La Chiesa una: è possibile?
Una riflessione su Olivier Clément
di Vladimir Zelinskij
Vorrei cominciare con una piccola osservazione a riguardo dell’odierna situazione ecumenica.
Prima di tutto dobbiamo constatare che la prospettiva della Chiesa una ed indivisa rimane sempre un sogno, ma parlare dell’unità è diventato comodo e facile, almeno in Occidente. Siamo, senza dubbio, tutti diversi, ma la nostra diversità può essere considerata come una sfida a cui dobbiamo rispondere, ma anche come un dono che possiamo accettare con benevolenza. Se l’accettiamo così, se giustifichiamo tutte le nostre differenze come assolutamente legittime, senza fare troppe domande sul loro senso e sulla loro origine, ci ritroveremmo subito quasi uniti, ma solo sulla base di un sincero rispetto delle altrui tradizioni. Questo “quasi”, però, può rimanere perennemente insuperabile. Invece, dalle parole concepite nel seno di questo rispetto nasce il nostro impegno ecumenico che si presenta come cammino da percorrere, ma anche come scopo praticamente già raggiunto, perché se siamo uniti nella diversità senza guardare troppo ai dettagli, non abbiamo bisogno, infatti, di un’altra unità, piena, responsabile e sacramentale. Per l’ecumenismo ortodosso la più grande difficoltà si trova proprio in questo punto: appena ottenuto questo rispetto reciproco e puramente “orizzontale”, non abbiamo più bisogno dell’unità nella pienezza della fede confessata e celebrata insieme. Per gli ortodossi, comunque, il concetto dell’unità vera è molto più intransigente e richiede anche il consenso del pensiero teologico, della fede e della vita in Dio, che si esprime nella comunione dei sacramenti. Per ora ci troviamo in questa impasse ecumenica fra il rispetto civile – che non chiede molto – ed il concetto dell’unità piena – che chiede tutto. Ma se il tutto non è raggiungibile, dobbiamo non solo accogliere le tradizioni degli altri, ma anche condividerle, diciamo, nell’ospitalità eucaristica, cosa che l’Ortodossia, per ora, non può accettare.
Questa brevissima osservazione ci servirà come introduzione al nostro sguardo sul ruolo svolto da Olivier Clément; nato nel 1921 nel sud della Francia, morto nel gennaio del 2009 a Parigi, all’età di 87 anni. Proveniente da una famiglia repubblicana e agnostica, Clément, storico di professione, partecipante alla Resistenza francese durante l’occupazione nazista, si è convertito al cristianesimo ortodosso ed è stato battezzato nella Chiesa russa a Parigi all’età di 30 anni. Per molti anni ha insegnato all’Istituto Saint Serge (dedicato al santo russo Sergio di Radonez). Autore di una quarantina di libri, scritti con brio e con stile raffinato, Olivier Clément fu anche un ottimo oratore, un improvvisatore e predicatore brillante che ha fatto innumerevoli conferenze in Francia, in vari paesi europei, in Libano, ecc. Come teologo è stato uno dei pochi che ha spalancato le finestre dell’Ortodossia alla cultura francese e, in un contesto più ampio, anche alla cultura occidentale. Come persona era sempre umile e affascinante. Grande conferenziere, come è stato detto, Clément sapeva lasciare parlare gli altri, amava piuttosto ascoltare. Ascoltare gli uomini e le loro idee. Ma non solo. Egli era capace di ascoltare e sentire tutto ciò che nasce e si apre all’esistenza, che respira e loda il Signore con la sua voce unica – anche le piante – di sentire la parola di Dio dappertutto. Al tramonto della sua vita, malato, bloccato nel suo letto per più di due anni, è rimasto lucidissimo di spirito, di buon umore, sempre pieno di speranza, di fiducia, di amore per Cristo. La morte per Olivier Clément era un passaggio all’eternità, ma anche un incontro. Potrei qui ripetere le parole del mio amico Paolo Ricca dette a riguardo di Oscar Cullman: Olivier Clément era un maestro nell’ecumenismo e, più importante ancora, nella vita.
Come avrebbe egli potuto rispondere alla nostra domanda: “Chiesa una: è possibile?”? Domanda che resta sempre difficile per gli ortodossi con sensibilità ecumenica, per i motivi già sopra esposti. Immaginiamo, però, la medesima domanda rivolta 100, anzi, soltanto 60 anni fa alla Chiesa Romana nella persona di qualche suo teologo ufficiale. È facile indovinare la risposta. Altrettanto facile è prevedere la risposta tradizionale di qualsiasi Chiesa Ortodossa, nonostante tutto il proprio impegno ecumenico. Gli ortodossi non hanno ancora vissuto questi 100 anni, non hanno avuto né il tempo né la necessità di convocare il loro concilio Vaticano II. La Chiesa non può essere divisa, essa è sempre stata una ed il minimo dubbio sulla sua esistenza storica e visibile sfiora già l’incredulità per le parole di Cristo a riguardo della Sua Chiesa. Dunque, non dobbiamo aspettare da un teologo ortodosso, anche della statura e di un’anima fraterna come Olivier Clément, che ci proponga un progetto speciale per l’unione delle Chiese. Lui si rendeva conto della fragilità di questi progetti perché le formule – anche le più intelligenti e riconcilianti – in sostanza non sono in grado di riconciliare mondi spirituali separati da tanti secoli. Il suo “progetto” per l’unità, se possiamo chiamarlo così, è stato proposto in modo diverso, nella riscoperta delle origini spirituali della fede ortodossa. Ma, diciamo, in una riscoperta aperta. Così aperta che gli altri potrebbero trovare nella fede dell’Oriente cristiano se stessi. Clément ha battuto il cammino che porta a Cristo cominciando dall’origine della fede, ha manifestato un altro modo di credere, di essere ortodosso e in questo modo ha risposto alla nostra domanda. Non con una ricetta pronta, ma con una testimonianza di comprensione e di esperienza dell’incontro con Cristo vissuta per tutta la vita. Per questo motivo il mio compito è più complicato: io non devo citare idee o frasi che parlano della Chiesa una, ma devo mostrare il germoglio di questa unità che cresceva nella fede stessa confessata da Clément.
Ci sono due modi di credere, ovviamente legati tra di loro: l’uno è razionale, confessionale, tradizionale, dogmatico, sociale; l’altro è esistenziale, intimo e personalissimo. Penso che la strada alla Chiesa una e visibile nella quale la comunione sarà reale, debba passare prima attraverso la comunione spirituale, cioè l’esperienza vissuta della fede condivisa nella nostra vita in Cristo, affinché la strada dogmatica e canonica, per ora quasi bloccata, possa ri-aprirsi. A livello dottrinale, lo ripeto, ciò che per le altre confessioni si presenta come una benedetta diversità, per l’Ortodossia può apparire come sbaglio ed eresia. Tuttavia, dove è ancora difficile trovare un consenso nelle formule dogmatiche, nelle regole morali e nelle norme canoniche, si può scoprire l’un l’altro nella profondità del senso religioso, nello scambio delle esperienze trascorse insieme davanti a Cristo. “Grazie alla rivelazione giudeo-cristiana, la nostra mentalità è diventata la mentalità della comunione”, - diceva Clément nella Conferenza tenuta a Roma e dedicata al Volto di Cristo[1]. È proprio lui che ha sviluppato questa mentalità nell’ambito ortodosso. Prima di tutto perché ateo nelle sue origini, Clément ha ritrovato la propria fede non nella rottura, come succede spesso, ma presso la sorgente stessa dello spirito della riconciliazione, cominciando da se stesso.
La chiave del suo cammino si può cercare innanzitutto nella sua storia personale. Dopo la crisi spirituale dell’adolescenza e della giovinezza – di cui parleremo più tardi – egli incontra all’inizio del suo cammino i pensatori religiosi russi, che dopo la rivoluzione si sono trovati in Occidente, soprattutto in Francia, in esilio volontario o forzato. Questi pensatori, come Berdjaev, per esempio, non erano sempre teologi di professione e non si consideravano esuli, ma messaggeri, se non profeti, venuti con la fiaccola della luce d’Oriente. Olivier Clément è stato uno, fra non pochi, che ha sentito ed accolto questo messaggio, prima dalle mani di Dostoevskij e di Berdjaev, poi da Vladimir Losskij, figlio del grande filosofo russo Nicolaj Losskij. Proprio Vladimir l’ha introdotto nello studio dei Padri della Chiesa, che gli hanno aperto un altro mondo; un mondo che non era simile a quel tipo di cristianesimo che Olivier Clément poteva conoscere nel proprio ambiente. Per lui questo era un altro universo cristiano od un “altro sole”, secondo il titolo di un suo saggio autobiografico. Dopo qualche anno di vagabondaggio spirituale durante i quali Clément ha dovuto superare anche una grande e sottile attrazione dell’India, ha ricevuto il battesimo nella Chiesa ortodossa russa. Anzitutto per essere cristiano.
Il suo battesimo è stato uno dei primi germogli dell’Ortodossia occidentale, che non è legata ad una etnia o ad una cultura nazionale. Un grande lavoro in questo campo è stato fatto dall’emigrazione russa, almeno da quella parte dell’emigrazione che non si è chiusa nell’utopia del passato dorato o del nazionalismo mortalmente offeso - ma ancora più orgoglioso di se stesso. Vi ricordo questa pagina della storia: un secolo fa la presenza degli ortodossi in Europa occidentale era ridotta a poche cappelle e ad un piccolo numero di chiese che officiavano per il personale delle ambasciate o per gli aristocratici in villeggiatura, per i pochi turisti, originari di quei paesi dell’Est che all’epoca potevano ancora essere chiamati “ortodossi”. Nel XX secolo le guerre, le rivoluzioni e l’esodo dei popoli, dall’Asia Minore e soprattutto dalla Russia (dopo la rivoluzione del 1917, ma anche dopo la Seconda Guerra mondiale) hanno portato in Occidente milioni e milioni di ortodossi, i quali hanno costruito le loro parrocchie e hanno messo radici nei paesi che li hanno accolti come immigrati. In Europa siamo soliti pensare ancora all’Ortodossia in termini etnografici, come confessione destinata a restare per sempre “orientale”, senza quasi accorgerci che già da tempo esiste un’importante presenza ortodossa francese, inglese, tedesca, senza considerare quella americana (che pure conta una sua Chiesa autocefala). L’Ortodossia italiana o, nel contesto più ampio, europea, anche in senso istituzionale, è già entrata in una fase di maturità.
Ma c’è un problema: questi mondi ortodossi “di origine” (russo, greco, rumeno, serbo, bulgaro, ecc.), anche se abbastanza importanti numericamente, rimanevano e rimangono ancora come bloccati nei loro ghetti culturali. La stessa situazione dura fino ai nostri giorni con le centinaia di migliaia di nuovi immigrati dall’Europa dell’Est, poiché restano culturalmente fra di loro e l’Europa occidentale rimane ancora un muro. L’incontro vero fra questi due mondi, secondo me, non è ancora avvenuto, non è entrato nella nostra mentalità, almeno in Italia. In Francia, però, Olivier Clément è stato uno dei pochi ortodossi che è riuscito a creare uno spazio, anche se ancora limitato, del vero dialogo spirituale.
Già negli anni ‘50 è diventato uno dei primi testimoni di quest’incontro provvidenziale tra due visioni – diciamo tra due anime –, quella della Chiesa d’Oriente e quella della Chiesa d’Occidente. Il suo caso è stato davvero eccezionale. Forse, perché all’inizio del suo cammino si è imbevuto del pensiero e, direi anche, dello spirito russo, ma senza rinunciare alla cultura delle sue origini. Si può dire che ha moltiplicato i talenti ricevuti da un altro patrimonio e li ha investiti nello spirito e nel pensiero occidentale. In modo unico e creativo è riuscito a riconciliare e ad unire in sé la vastissima cultura patristica, lo sconfinato universo intellettuale e religioso russo con la sua terra natale, la Francia del Sud, con la sensibilità repubblicana, con le tradizioni umanistiche della sua famiglia, con il senso della giustizia, con la sua ammirazione per la bellezza del creato. Osiamo dire che la Russia è entrata nella sua vita e nella sua anima per uscire poi come Francia o, in un contesto più ampio, come Europa ortodossa. Quest’incontro di due mondi che hanno le proprie frontiere ed i propri limiti gli ha dato una libertà ed un’apertura straordinaria. Bisogna sottolineare: la Russia ortodossa non ha rubato la sua anima al cattolicesimo romano o al protestantesimo. Al contrario, essa ha regalato al cristianesimo occidentale un’altra visione, “un altro sole”, quello che sorge in Oriente, ma dà la luce in Occidente. Perché si tratta dello stesso sole.
Nell’“Altro Sole”, come abbiamo detto, Clément racconta la storia della propria conversione. La sua prima esperienza spirituale è stata quella dell’assurdità del vivere davanti alla morte imminente. Se la morte è il destino di ciascuno di noi, se l’estinzione è una caduta nel nulla, perché aspettarla nell’angoscia e nel tormento di lunghi anni? Perché non provarla subito? La risposta non c’è ancora, ma la bellezza la chiama. Il mare, il sole, gli alberi, gli uccelli, l’infinito leopardiano parlano di un altro mondo. Più tardi lui amerà citare i versi di Rimbaud: "Elle est retrouvée. Quoi? L'éternité. C'est la mer allée avec le soleil". (“Ella è ritrovata./ Che cosa? L'Eternità./ E il mare è andato via/ col sole”). L’eternità si nascondeva per lui sotto l’immagine visibile delle cose meravigliose, ma anche quotidiane. Il visibile l’ha offerta all’invisibile, al mistero dell’opera di Dio. La conversione di Clément era di natura dialogica, il suo inizio era nascosto nel cuore aperto al mondo, alla vita, nell’udito accordato alle mille voci che uscivano dappertutto e lo chiamavano dalle cose create. Anni dopo lui dirà: “Per me l’Ortodossia è la bellezza”. Da teologo amava ricordare le parole di San Massimo il Confessore nei suoi “Cento capitoli sull’amore”, sul Sole di Giustizia che fa apparire nell’intelletto purificato il logos di tutte le cose portate all’essere.
Dal dialogo inaudibile con le cose uscite dal nulla per essere ed esistere con noi e davanti a noi Clément fa il passo al dialogo con gli uomini. Ed il nodo del dialogo si trova nell’enigma del volto umano. È l’autore di un libro dal bellissimo titolo: “Le visage intérieur”. “Il volto interiore”: vuol dire il volto velato della nostra vera personalità, nascosto – non nel senso freudiano, ma nel senso primordiale, biblico. Clément intende il volto della luce, il volto dell’immagine di Dio, secondo la quale tutti noi siamo stati creati e chiamati a vivere. “Cristianesimo per me è la religione dei volti”, come lui amava ripetere, perché ogni volto è come una breccia nella chiusura del mondo. Unica strada che va dal volto umano al suo segreto e lo porta al Volto dei volti, al Cristo.
“Questo Volto dei Volti è veramente, senza alcuna separazione, il volto di Dio perché ‘chi ha visto me, ha visto il Padre, dice Gesù’ (Gv 14,9). Dice ancora Massimo (il Confessore): ‘egli conduce l’intera creazione. Manifestata attraverso di Lui, totalmente nascosto’. Il Cristo ci rivela ciò che intuiamo più umile. Egli apre sul segreto di una persona, su una diffirenza-comunione dove l’infinito affiora pur restando inaccessibile”. [2]
Cristo per Clément era la sorgente stessa della vita. “Christ, terre des vivants”, “Cristo, terra dei viventi”, come si chiama un altro suo libro. Questa terra è comune per tutti. Non possiamo chiamarla, questa terra dei viventi, semplicemente: Chiesa – Chiesa della creazione, Chiesa di Cristo? Clément aveva una grande intuizione, una visione dell’universalità di Cristo che non appartiene solo agli ortodossi e che non appartiene solo ai cristiani, poiché tutta la famiglia umana può protendere a questa eredità. Questa premessa è molto di più di ciò che si chiama ecumenismo. Si tratta di un’autentica visione della cattolicità, di un tratto fondamentale della comunità ecclesiale. “In principio era il Verbo”. Ed il Verbo, il Logos, agisce dappertutto, penetra ogni cosa, luce del Sole di Giustizia che riempie l’universo intero. Anche il nostro mondo, caduto ed infettato con il peccato, vela il suo vero fondamento nel ringraziare, nel segreto eucaristico. “Il creato come Eucarestia”, come si chiama il libro di Giovanni Zizioulas, corrisponde esattamente all’intuizione ed alla visione di Clément. Questo vuol dire che la creazione è un sacramento di Cristo, del Verbo che si è fatto carne e che con la Sua incarnazione ha consacrato tutta la carne del mondo. Durante la sua lunga vita Olivier Clément ha cercato i semi, i solchi della luce (come si chiama un altro suo libro, già citato). Vale a dire la rivelazione del Volto di Dio, del mistero di Cristo che ci unisce in un modo più profondo, più autentico.
Nella conferenza romana già menzionata Clément afferma che per lui si profila una teologia della persona come Segreto e Amore: “un Segreto che allo stesso tempo si vela e si dona trascendendo la propria trascendenza”[3]. Il Segreto si rivela come Amore e noi siamo chiamati a trovare l’icona di questo amore su ogni volto umano. Con amore Cristo riconosce il vero volto di ciascuno di noi. Il Suo sguardo risveglia in noi la nostra vera personalità. E questa luce quasi impercettibile che esce da ogni volto umano non è in sostanza la luce di Cristo, il mistero della Trinità? Ma la luce di Cristo non può essere impersonale. Quando noi guardiamo negli occhi di una persona non ci incontriamo nel fondo anche il Verbo che l’ha creata? Ma l’Amore come Teofania che si dona e si vela non dovrebbe essere il vero nome della Chiesa? Nella Chiesa l’uomo riceve Cristo come dono, ma la vita in Lui chiede uno sforzo permanente.
La scoperta del Cristo, la conversione, non è un avvenimento avvenuto una volta sola, diceva Clément. Tutta la vita in Cristo è una conversione che dura e che deve portare frutti visibili ed invisibili. Scopriamo sempre lo stesso Cristo, il Gesù evangelico, ma anche la Seconda Persona della Santissima Trinità, nel suo amore, secondo una formula meravigliosa di Vjačeslav Ivanov, ricordata da Clément: Amor ergo sum, sono amato, dunque esisto. Ogni essere umano è creato secondo l’immagine di Cristo e può trovarlo in tutto ciò che è stato fatto per Lui. Clément aveva una grande fiducia nello Spirito Santo che respira dappertutto e dappertutto ci rivela Cristo. “Non posso immaginare che Cristo possa essere completamente estraneo a qualcuno o a qualche cosa creato da Lui”, diceva lui. “Quando leggo i grandi sufi, prego con loro. Le rivelazioni di Cristo sono inseminate nelle culture diverse, nelle realtà così lontane le une dalle altre. Non intendo solo il Vecchio Testamento. Quando Dio si rivelerà in tutta la Sua creazione, scopriremo una grande diversità e moltitudine delle Sue rivelazioni per ora nascoste e che non possiamo spiegare. Ma senza spiegazione possiamo distinguere le Sue parole rivolte a noi e portate dallo Spirito Santo. Siamo chiamati a riconoscere il nostro mondo nella luce della Pentecoste che ci circonda ed in ogni voce “straniera”, in ogni cultura lontana dalla nostra dobbiamo distinguere la voce di Cristo. Non vuol dire che dobbiamo rinunciare alla nostra Tradizione che conta 2000 anni. La Tradizione è una memoria sacra che costituisce noi stessi. Ma essa non deve pietrificarsi. La Tradizione deve essere radicata nel Gesù di Nazaret e tornare sempre a Lui”.
La Tradizione è l’Ortodossia e l’Ortodossia, afferma Olivier Clément al seguito dai Padri, significa Cristo. Ma quale Ortodossia? Essa è molto più grande delle frontiere e dei limiti confessionali. “Se tu conoscessi il dono di Dio…”, dice Gesù alla donna samaritana e Clément fa di questa frase la sua parola d’ordine ecumenica. Nel dialogo delle religioni o delle confessioni dobbiamo cominciare non dalle formule, dice lui, ma dai doni ricevuti dagli altri, perché tutti i doni provengono da Cristo. Il Suo amore riconosce l’uomo com’è sotto le sue maschere ed anche sotto le sue convinzioni religiose.
La Chiesa, nella visione di Clément, è un sacramento, come anche la Santa Scrittura. Noi rivestiamo questo sacramento in un rito, in una conoscenza, in una tradizione, anche nella storia della sua realtà umana, ma il suo nucleo rimane celato, esso trascende qualsiasi forma. Le immagini della Chiesa si possono trovare anche aldilà della sua espressione visibile. Se gli ortodossi hanno ricevuto il preziosissimo deposito della fede radicata nella Tradizione, perché loro non possono, perché noi non possiamo essere così generosi, chiede Clément, per cercare e trovare con amore le tracce della stessa ricchezza negli altri, che non sono “dello stesso ovile”, anche se non sono cristiani? L’importante è di non avere un nemico interiore, l’immagine dell’altro come di un avversario da distruggere. Nello stesso tempo Clément credeva che fosse inutile costruire una religione comune per tutti, poiché sarebbe stata la confusione babilonese della fede. Non accettava neanche l’espressione “cristiani anonimi”, messa in circolazione da Karl Rahner, perché nell’ultima profondità dell’uomo non ci sono “cristiani anonimi”, ma c’è una santità sconosciuta oppure… la follia, l’ossessione demoniaca. L’idea dei cristiani anonimi risulta essere come la proposta d’armistizio nei confronti del mondo secolare: siate coloro che volete essere, ma noi vi contiamo come nostri. La sua immagine di unità è ricerca in comune di questa santità invisibile, velata sotto ogni manifestazione del bene. Cristo agisce in modo proprio in ogni essere umano e la Sua rivelazione supera qualsiasi persona e cultura umana. Spesso incontriamo la santità fuori delle nostre mura, ma la vera santità è libera da qualsiasi limite. Per esempio, il metodo della preghiera di Gesù sviluppato nella “Filocalia” – una ricca raccolta di testi sulla preghiera del cuore –, si può ritrovare nella pax benedettina ed in tante altre esperienze mistiche. La Filocalia insegna come scoprire il proprio cuore e trovare Cristo nella sua profondità. In questa ricerca tutti noi possiamo riconoscere gli uni gli altri. “Cristo in voi, speranza della gloria”, come dice san Paolo (Col 1,27). Ma questo “voi” (o “noi”) non è la Chiesa – almeno la Chiesa invisibile?
Un’influenza decisiva per Clément è stato l’incontro con il Patriarca Ecumenico Atenagora (1886-1972), sbocciato in un lungo colloquio. Come mi diceva Clément stesso, il suo libro dei dialoghi con il patriarca, insieme con il libro “Sorgenti”, rimaneva per lui uno tra i suoi libri prediletti. (Ambedue sono tradotti in italiano). Chiedo scusa, ma credo di dover raccontare la mia storia personale legata proprio a questo libro. Più di trent’anni fa un amico a Mosca mi ha regalato l’edizione originale in francese ed io, appena battezzato – non avevo ancora sentito né il nome di Clément né il nome di Atenagora – sono stato proprio preso, rapito dallo spirito di questa opera. Non mi bastava la semplice lettura. Mi sono messo subito a tradurlo, senza alcuna speranza, all’epoca, di vederlo pubblicato nell’Unione Sovietica. (Anni dopo la mia traduzione è stata pubblicata in Belgio da una casa editrice russa). Dalle prime pagine ho capito di aver trovato finalmente quell’immagine dell’Ortodossia che io avevo sempre cercato. L’immagine di un’Ortodossia rigorosa, fedele alle proprie radici, ma nello stesso tempo, apertissima, fraterna, piena di calore umano, davvero universale. La chiamerei Ortodossia pasquale, esuberante. Il libro si apre con una riflessione sulla Pasqua, sul Risorto e sull’incredibile prospettiva della salvezza da lui spalancata. Questo lungo dialogo di un maestro di vita spirituale con il suo discepolo – che più tardi avrà a diventare maestro anche lui – presenta la visione della Chiesa una, fondata sul Risorto. Una visione che non può servire da programma, ma che contiene, forse, qualche cosa in più. Mi permetto di fare una lunga citazione da questa opera.
“I grandi problemi, i problemi tragici che si pongono all’umanità odierna - dice Clément (la loro conversazione avviene nel 1968, ma sembra oggi), - come collegarli al miracolo della Risurrezione?
Atenagora risponde:
“Un terzo dell’umanità ha fame. Alla fame dei corpi si unisce quella delle anime. I due terzi della popolazione del globo non hanno ancora imparato a conoscere il nome di Cristo. Nei paesi che si dicono cristiani, regna una massima divergenza tra il Vangelo da una parte, il modo di vivere dei cristiani da un’altra…
Come collegare tutto questo alla Risurrezione? Ma è un’evidenza lampante! I sedicenti cristiani non vivono la Risurrezione: non sono dei risorti! Hanno perduto lo Spirito del Vangelo. Hanno fatto della Chiesa una macchina, della teologia una pseudoscienza, del cristianesimo una vaga morale. Ritroviamo, riviviamo la teologia rovente di san Paolo: “Così come il Cristo è risorto dai morti, così noi, i battezzati, dobbiamo condurre la vita nuova” (Rm 6,4). Se coloro che credono nel Risorto portano in sé questa potenza di vita, allora si potranno trovare soluzioni ai problemi che angosciano gli uomini… Si tratta anzitutto di formare l’uomo interiore, di renderlo capace di un’adorazione creatrice.
Cristo è dappertutto”, dice il patriarca[4].
Ci fermiamo qui.
Quale potrebbe essere la risposta di Clément e del patriarca Atenagora alla domanda, alla sfida della Chiesa con la sua unità spezzata? La Chiesa una inizia e si realizza nell’uomo interiore, nella sua conversione a Cristo risorto. Ma in una conversione vissuta di nuovo con una profondità ed un’intensità sempre riscoperta. Saremo realisti: non possiamo ri-costruire da capo la Chiesa una, come se la nostra storia, a volte troppo pesante, non fosse alle nostre spalle. Ma possiamo riscoprirla, secondo la parola di Karl Barth, come un luogo dell’abitazione della Parola che parla nella pienezza dell’essere, come soluzione comune delle sfide del tempo e dei problemi dell’umanità, nella comune gioia pasquale, nel mistero della vita stessa, nella speranza condivisa, nella conciliarità – una parola molto ortodossa – dell’esperienza esistenziale della fede. Troppo poco per curare la piaga della divisione? Dal punto di vista ecclesiologico, forse, è poco, ma molto essenziale perché da questo piccolo seme di fraternità – per ora invisibile in Cristo – può rinascere il grande albero del Regno che, come dice Gesù, è in mezzo a noi, cioè nella sua Chiesa.
[1] Olivier Clément, Solchi di luce, ed. Lipa, 2001, p. 92.
[2] Solchi della luce, p. 101
[3] Ibid. p. 96
[4] Atenagora, Chiesa ortodossa e futuro ecumenico, Dialoghi con Olivier Clément, Morcelliana, 1995, pp. 151-152