Ecumenismo protestante
Capitolo settimo
Cristologia ed ecclesiologia
di Renzo Bertalot
La discussione ecumenica si concentra sempre più sull'esame del rapporto tra Cristo e la Chiesa. La conferenza di Fede e Costituzione, che ha avuto luogo a Montreal nel 1963, aveva prodotto un documento in proposito e lo aveva raccomandato all'esame delle chiese. Con il Concilio Vaticano II il discorso si allarga ed acquista nuove proporzioni interconfessionali. Questi temi richiameranno quindi l'attenzione teologica dei prossimi anni. Per ora non è possibile fare altro che guardarci intorno per raccogliere l'eco di quanto già si è detto e di quanto si sta dicendo. In altre parole, è possibile fare il punto sulla situazione, ma non è ancora possibile qualificarla, nonostante che l'insistenza su di una stessa terminologia sembrerebbe lasciar intravedere l'orientamento delle future linee d'interesse.
Da un punto di vista protestante generale, è utile richiamare innanzi tutto alcune nozioni della dogmatica di Carlo Barth. In particolare accenneremo invece a terni ricorrenti nel nostro ambiente italiano, che sono stati all'origine di diverse perplessità.
Cristologia
Carlo Barth rintraccia, nel corso della sua dogmatica, due linee cristologiche nel Nuovo Testamento: quella che afferma che il figliol di Dio è Gesù di Nazaret, e così facendo esclude ogni tentativo docetico di ridurre l'umanità' del Cristo a mera apparenza, e quella che afferma che Gesù di Nazaret è il Figliolo di Dio, evitando le interpretazioni ebionitiche ed adozionistiche. Questi orientamenti, rispettivamente sottolineati dalla testimonianza sinottica e giovannica, pur non offrendo una sintesi, s'incontrano nel nome di Gesù Cristo e, completandosi, riaffiorano nella storia del cristianesimo. (1) Barth ricorda non soltanto le discussioni dei primi concili della Chiesa, ma anche alcune caratteristiche della cristologia di Lutero, piuttosto statica ed ontologica, e di quella di Calvino, piuttosto dinamica e noetica. (2)
Poiché ci muoviamo, con il nostro pensiero, nel tempo della grazia e non in quello della gloria, la cristologia non può essere altro che un tentativo di prendere posizione di fronte al Cristo nella piena coscienza che ogni nostra formulazione al riguardo conserva un carattere penultimo. (3)
Come è solito fare nei suoi scritti, Barth prende le mosse dalla realtà della rivelazione ed in seguito affronta, come sviluppo logico, il problema della conoscenza. Nel nostro caso egli si pone il seguente interrogativo: «Come l'essere di Gesù Cristo è identico alla libertà di Dio per noi?». (4) È il mistero propostoci con il miracolo di Natale: la Parola è stata fatta carne. La dogmatica è quindi cristologia, poiché la cristologia è tutto o non è niente.
La formula del concilio di Calcedonia (451), circa le due nature del Cristo, vero Dio e vero uomo, interpreta correttamente la testimonianza biblica. (5) Guardando quindi al vero Dio della formula accennata, bisogna tenere presente che il Logos non si trasforma in carne, ma rimane tale. Non si può discernere l'oggettività di Dio nella creatura, perciò l'oggettività di Dio non è presente neanche nell'umanità di Gesù. Tale oggettività rimane un enigma, e il conoscerla è un dono. (6) Il Cristo assume la carne, ma non ne diventa vittima. (7)
Guardando al vero uomo della stessa formula, bisogna poi osservare che l'umanità del Verbo non esiste in sé, ma solo in funzione della rivelazione. Incarnandosi, il Cristo rivendica la natura umana, fa ciò che noi non facciamo e non fa quello che facciamo. (8) Ne consegue che il Gesù storico non può essere oggetto di fede o di predicazione, né si deve tentare nei suoi confronti un processo di divinizzazione, perché si cadrebbe nella Gesulatria. (9)
Riprendendo una ben nota tradizione luterana, Barth afferma che Dio si rivela nascondendosi, stabilendo così un principio che condiziona tutta la realtà sacramentale. (10). Cristo è anzi la «realtà sacramentale», cioè «il segno esemplare dell'attestazione divina» o «il primo dei sacramenti». (11) La realtà sacramentale tuttavia non è identica alla rivelazione, ma ne è al servizio, e può anche esserle di ostacolo. (12)
È evidente il riferimento alla terminologia paolina della prima lettera ai Corinzi, là dove l'apostolo parla del Cristo come scandalo e pazzia. Queste brevissime indicazioni sono sufficienti per riprendere alcune linee fondamentali del pensiero barthiano in stretta relazione con il nostro tema e con la ricerca ecumenica della nostra epoca. Il pensiero del teologo di Basilea si articola in rigorosa coerenza con le dichiarazioni del concilio di Calcedonia. È sempre presente la preoccupazione di non confondere il divino con l'umano e di non separarli.
Ecclesiologia
L'incarnazione è un evento unico e non un inizio, mentre l'affermazione dell'incarnazione mediante l'esistenza dell'uomo Gesù è un inizio che comporta «una continuità sacramentale». L'umanità di Gesù è, infatti, il «primo dei Sacramenti», il fondamento e la somma di tutte le manifestazioni secondarie dell'oggettività divina nella rivelazione, prima e dopo l'epifania del Cristo. (13) L’uomo Gesù è il solo ad essere integrato nell'unità divina. Da questo fatto irripetibile deriva la promessa che altre creature potranno testimoniare l'oggettività divina di cui il Cristo è «il vero rappresentante», e così facendo diventeranno a loro volta quaggiù dei templi, degli organi e dei segni di Dio. «La funzione compiuta dall'uomo Gesù può quindi ripetersi e si ripete effettivamente nella Chiesa...». (14) Ciò esclude chiaramente l'autonomia della Chiesa, e lega strettamente l'ecclesiologia alla cristologia. (15)
Se ora ci poniamo la domanda sul come la rivelazione perviene fino all'uomo, «noi dobbiamo entrare nella dottrina dello Spirito Santo per trovare una risposta adeguata. Senza lo Spirito infatti, ben sarebbe compiuta l'opera di Cristo, ma noi continueremmo ad ignorarla. Se così non è, se la nostra ignoranza è vinta, se la nostra libertà ci è donata, è a causa dello Spirito: realtà soggettiva della rivelazione». (16)
La Chiesa è, per Barth, il quadro di tale rivelazione soggettiva. (17) Possiamo ora affermare che la rivelazione perviene all'uomo mediante dei segni oggettivi che sono dati da Dio, nell'azione dello Spirito Santo. Il valore trascendente del segno proviene dall'incarnazione. Ciò che è avvenuto una volta per tutte si estende per manifestarsi ancora, e così la Parola di Dio si espande nel mondo. (18) I segni svolgono quindi una funzione strumentale, e dimostrano che la Parola di Dio non si è fatta carne invano. (19) Il teologo di Basilea, fedele alle sue meditazioni sull'analogia fidei in contrapposizione alla analogia entis, precisa che l'esser segno o il diventar segno non è una determinazione dalla creatura, ma una qualificazione dalla Parola di Dio. I segni non hanno valore in sé, sono utensili fabbricati per uno scopo. È la Parola che ne rivela il valore trascendente. Dio non è legato al segno. (20) Ritroviamo qui una trasposizione di quanto è stato affermato in sede cristologica circa l'umanità del Verbo.
I segni costituiscono l'aspetto oggettivo della realtà soggettiva dalla rivelazione, e mettono in rilievo il lato oggettivo della Chiesa considerata come il luogo dove la rivelazione divina si compie soggettivamente. I segni proclamano la Signoria di Cristo, non l'istituzione; in altre parole, essi sono e rimangono azione di Dio. (21)
La Chiesa, in quanto luogo e quadro dalla rivelazione, «possiede» l'aspetto strettamente oggettivo di segno: ha cioè un'esistenza ed una storia sue proprie. (22) Riprendendo le indicazioni dalla Confessione di Augusta, Barth afferma la presenza del Cristo e dalla Chiesa unicamente là dove i segni dalla predicazione, del battesimo e della S. Cena esistono secondo l'istituzione apostolica. (23)
Un'adeguata riflessione sui segni può quindi partire soltanto dalla loro esistenza di fatto. (24) I segni o le realtà sacramentali mettono in evidenza il carattere oggettivo della grazia. Il battesimo, per esempio, è il segno oggettivo della riconciliazione. (25) Così pure la Chiesa «per quanto riguarda il suo aspetto oggettivo, deve essere compresa come una realtà sacramentale, cioè in funzione dell'analogia del battesimo e dalla Cena». (26) Cristo è il centro di tutta la realtà sacramentale nella quale possiamo conoscere la rivelazione in una successione di testimonianze che si confermano, chiariscono e condizionano. (27)
Partendo da queste impostazioni del pensiero barthiano non è difficile avviare il discorso sulla Chiesa come sacramento. Non è quindi una sorpresa trovare questa terminologia nel documento citato di Fede e Costituzione. (28) Riteniamo che sia proprio quest'indicazione a riportare la discussione ecumenica intorno alla Chiesa su un terreno più biblico, superando il punto morto al quale si era giunti parlando della Chiesa come istituzione e come evento. Con la nozione di sacramento la ricerca sembra promettere bene in almeno due linee suggerite da Barth stesso: quella di un chiaro riferimento alla cristologia, intesa coma scienza del «sacramento primario», e quella di un esplicito inserimento nella dottrina dello Spirito Santo che lega intimamente l'ecclesiologia e la cristologia.
Chiesa-sacramento
Cerchiamo di precisare maggiormente questo tema avvalendoci ancora una volta delle indicazioni di Carlo Barth. Ciò che è avvenuto una volta per tutte in Cristo si ripete nella Chiesa, e lo scopo di questa ripetizione è l'ut unum sint che mette in luce non un'unità di sentimento o di pensiero, ma un'unità di natura, esattamente come il capo ed il corpo, che, pur non essendo intercambiabili, costituiscono un'unità. Quest'unità è oggetto del nostro credere. (29) Come sarà dunque possibile trattare l'ecclesiologia in stretto rapporto con la cristologia? II teologo di Basilea risponde che bisognerà osservare scrupolosamente la regola di non voler sapere di valori autonomi e indipendenti dell'uomo - fantasmi o mostri nati dal nulla o dalla pigrizia - ma di voler conoscere l'uomo in Cristo soltanto, e quindi la Chiesa nel suo Signore. (30) La Chiesa è contenuta interamente nell'umanità assunta dal Cristo. Essa è il suo corpo celeste, crocifisso e risorto, che esiste ormai nella gloria del Padre. Cristo porta la Chiesa reale nella sua persona e l'attualizza mediante la sua Parola. (31) La realtà invisibile della Chiesa rimane così un mistero che può anche diventare un intoppo. Partecipare all'opera di Cristo significa dunque che ciò che avviene nel seno di Dio diviene realtà per noi nonostante quel che siamo. Ciò che è eterno, l'unità tra il Padre e il Figlio, si riflette nel quadro del tempo. Tale riflesso, suscitato dallo Spirito, è la vita della Chiesa. «Noi partecipiamo all'essere e all'opera di Cristo quando siamo nella Chiesa, quando siamo noi stessi Chiesa». (32)
La Chiesa è una con il Cristo, ma non è il Cristo; (33) essa è sempre mondo. (34) La comunità cristiana vive del Cristo «corpo celeste», di cui essa è la «forma terrestre»: la forma storica dall'opera dallo Spirito Santo. (35)
La Chiesa è una realtà divina ed umana, eterna e storica, visibile ed invisibile di cui l'incarnazione è origine e centro. (36) Realtà invisibile e nascosta nel cielo, essa diviene realtà visibile in questo mondo, nel servizio, nel rinnovamento e nella predicazione della fede. La Chiesa guarda sempre oltre se stessa e, rifuggendo da ogni tentazione autonoma, si nutre della verità eterna che le è specifica in Cristo, dov'essa è nascosta. Così essa vive la sua unità e costituisce la risposta circa la nostra partecipazione all'essere del Cristo. (37)
Questo duplice aspetto della Chiesa ci riconduce al problema cristologico della due nature. Riprendendo quindi la formula di Calcedonia possiamo dire che nella realtà sacramentale che è la Chiesa, non dobbiamo confondere il segno con la realtà da esso significata, ed altresì non dobbiamo separarli l'uno dall'altra.
Altri commenti da parte protestante
Con il Concilio Vaticano II e la Costituzione De Ecclesia, la Lumen Gentium, la nozione di Chiesa come sacramento ritorna ad essere di grande attualità. Se vi dev'essere dissenso, e dissenso certamente vi è, tra cattolici e protestanti, esso non è sulla formula, come ben dimostra quanto siamo venuti esponendo, ma piuttosto sul modo di riceverla nella propria interpretazione ecclesiastica. Bisogna riesaminare le nozioni di sacramento e di segno. È impressione di chi scrive che nelle discussioni ecumeniche dei gruppi misti di sacerdoti e pastori italiani, si ritorni con insistenza a sottolineare l'uso di categorie ontologiche da una parte e di categorie di relazione dall'altra. Si è anche detto che non dovrebbero esservi delle difficoltà ad arrivare ad una chiarificazione in materia, come dimostrano gli studi di Hans Küng e Henry Bouillard, ma la discussione è ferma a quel punto ed è difficile farla avanzare per trarne le conseguenze logiche.
Non è però una semplice questione di linguaggio. Vi sono delle motivazioni profonde che ancora ci sfuggono. In una riunione del Comitato misto, formato dal Segretariato per l'unità dei cristiani e dal Consiglio Ecumenico dalla Chiese, si è accennato ai nuovi orizzonti aperti dalla formula Chiesa-sacramento e si è parlato delle nuove aree di ricerca che essa propone alla nostra generazione teologica. (38)
Intanto può essere utile richiamare alcune dalle posizioni recenti ed attuali.
Da parte protestante citiamo, innanzi tutto, Paul Tillich. Egli cerca di distinguere tra sacramento e sacramentalismo, e vede quest'ultimo nel pericolo classico di un certo cattolicesimo, di identificare la forma e la realtà. Non esita e definirlo: «hybris demoniaca». «La grazia appare attraverso una forma viva (living Gestalt) che rimane in se stessa ciò che è». La forma non è mai tramutata dalla grazia che la elegge. (39)
R. Prenter, luterano, trattando la cristologia di Calcedonia, che fa sua, (40) ci rende attenti ad un approfondimento della problematica in questione. La cooperazione dell'uomo alla grazia fa parte anche della cristologia. Lutero l'aveva rifiutata sulla base della dottrina della giustificazione per fede. Cerchiamo di avvicinarci maggiormente all'argomento. (41) In generale si sente dire che il dissenso tra cattolici e protestanti si concentra sulla figura di Maria, ma in realtà questo argomento non è che un corollario di quello in questione: la cooperazione dell'uomo alla grazia. Si ritorna al tema agostiniano della grazia irresistibile, (42) al sì di Maria, che poteva essere un no nell'interpretazione cattolica, e che non poteva essere altro che un sì nell'interpretazione protestante. Il Prenter ci ricorda che la cooperazione riguarda innanzi tutto le due nature della persona di Cristo. Per Lutero i cattolici davano l'impressione di essere nestoriani, e per i cattolici Lutero appariva come un monofisita. (43)
Ricondotta la discussione a questo livello bisogna rinnovare oggi ancora, secondo il Pranter, il rifiuto protestante al sinergismo. Chi coopera è prima separato dall'altro, mentre Dio e Cristo non lo sono. (44)
Il discorso si approfondisce, ma forse non ancora con la chiarezza desiderata e con l'ampiezza necessaria. Ci troviamo di fronte a dei cartelli avvisatori che ci ricordano il cammino da percorrere e la concretezza dei punti di dissenso, così lontani da quella ritenuta tale tradizionalmente.
Rimane imperiosa, da parte protestante, la necessità di non confondere il mistero significato con il segno significante e di non fare mai del segno l'oggetto della fede. (45) Viene quindi spontaneo il rimprovero fatto ad un certo cattolicesimo, di non rispettare il criterio della cristologia di Calcedonia per quanto riguarda l'immutabiliter e l'inconfuse. Potranno i cattolici rimproverarci con altrettanta franchezza di non rispettare l'inseparabiliter e l'indivise dello stesso criterio?
Altri commenti da parte cattolica
Notiamo innanzi tutto il suggerimento di Y. Congar di affrontare il rapporto Cristo-Chiesa in termini di alleanza anziché nei termini del Concilio di Calcedonia. L'argomento è stato segnalato, in Italia, da Mario Caminetti. (46) Si sente la necessità di evitare scivolamenti verso posizioni monofisite, ma gli orientamenti conciliari e post-conciliari, con il loro richiamo alla nozione di Chiesa-sacramento, non possono che dare nuova importanza al criterio cristologico calcedonense.
Segnaliamo ancora due esempi, Otto Semmelroth e Germano Pattaro, che hanno trattato specificamente l'argomento: la Chiesa come sacramento di salvezza. (47)
Il discorso del primo riesce particolarmente difficile ad un protestante perché è impostato sulla tradizione, è restio nel richiamarsi alla Scrittura e sembra mettersi in partenza fuori dalla ricerca e dall'incontro ecumenico. Il polemista tradizionale vi scopre i tradizionali punti deboli con estrema facilità. Spontaneamente ci si sente dinanzi ad una porta chiusa e si teme di essere incappati in un dialogo di sordi. Tuttavia anche in questo caso si ritrova una nota comune a tutta la tematica in questione. Cristo è il prototipo dei Sacramenti. (48) Il signum è la Chiesa e la res è il Cristo e la sua opera salvifica. (49) Il criterio calcedonense è ritenuto valido anche in ecclesiologia.
Del secondo caso possiamo invece dire che ci offre una prospettiva diversa. Si ritrova la preoccupazione costante del riferimento biblico e dall'apertura ecumenica. Il discorso è cattolico fino in fondo, ma lo si capisce per l'esigenza di confronto con i testi Sacri. Anche in questo caso la terminologia è la stessa. Cristo è il «Segno per eccellenza», il «grande sacramento», il «sacramento primo». La Chiesa è il segno visibile del Cristo invisibile, il Sacramento di Cristo. (50) Interessante il discorso sulla Chiesa: anamnesis, kairos ed escaton del suo Signore. La meditazione non si accontenta certo di posizioni comode perché battute da sempre. La ricerca rivela l'urgenza del nostro tempo ecumenico. Ma appunto questa vicinanza di linguaggio e di intenti lascia capire che il dissenso si cela oltre la forma. Il criterio cristologico calcedonense è diversamente ricevuto nelle tradizioni cattoliche e protestanti, per cui si giunge a dalle nozioni di sacramento che sono discordanti. Bisognerà studiare accuratamente l'uso di questo termine e chiarire così il nostro discorso sulla Chiesa come Sacramento. (51
La Chiesa Madre e Maestra
Veniamo ora ad alcune questioni ecclesiologiche che hanno avuto una certa risonanza nel nostro ambiente italiano. In un passato non molto lontano era valsa l'abitudine di esemplificare la differenza tra cattolici e protestanti facendo notare che mentre i primi, con espressioni trionfalistiche, affermavano che la Chiesa è mater et magistra, i secondi ne riaffermavano i titoli di filia et discipula. Era evidente il richiamo a Lutero: «Ecclesia est filia nata ex verbo, non est mater verbi». Ma se nei confronti della Parola la Chiesa non può, per un protestante, essere definita altrimenti che come filia, è altresì evidente che il discorso si pone in una prospettiva diversa quando si parla del compito della Chiesa. La Chiesa terrestre è, per Lutero, «mater ex qua nos sumus generati et quotidie generamur». (52 Per Calvino la nozione si precisa maggiormente quando parla della Chiesa visibile come madre. «Non v'è altra via per entrare nella vita - scrive, come abbiamo già notato, il riformatore ginevrino - se non con l'essere concepiti da lei, partoriti da lei, nutriti al suo seno e del continuo essere custoditi sotto la sua cura e governo finché saremo spogliati di questa veste mortale» (53)
Ora non si può dimenticare questo tradizionale insegnamento della Riforma. L'apostolo Paolo non ha difficoltà a presentarsi come padre (1 Cor. 4, 15), nonostante le parole del Cristo: «Non chiamate alcuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro che è nei cieli». Quando la Chiesa ammaestra e in essa i dottori esercitano il loro ministero d'insegnamento, quando la Chiesa esorta, richiama ed orienta, essa è mater et magistra. Il dissenso non è una questione di termini. Bisogna andare ai veri problemi, quelli di fondo. La pedagogia protestante è diversa da quella cattolica, e la divergenza è determinata da una diversa impostazione dall'antropologia. Vi è un modo diverso di vedere l'uomo in Cristo, ed è a questo punto che bisogna riandare. Ma fare un discorso di questo genere non significa forse ritornare al tema dalla cooperazione alla grazia e ai suoi corollari? (54)
La Chiesa e lo Spirito
Sempre in materia di ecclesiologia e di terminologia, non si può non rilevare l'importanza data recentemente alla seguente formula di Ireneo: «Ubi enim Ecclesia, ibi et Spiritus Dei; et ubi Spiritus Dei, illic Ecclesia et omnis gratia». (55) Da parte protestante ci si sente facilmente solidali con la seconda parte, che è riecheggiata nella Confessione di Augusta con la sottolineatura «ubi et quando visum est Deo». Si rimprovera invece al cattolicesimo di aver tratto la sua essenza dalla prima parte del detto di Ireneo per interpretarla nel senso di «ubi Petrus ibi Ecclesia»: estrema oggettivazione dello Spirito Santo. Tali contrapposizioni sono dei sintomi delle divergenze inconciliabili esistenti oggi all'interno del cristianesimo. (56) Sarebbe tuttavia affrettato farle risalire ad Ireneo.
Intanto la formula di Ireneo, nella sua interezza, è accolta senza difficoltà anche da parte protestante. (57) Ci si domanda inoltre se è possibile pensare l'esistenza della Chiesa senza fare riferimento allo Spirito Santo. Se esiste una Chiesa che possa essere così chiamata, è evidente che lo Spirito l'ha costituita, se no non esiterebbe. Lutero affermava - lo abbiamo notato - che «la Parola di Dio non è presente senza il popolo di Dio, né il popolo di Dio senza la Parola». R. Prenter commentava giustamente che nel primo caso, Parola senza popolo, vi sarebbe un docetismo della Parola, e nel secondo, popolo senza Parola, un'altra via per conoscere Dio. Lo stesso commento s'addice alla frase di Ireneo. Una Chiesa senza Spirito non sarebbe altro che un'assemblea di uomini, e uno Spirito senza la Chiesa sarebbe uno Spirito diverso da quello presentato nel Nuovo Testamento, sarebbe cioè uno Spirito inefficace ad assente. La formula di Ireneo non è sufficiente quindi per puntualizzare il dissenso.
Da quanto siamo venuti esponendo, si fa sempre più chiara l'indicazione che si tratta in primo luogo del modo d'intendere l'incontro tra Dio e l'uomo, dunque di una questione cristologica ed in seguito ecclesiologica.
Note
1) K. BARTH, Dogmatique I, 2, +, cit., pp. 14ss. e 23ss.
2) Ibidem, p. 158.
3) Ibidem, p. 24.
4) Ibidem, p. 25.
5) Ibidem, p. 122.
6) K. BARTH, Dogmatique II, 1, +, pp. 54s.
7) K. BARTH, Dogmatique I, 2, +, p. 149.
8) Ibidem, p. 143.
9) Ibidem, p. 127; cfr. Dogmatique I, 2, + +, p. 139.
10) K. BAKTH, Dogmatique II, 2, +, p. 54.
11) Ibidem, pp. 53 e 57.
12) Ibidem, p. 54.
13) Ibidem, p. 53.
14) Idem.
15) K. BARTH, Dogmatique I, 2, + +, p. 13.
16) Ibidem, pp. 3ss.
17) Ibidem, p. 18.
18) Ibidem, p. 19.
19) Ibidem, p. 20.
20) Ibidem, p. 20 e p. 27.
21) Ibidem, pp. 23 e 26.
22) Ibidem, p. 23ss.
23) Idem.
24) Idem.
25) Ibidem, p. 27.
26) Idem.
27) Ibidem, p. 61.
28) Fede e Costituzione, Le Christ et l'Eglise, Doc. n. 38, Consiglio Ecumenico delle Chiese, Ginevra 1963, p. 20; J. J. VON ALLMEN, Prophétisme sacramentel, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1964, p. 55.
29) K. BARTH, Dogmatique I, 2, + +, pp. 14 e 16.
30) K. BARTH, Dogmatique II, 2, +, p. 16.
31) Citato da J. De SENARCLENS, Héritiers de la Réformation, II cit., p. 50. Alla luce di queste osservazioni barthiane si ripropone l'esame del totus Christus di Agostino. L'argomento è vivo anche nel cattolicesimo (cfr. Paolo VI in «L'Osservatore Romano» del 23 gennaio 1964). La formula è dunque ricevuta in contesti ecclesiastici diversi. È errato contestarla; è giusto interrogarla maggiormente liberandola da quegli ostacoli che ne impediscono una serena valutazione. Per parte protestante ricordiamo ancora J. DE SENARCLENS, L'Eglise: une christocratie fraternelle et dinamique, in «Foi et Vie», 1-2 1966, pp. 50ss. Egli presenta gli ultimi scritti ecclesiologici di K. Barth. La Chiesa ha due forme: Cristo, il suo Capo celeste, e la sua forma storica terrestre. Non vi sono però due nature, poiché Cristo è Egli stesso l'essere vero ed invisibile della Chiesa.
32) K. BARTH, Dogmatique II, 1, +, p. 159.
33) K. BARTH, Die Kirchliche Dogmatik IV, 2, Zollikon-Zürich, p. 700, citato da J. DE SENARCL ENS, Héritiers..., op. cit., p. 50.
34) K. BARTH, Dogmatique II, 1, +, p. 143.
35) Ibidem, p. 159.
36) K. BARTH, Dogmatique I, 2, + +, p. 16.
37) K. BARTH, Dogmatique II, 1, +, p. 16o.
38) L. VISCHER, The Roman Catholic understanding of Ecumenism and the World Council of Churches, in «The Ecumenist», 3/'66, New York.
39) P. TILLICH, The Protestant Era (Abridged), The University of Chicago Press, Chicago 1962, p. 212.
40) R. PRENTER, Connaître Christ, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel 1966, p. 157.
41) Ibidem, p. 158.
42) R. BERTALOT, La Necessità..., cit., pp. 61-74.
43) R. PRENTER, op. cit., p. 158.
44) Ibidem, p. 160.
45) Ibidem, p. 161.
46) M. CUMINETTI, Riflessioni Ecclesiologiche, «La Scuola Cattolica», supplemento bibliografico n. 1/1967, p. 21.
47) O. SEMMELROTH, La Chiesa sacramento di salvezza, D'Auria, Napoli 1965. G. PATTARO, La Chiesa sacramento della salvezza, in «Humanitas», 1-2/1967; Cfr. anche H. Schillebeeckx, I sacramenti punti d'incontro con Dio, «Giornale di Teologia», 3, Queriniana, Brescia 19662.
48) O. SEMMEROTH, op. cit., pp. 36 e 43.
49) Ibidem, p. 100.
50) G. PATTARO, art. cit., pp. 139ss.
51) T. F. TORRANCE, The Kingdom..., cit., p. 55 cfr. citazione.
52) Citato da K. BARTH, Dogmatique I, 2, ++, p. 17.
53) G. CALVINO, Inst. Christ. IV, 1, 4; cfr. H. Strohl: op. cit., pp. 222ss. K. BARTH, Dogmatique I, 2, + +, pp. 12ss
54) R. BERTALOT, Il Mandato Protestante, Claudiana, Torino 1967, pp. 43ss.
55) Citato da J. J. VON ALLMEN, Le prophètisme..., op. cit., p. 18.
56) V. SUBILIA, La Nuova Cattolicità..., cit., pp. 23ss.
57) J. J. VON ALLMEN, op. cit., p. 18.
58) Citato da T. F. TORRANCE, op. cit., p. 57; R. PRENTER in A.V., La Sainte Eglise Universelle, cit., p. 119.