Alla metà del sec. XX il Tibet ha l’aspetto di una curiosità: rinchiuso su se stesso, paese feudale (cf. p. 27-27), la sua cultura è tuttavia ricchissima e la vita spirituale vi prospera. E se i Tibetani non sono né benestanti né moderni, hanno quel che occorre per mangiare e il loro regime politico è relativamente clemente. Insomma è una nazione relativamente indipendente, anche se ha troppo tardato a farlo riconoscere internazionalmente.
Nell’ottobre 1949, appena la Repubblica popolare di Cina si è stabilita, Radio Pechino proclama l’appartenenza del Tibet alla Cina e annuncia: “L’esercito popolare di liberazione ha ricevuto l’ordine di liberare il Tibet dall’imperialismo straniero” A parte Lhasa, nessuno protesta. Il 7 ottobre le truppe cinesi entrano nel Tibet orientale, L’ONU non interviene, l’India teme di aggravare le sue relazioni con la Cina. All’età di sedici anni l’attuale dalai lama accede al potere il 17 novembre. La sua delegazione, presa in ostaggio a Pechino, si vede costretta a firmare un accordo in 17 punti che pone fine all’indipendenza del Tibet. L’esercito cinese occupa Lhasa nel 1951. Per otto anni il giovane sovrano tenta di negoziare con un potere comunista sempre più repressivo. Nel 1959 la situazione è divenuta insostenibile: nella notte del 17 marzo il dalai lama lascia in segreto il Tibet per l’India, seguito nell’esilio da circa centomila Tibetani. A Lhasa la rivolta è repressa spietatamente. Sono uccisi diecimila Tibetani, e seguono migliaia di arresti e di esecuzioni. I monasteri vengono svuotati dei loro occupanti. Nel 1962 il panchen lama, per aver protestato contro questa politica, viene mandato in un campo di rieducazione. Poi viene la “Rivoluzione culturale”. Dal 1966 le Guardie rosse invadono il Tibet e distruggono sistematicamente quasi il 95 % del suo patrimonio religioso: statue, testi sacri, monasteri e templi. Si stimano al 95 % le distruzioni avvenute. Si moltiplicano arresti in massa di religiosi, torture, sedute pubbliche di autocritica. L’orrore non cessa che nel 1967, dopo la morte di Mao. Circa un milione di Tibetani sono stati uccisi. Nel 1968 il panchen lama viene liberato e una timida apertura ai primi turisti rompe l’isolamento del Tibet. Alcuni templi vengono restaurati e la libertà religiosa rinasce
Retate e legge marziale
Ma il 27 settembre 1987, sotto gli occhi di turisti e giornalisti occidentali, una manifestazione di monaci è repressa violentemente a Lhasa. Gli Occidentali vengono espulsi e le frontiere chiuse. Vi sono dei morti, delle retate e degli imprigionamenti. Scoppiano altre proteste, come nel marzo 1989 e la legge marziale sarà tolta solo nel 1990. Dopo gli anni ’90 si restaurano altri monasteri e si fa sentire una timida speranza. Nel Tibet orientale (Qinghai, Sichuan) i lama, più liberi che nella Regione centrale autonoma, contano persino numerosi Cinesi tra i loro studenti.. Ma molto spesso i monaci non ricevono più la qualità di educazione spirituale di prima del 1950, perché i monasteri sono stati ricostruiti soprattutto a scopo di turismo. Due episodi segnano questo decennio: appena riconosciuto dal dalai lama, il giovane panchen lama (6 anni) è portato via dai Cinesi nel 1955 e scompare. Il XVII karmapa, dopo essere stato intronizzato nel 1992 a Tsurphu (Tibet centrale) evade nel 2000 e raggiunge il dalai lama in India. Durante questo tempo, la necessaria modernizzazione non giova molto ai Tibetani: gli studi superiori sono per loro poco accessibili e soltanto in cinese. Il treno Pechino – Lhasa accelera la colonizzazione da parte dei Cinesi e Lhasa è oggi una città cinese come tutte le altre, in preda alla febbre consumistica. I commerci sono tenuti dai Cinesi e i Tibetani vengono resi poveri e marginali. Mondializzazione e turismo non fanno che accelerare la folklorizzazione e la scomparsa della cultura spirituale tibetana. Per la disperazione sono scoppiate recentemente rivolte un po’ dappertutto nel Tibet e a Sichuan: Il Tibet è ancora una volta chiuso e in preda alla repressione. Tuttavia il dalai lama, premio Nobel per la pace nel 1989, predica instancabilmente di conservare l’atteggiamento buddhista di non-violenza riguardo ai Cinesi, l’unico che alla lunga possa portare speranza. La situazione del buddhismo nel Tibet è dunque sotto stretto controllo politico e lascia poche prospettive per l’avvenire. Ma che ne è nell’esilio e in Occidente?
Il terreno di incontro è stato preparato da racconti come quello di Alexandra David.-Néel. Ma la tragedia tibetana e l’afflusso dei lama rifugiati in India coincidono soprattutto con la profonda crisi di valori che scuote la gioventù occidentale dagli anni 1960. Sulle strade per Katmandu, giovani occidentali scoprono i lama rifugiati. La ricerca degli uni e la precarietà degli altri facilitano la fondazione dei primi centri tibetani. Chogyam Trungpa si istalla negli Stati Uniti dal 1970.
Il fascino occidentale
Viene la volta di Kalu Rinpoché, poi del XVI karmapa e di molti altri lama che fondano centri di studio e di pratica un po’ dappertutto in Europa e negli Stati Uniti, poi in Australia, nella Nuova Zelanda, in Russia, in America latina e persino in Asia (Taiwan, Indonesia). In India e nel Nepal vengono costruiti numerosi monasteri grazie ai doni degli occidentali. La crescente notorietà del XIV dalai lama svolge un ruolo considerevole in questo slancio di interesse. Ora il buddhismo tibetano domina il paesaggio buddhista occidentale con varie migliaia di centri in tutto il mondo. E in parallelo con questa infatuazione, si assiste alla ripresa degli studi tibetologici dotti negli Stati Uniti, in Giappone e in Europa, spesso guidati da laureati che possiedono una solida conoscenza interna del buddhismo, che mancava ai loro illustri predecessori.
L’avvenire del budhismo tibetano si trova forse in Occidente? Niente è meno sicuro. I suoi valori spirituali possono certo compensare la disperazione di un mondo materialista senza anima, ma le attese degli Occidentali rimangono ingenue. Inclini a consumare buddhismo tibetano “à la carte”, raramente hanno la tenacia necessaria per l’esigente cammino di questa via. Se la grande maggioranza dei lama tibetani offrono sinceramente il loro insegnamento, ve ne sono altri, più cinici o meno scrupolosi, che approfittano della manna occidentale e del fascino di cui sono l’oggetto. Per evitare le delusioni sono necessari degli adeguamenti culturali, senza per questo sacrificare la trasmissione autentica. Da una collaborazione adulta e reciproca dipenderà l’avvenire di questo buddhismo fuori dal Tibet.
Philippe Cornu
(da Le monde des religions, n. 30, pp. 36-37)