) dalla rivolta ordita dal generale Wang Shichong. Nel secolo XVI si ritrovano i bonzi di Shaolin armati di pesanti bastoni di ferro al fianco del generale Qi Jiguang nella lotta contro i pirati giapponesi. Nel 1920 un monaco di Shaolin di nome Henglin neutralizza una banda di predoni che devastano la regione. Vi è infine Xu Shiyu, ammesso in monastero come novizio all’età di 6 anni, che si arruola nell’armata rossa e diventa un eroe del regime comunista.

La presenza di allenamenti nelle arti marziali in un tempio consacrato a una religione che proibisce la violenza può apparire paradossale. Eppure in tutta la storia delle arti marziali cinesi, che comincia dalla dinastia degli Zhou (1020-249 a.C.) si trova un desiderio di padroneggiare la forza bruta, di temperare il furore delle armi. Fin da quel tempo si considera il kung-fu come un ramo della medicina. In tempo di pace la sua pratica è destinata ad aumentare la longevità, considerata come un segno di virtù. La conoscenza dei famosi punti vitali (naxue) permete di neutralizzare un avversario, ma anche di donare la guarigione. Alcuni esercizi come la Camicia di ferro – sempre insegnata a Shaolin, che mira a proteggere le viscere -  si associano a tecniche di respirazione qina) o di meditazione (daoyin).

E a sua volta lo zen influenza le arti marziali promovendo lo stato di vuoto mentale in cui “il praticante, spogliato del suo io, non fa più che uno con il miglioramento della sua abilità tecnica”. Così si deve interpretare il kung-fu dei monaci come una forma di meditazione in movimento e rileggere il messaggio delle arti marziali di Shaolin alla luce di una tradizione spirituale che fa del corpo il primo pilastro della ricerca della perfezione: l’evoluzione del corpo e quella dello spirito sono intimamente legate.

Un nome usurpato

Sotto la dinastia dei Song (960-1279) il tempio di Shaolin gestiva molte terre nei dintorni e riuniva più di 2.000 monaci. Oggi la comunità non conta che un centinaio di bonzi, dei quali solo una trentina si dedica alle arti marziali. Ma non lontano di qui qualche cosa come 80 scuole di kung-fu hanno visto la luce. Alcune formano delle vere città e accolgono fino a 10.000 alunni. Se tutte si riferiscono a Shaolin, queste scuole private non hanno di fatto alcuna filiazione con l’illustre monastero. In occidente molti cartelloni di spettacoli utilizzano il suo nome, mentre non vi partecipa nessun monaco del tempio. Sperando di sopprimere questo abuso, Xi Yong Xin, il superiore del monastero, ha intrapreso delle procedure per far iscrivere il kung-fu di Shaolin nel patrimonio immateriale dell’Unesco.

Hervé Bruhat

(da Le monde des religions,  n. 29, pp. 42-44)

 

Letto 7360 volte Ultima modifica il Domenica, 28 Gennaio 2018 15:55
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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