Una immagine largamente diffusa è quella dell’eremita buddhista. Più di recente in Occidente, con l’arrivo dei religiosi tibetani verso la metà degli anni settanta, il ritiro chiamato “dei tre anni” ha acquistato una forma innegabile di popolarità e notorietà. Ma di che cosa si tratta, se sappiamo che il Buddha ha condannato l’ascesi dopo averne fatto l’esperienza al punto di rasentare la morte? Quale posto è riservato a questa pratica che può sembrare estrema?
Il ritiro implica di ritirarsi dal mondo non per distorgliersene, ma per creare le condizioni ottimali al fine di ricevere e praticare un insegnamento. Per questo, fin dai tempi del Buddha, sono stati naturalmente istituiti i ritiri della stagione delle piogge, in estate, che consentivano ai monaci e alle monache di riunirsi per ascoltare il Buddha che insegnava, ma anche per condividere le loro esperienze. Il principio di ritiri annuali e collettivi dei religiosi è stato conservato in tutte le tradizioni buddhiste e si è conservato fino a oggi.
Anche il ritiro solitario è stato sempre di attualità. Se si tratta, mediante una pratica spirituale intensa, di liberarsi della fiducia in se stessi, sarebbe falso affermare che vi sia un solo modo di arrivarvi e ciò denoterebbe un fortissimo dominio del sé.
Tutti possono dunque essere indotti a ritirarsi dal mondo, nella misura che vi si è autorizzati da un maestro competente. Il faccia a faccia che il ritiro implica può infatti conoscere delle fasi difficili e soltanto il maestro spirituale può giudicare della capacitò del discepolo a incontrarle. Inoltre fare molti ritiri non garantisce né la loro qualità, né la loro riuscita e non ci si può aspettare nessun titolo e nessuna gloria. Lo scopo non è questo.
L’impronta degli eremiti
Ritiro di gruppo o ritiro solitario non corrispondono necessariamente allo stesso tipo di individuo o allo stesso tipo di pratica. Ugualmente il numero e la durata delle sedute variano secondo il ritiro. Vi possono essere quattro o anche sei sedute nelle ventiquattrore, sapendo che certe meditazioni devono essere compiute esclusivamente di notte. La stessa durata del ritiro può variare da un giorno a vari anni.
Nel Tibet è molto forte l’impronta lasciata da eremiti come Milarepa (1040.1123) che è vissuto in ritiro una quarantina d’anni. Ma non ci si inganni: i ritiri che ha effettuato durante la metà della sua vita non implicavano necessariamente una rottura completa con il mondo. Infatti una volta che lo spirito si è fatto stabile e aperto, il ritiro è anzitutto una postura interiore che consente, per riprendere una espressione cristiana, di essere “nel mondo senza essere del mondo”. Vivere ritirato non è dunque un fine di per sé, né la conclusione del cammino. In questo senso Milarepa l’asceta, in apparente contraddizione con l’avvertimento del Buddha che mostrava una Via dolce, al di là degli estremi, si colloca esattamente sulla strada indicata.
Una delle modalità di ritiro più conosciuta in Occidente è il ritiro detto di “tre anni, tre mesi, tre giorni”, che nonostante la sua notorietà non è praticato da tutte le tradizioni. Questi ritiri collettivi sono stati organizzati nel sec. XIX da Jamgon Kongtrul (1811.1899) in modo di permettere ai praticanti di conoscere l’insieme dei punti essenziali dell’insegnamento del Buddha. Dal 1976, anno del primo ritiro di questo tipo in Occidente, centinaia di uomini e donne ne hanno compiuto uno o diversi.
Nel 1980 Christian Bruyat ha iniziato il suo ritiro al centro di Chanteloube in Dordogne.
Intervista raccolta da F. L.
A quale età e in quali circostanze ha scoperto il buddhismo?
Giovanissimo ero attirato dall’Oriente e affascinato dalla sua spiritualità. Nato in una famiglia cattolica poco praticante, sono stato al catechismo, ma quello che diceva il prete non mi accontentava. Nipote di militari, mi hanno mandato per sette anni in una scuola preparatoria a Saint-Cyr, dove la sera praticavo lo yoga di Patanjali dietro un tenda. Ho provato lo zen e, alla maggiore età, ho lasciato l’esercito, ma ho fatto l’Écôle Normal Supérieure per rassicurare la famiglia. A 20 anni ho visto le Message des Tibètaines, un film di Arnaud Deskardin: fu la rivelazione. Durante le vacanze sono andato a Darjeeling in India e sono rimasto là nove mesi. Ho incontrato un grande maestro, Kangyur Rimpoché. Io non parlavo ancora il tibetano, lui non conosceva né inglese né francese, comunicavamo pochissimo, attraverso suo figlio. Ma bastava: la sua presenza era talmente diversa dall’ordinario che ho sentito che aveva la chiave, la capacità di aiutarmi a trovare un senso all’assurdo della vita. Mi ha consigliato di incontrare Matthieu Ricard, dicendomi: “Va’ a trovarlo, è tuo fratello”. Quando ho visto Matthieu, che allora era a Parigi, ho subito avuto l’impressione di conoscerlo da sempre.
È allora che ha preso la decisione di fare un ritiro di tre anni, tre mesi e tre giorni?
Dopo il servizio militare che ho fatto in India, nell’ambito della cooperazione, sono venuto in Dordogne, dove uno dei figli di Kagyur Rimpoché, dopo la morte di suo padre nel 1975, ha riunito intorno a sé alcune persone per costruire un centro di ritiro nel luogo detto Chanteloube. Quando sono finiti i lavori, ci ha decretato: “Adesso voi rimanete dentro!”. Mi sono detto: “Perché no?”. Era un’occasione unica per approfondire la via che avevo scelto. Ne avevo per tre anni, tre mesi e tre giorni: l’impegno era automatico. Era il 1980.
Su trattava di un impegno formale comportante dei voti?
Era un impegno morale. Eravamo 23, un po’ meno ragazze che ragazzi. Dormivamo in edifici separati per evitare di dover costruire una maternità! Ma durante la giornata mangiavamo e ricevevamo gli insegnamenti insieme Tre anni dopo eravamo 22: uno solo aveva fallito.
Come si svolge la giornata in un ritiro?
Un gong ci svegliava alle quattro del mattino. Ci si lavava rapidamente e ci si dava a due ore di meditazione. C’è una grande varietà di pratiche che vanno dalla più semplice meditazione silenziosa alle visualizzazioni più complesse, passando per le pratiche sulle energie del corpo. Il ritiro permette di impararle, di provarle, di vedere quale conviene meglio a ciascuno. Alcuni fra noi sono stati più attirati dallo yoga tibetano – di cui l’insegnamento è confidenziale e che permette la padronanza dello spirito attraverso quella dell’energia. Altri hanno preferito le pratiche mentali, elaborate o non elaborate. Verso le 6 ci si riuniva nel tempio per meditare, recitare preghiere e mantra, quei suoni che si ripetono e che hanno un potere di protezione sullo spirito, che mantengono il “fuoco della meditazione”. Facevamo anche delle offerte simboliche dedicate al bene di tutti gli esseri. Dopo prendevamo insieme la prima colazione.
Potevate parlare o dovevate custodire il silenzio?
Potevamo parlare, tranne che durante certe pratiche. Dopo la prima colazione. Le giornate erano punteggiate da sedute di meditazione solitaria, ciascuno nella sua cella, di tempi di riposo più o meno lunghi, dall’insegnamento dato dal lama sulle pratiche particolari che si pensava che facessimo e su questioni più teoriche. Alcuni, occorre precisarlo, sono entrati senza conoscere un granché del buddhismo. Poi tutti hanno ricuperato.
Avevate delle giornate di riposo? Delle vacanze?
No, non sapevamo talora neppure che giorno fosse. Vivevamo nel più completo isolamento, dividendo il nostro tempo fra la cella, il tempio e un piccolo giardino. Il ritiro costituisce un’opportunità per tuffarsi nel proprio intimo senza essere disturbati dalle molteplici sollecitazioni della vita corrente. È un’occasione unica per interrompere il flusso delle informazioni nuove e per dirsi che ci si accontenterà di quello che già si ha... E così con tutte le informazioni che nascono dell’interno.
È difficile?
All’inizio è crudele. Nella vita ordinaria abbiamo mille astuzie per distoglierci da noi stessi: il lavoro, la lettura, i film, gli amici. In un ritiro non ci sono più queste grucce, non si può più far altro che guardare se stessi. E quel che si vede, quello che fino allora ci si era forse nascosto, non è sempre piacevole. Il primo anno è il più duro. Tagliati via da tutto, non si ha più quello che costituiva i piaceri quotidiani.
Mi permetta una domanda volgare. Lei aveva 31 anni quando ha cominciato questo ritiro. Gli ambienti, ha detto, erano misti. Ha vissuto in castità?
Naturalmente avevamo dei desideri: desiderio di mangiare bene, di distrarsi e evidentemente desiderio sessuale. Era necessario affrontarlo. Sono stato al gioco e ho cercato di capire – è proprio questo lo scopo ricercato – da dove proviene, come nasce. Ho avuto momenti difficili e le pratiche e le meditazioni mi hanno aiutato a superarli. So che nel gruppo ci sono state all’inizio delle tentazioni, ma credo che nessuno abbia ceduto. All’uscita alcune coppie che erano sposate prima di entrare in ritiro si sono sciolte e al contrario il ritiro ha consentito ad altri di incontrarsi.
Quale è stata la cosa più dura per lei?
Di non vedere quelli che fuori avevano bisogno di me: Mio nonno è morto durante il ritiro e la mia famiglia ha vissuto male la mia assenza al momento dei funerali.
Era stato informato di questi decessi?
Con tre settimane di ritardo. È successo mentre portavamo avanti una pratica molto rigida, nel silenzio, durante la quale avevamo accettato di non ricevere nessuna posta.
Potevate ricevere posta?
A condizione di non passare ore a rispondere: è uno dei tranelli che possono annullare i benefici di un ritiro. Non ricevevamo visite, né chiamate al telefono, non avevamo né radio né televisione. Però ci informavano degli avvenimenti più importanti. Vi sono molti trabocchetti in un ritiro. Per esempio la tentazione di ricrearsi all’interno quello che c’è all’esterno, una specie di vita di villaggio; o anche la paura di immergersi in se stessi, o addirittura gli attaccamenti più difficili a valutarsi, come il fatto di compiacersi di uno stato mentale confortevole legato alla meditazione, cosa che può impedire ogni progresso. I testi parlano allora di attaccamenti con delle “catene d’oro”.
La discesa nel fondo di sé assomiglia a una terapia? Una specie di psicanalisi?
Io la paragono alla grande pulizia di una stanza che non era mai stata pulita. Ho rivissuto episodi dolorosi della mia infanzia, ma so che altri hanno vissuto esperienze differenti. Quando si sono identificate le sporcizie, le “tossine mentali” per riprendere l’espressione di Matthieu Ricard, bisogna scoprire perché nascono continuamente dentro di sé e identificare la percezione della realtà che provoca l’apparizione delle emozioni conflittuali. Si impara allora a lasciar la presa, a superare il senso di dualità.
Questa esperienza l’ha cambiata?
Almeno ha messo il verme nella mela. Non potevo più, dopo quei tre anni, vedere le cose come prima e condurre la stessa vita. L’indomani della mia uscita sono andato in banca per controllare lo stato del mio conto. Guardavo le persone che erano là e mi accorgevo dell’immagine che ci si fa di solito quando si vedono gli altri. Ero incantato. Tale stato di grazia è durato qualche tempo, poi si è attenuato. Che cosa mi resta? Le pratiche che ho imparato e poi una gioia, una leggerezza anche nei momenti difficili della vita. Il “mondo esterno” aveva perduto il suo potere di schiacciarmi. Senza dubbio anche una percezione più acuta della sofferenza degli altri. E una certezza che c’è una verità profonda dietro la superficie delle cose. Forse quello che alcuni chiamano Dio. Il buddhismo non gli dà un nome per la paura di farne un concetto. Detto questo, dopo un periodo di esitazione, ho voluto continuare la mia ricerca. Ho seguito Dilgo Khyentsè Rimpoché e ho vissuto cinque anni fra il Buthan e il Nepal, e ho preso i voti monastici. Poiché la vita monastica non era quella in cui mi trovavo meglio, sono ritornato in Francia, dove mi sono sposato. Ho lavorato. Sono stato per quindici anni guida nell’Himalaya e ho tradotto libri dall’inglese e dal tibetano. Oggi continuo a tradurre e a meditare.
Laurent Deshayes
(da Le monde des religions, n. 30, pp. 40-43)