Ecumenismo protestante
Capitolo sesto
Note ad alcuni capitoli
della Costituzione « De Ecclesia» *
di Renzo Bertalot
Il materiale elaborato dal Concilio è ora oggetto di meditazione all'interno e all'esterno della Chiesa cattolica. I risultati sono ancora lungi da noi nel tempo, e parlarne oggi significa quindi limitarsi necessariamente ad esporre le prime reazioni e i primi apprezzamenti. Significa votarsi al soggettivismo? Certo il rischio c'è e non bisogna sottovalutarlo, ma bisogna pur impegnarsi. Con ciò non si esalta l'intuizione isolata, ma piuttosto la necessità della ricerca. Ogni ricerca porta con sé il marchio dell'autore, ciononostante essa è indispensabile in ogni campo scientifico che, in quanto tale, si rifiuti a strutture pregiudiziali. Chi ricerca sa che il suo lavoro può anche concludersi in modo contrario alle intuizioni iniziali, sa altresì che è utile affrontare da diverse parti la poliedrica realtà oggetto d'indagine, ed è infine cosciente che, nel XX secolo, non è possibile impegnarsi isolatamente, ma bisogna lavorare gli uni accanto agli altri. Forse l'insegnamento di Socrate non è mai stato tanto attuale come oggi, poiché assistiamo ad una così vasta crisi di valori.
Di fronte ad un avvenimento ecclesiastico come il Concilio Vaticano II è naturale, per un protestante, registrare delle luci e delle ombre. Non è infatti difficile cogliere il lato ombra di questo avvenimento, se teniamo presente l'inveterata abitudine al contrasto tra le confessioni cristiane, e la pesante eredità della polemica e dell'apologetica. L'appiglio per avviare un discorso di questo genere non manca certamente a chi lo cerca nei documenti conciliari e particolarmente nel De Ecclesia. Ma bisogna sostanzialmente voltare le spalle al futuro ed irrigidirsi, senza respiro, nelle formulazioni dottrinali dei tempi ormai trascorsi? Si deve necessariamente giungere alla convinzione che nulla è cambiato e che non vi sono oggi più speranze di ieri per superare la divisione del cristianesimo? Siamo così buoni conoscitori del nostro interlocutore, da poter affermare con sicurezza che l'irrigidimento confessionale è la sola possibilità del cattolicesimo? Questi problemi riaffiorano ogni volta che si nota la tendenza ad identificare il Cristo con la Chiesa, il governo del Signore con l'amministrazione ecclesiastica, la Parola di Dio con le nostre formulazioni umane. Non ci sembrano chiari certi avvicinamenti o sovrapposizioni tra Rivelazione e coscienza della Chiesa. Il senso di malessere che ne deriva non è nuovo anche se, oggi, può essere maggiormente rilevato in contrasto con il discorso ecumenico. Cosa possiamo fare? Dobbiamo lasciare che le correnti conservatrici di ambo le parti consumino le loro energie in anacronistiche polemiche confermandosi a vicenda nella convinzione che nulla è cambiato? Senza cedere a questa tentazione, si può però ritenere valido ogni richiamo alla cautela e valutare positivamente ogni tentativo di frenare i sempre facili entusiasmi.
Cercando invece di cogliere le luci anziché le ombre, è possibile per un protestante rendersi particolarmente attento alle correnti progressiste del cattolicesimo, e seguire le loro ricerche e i loro interessi. Dal punto di vista delle aperture vi sono molte indicazioni preziose che sembrano promettere bene per il dialogo ecumenico. Per i più è da escludersi che esse rappresentino dei vicoli ciechi imboccati con troppa sicurezza. Se vi sono dei rischi, essi sono connaturati con la ricerca, come abbiamo notato, ma fanno parte pure della disponibilità che ci è richiesta dal Signore. Non si può scoraggiare chi ricerca con il ricondurre continuamente il lavoro entro le strettoie di formulazioni passate ed entro strutture filosofiche invecchiate. Non è saggio essere di inciampo a chi cerca di esprimere più chiaramente e quindi più modernamente la propria fede. L'insistenza su richiami paralizzanti può assecondare l'opera del tentatore, di cui parlano i testi sacri, e superare di gran lunga i limiti della cautela.
Un appello alla fiducia in chi lavora assumendo le proprie responsabilità di fronte al Signore, è sempre utile. L'ecumenismo è fatto anche di queste cose.
E doveroso tuttavia dire qualcosa di più. Oggi notiamo, come protestanti, che la Bibbia si è fatta strada nel cattolicesimo del Concilio. Nel passato eravamo portati a pensare che essa fosse sempre meno necessaria e meno importante per i documenti della Chiesa romana. Oggi non è più così. È certamente uno dei meriti del pontificato di Giovanni XXIII, di cui il Concilio ha saputo avvalersi ampiamente. Questo non significa che gli uni e gli altri si ritrovino nelle interpretazioni della Scrittura; ma significa che essa diventa sempre più un terreno comune di ricerca e di confronto. La nostra fiducia ecumenica non può essere confinata alla buona volontà degli uomini di entrambe le parti, né può essere condizionata dalle promesse di certe correnti di pensiero anziché da certe altre. Essa deve invece alimentarsi alla presenza viva della testimonianza dei profeti e degli apostoli in mezzo a noi, così come la riceviamo dal testo sacro, come evangelici non abbiamo esitato, nella nostra storia, a giocare tutto il nostro essere sulla fedeltà alla Scrittura. Nel tentativo di essere fedeli abbiamo annunciato a costituire una forza unita socialmente ed abbiamo accettato la divisione gli uni dagli altri. Animati da questo amore di fedeltà non dovremmo forse rallegrarci per la ritrovata importanza della Bibbia presso i fratelli cattolici?
Credo che questa sia una buona ragione per accogliere il nostro tempo ecumenico con buona coscienza e serenità. Ricordiamo le parole del cardinale P.E. Léger, il quale volle che venisse chiaramente espressa «l'assoluta prevalenza e trascendenza della divina rivelazione, cioè del verbum divinorum in senso proprio». «La tradizione e tutte le asserzioni del magistero della Chiesa - egli aggiunse - anche quelle più solenni, vanno subordinate alla parola di Dio» (1). E così ancora il teologo Hans Küng, membro del Segretariato per l'unità dei cristiani, fece sua una espressione tecnica del protestantesimo che definisce la Scrittura norma normans, cioè norma determinante. (2)
Fatta questa premessa, ci soffermeremo a considerare sommariamente, nella prospettiva della novità voluta da Dio per il nostro tempo, i temi riguardanti il popolo di Dio, il laicato e l'escatologia nella Costituzione conciliare De Ecclesia
Il popolo di Dio
Non v'è chi non abbia dato rilievo al fatto che la trattazione dell'argomento sul popolo di Dio ha trovato precedenza, nella Costituzione, rispetto alla trattazione del tema sulla gerarchia. Evidentemente ci può essere, da un lato, il desiderio di considerare la gerarchia in funzione del popolo di Dio e di giungere così a delle affrettate relativizzazioni. Ma sarebbe un pericolo grave accantonare quest'ordine di precedenza e forzare un'interpretazione del laicato cattolico in funzione della gerarchia (3). Lungi dagli eccessi, si deve tuttavia notare che questa sistemazione degli argomenti nel De Ecclesia, ha una portata innovatrice rilevata sia in campo protestante sia in campo cattolico. Ci sembra soprattutto significativo trovare questo rilievo nel Congar, che, pur essendo un noto ecumenista, si era espresso altrimenti nel passato. Egli aveva infatti affermato che la gerarchia precede ontologicamente la comunità, poiché la Chiesa era stata una Chiesa di sacerdoti prima di essere una Chiesa di credenti (4).
La nozione di popolo di Dio è ripresa dalle pagine dell'Antico Testamento che parlano della elezione del popolo d'Israele. Essa si fonda sulla promessa fatta al patriarca Abramo, ed è orientata dal profeta Geremia verso i tempi messianici. La scelta di questo popolo assume un aspetto più ampio con il Nuovo Testamento, che abbraccia in Cristo tutta l'umanità. Coloro che prima non erano un popolo sono ora chiamati a diventarlo (5). Il Capo è Cristo, la condizione sono la dignità e la libertà dei figlioli di Dio, la legge è il comandamento dell'amore e il fine è il Regno (6). Si entra a far parte di questo popolo con il battesimo, e il vincolo si perfeziona con i sacramenti (7). I cristiani non romani, i non credenti in Cristo ed infine tutta l'umanità sono, in qualche modo, ordinati a questo popolo di Dio (8). All'interno del popolo troviamo un duplice sacerdozio: quello comune dei fedeli e quello ministeriale e gerarchico (9). Il primo consiste nel partecipare ai sacramenti e alla testimonianza quotidiana; il secondo, quello gerarchico, nel formare e nel reggere il popolo compiendo ed offrendo a nome suo il sacrificio eucaristico.
Cosa possiamo osservare come evangelici di fronte a questo tema? La nostra risposta non può che essere provvisoria, così come vogliono la novità dell'argomento e le sue possibilità di sviluppo.
Intanto la nozione di popolo di Dio porta un ampio respiro nella discussione ecumenica. Ci sembra infatti positivo insistere su questa anziché su quella dell'ovile aperto o chiuso del passato. I cattolici più sensibili al dialogo si erano resi conto che quest'ultima era particolarmente ostica alla teologia evangelica e rischiava fortemente di chiudere le possibilità dell'incontro (10). Parlare invece di popolo di Dio sembra allentare alcune perplessità ed inaugurare un nuovo discorso. Naturalmente il futuro dirà se e quali potenzialità ecumeniche era giusto vedere in questa scelta dei Padri conciliari.
Ci rendiamo conto infatti che permangono delle difficoltà. Ci è detto che questo popolo di Dio si perfeziona nel Corpo di Cristo, che è la Chiesa intesa cattolicamente, e che i due termini tendono ad identificarsi (11). Dobbiamo intendere che si vuol riportare nel discorso, dopo averlo rinnegato, un irrigidimento tradizionale, facendo sorgere il timore che non vi siano sostanzialmente nuovi orizzonti? Evidentemente i progressisti cattolici rispondono di no.
Il decreto De Oecumenismo ha voluto sottolineare l'imperfezione e la carenza del cristianesimo non cattolico rispetto a quello romano (12). Troviamo la stessa impostazione all'interno della nozione del popolo di Dio, e Gregory Baum, un altro teologo cattolico del Segretariato per l'unità dei cristiani, ci informa che non si tratta però di un punto morto. «Concretamente e attualmente la Chiesa di Cristo può essere realizzata in una Chiesa separata da Roma in misura inferiore, uguale o maggiore di quella di una Chiesa in comunione con Roma. Questa conclusione s'impone sulla base del concetto di Chiesa che emerge dalla dottrina del Vaticano II. Osservata dal punto di vista della divina istituzione, la Chiesa cattolica è la sola Chiesa di Cristo sulla terra e le altre chiese sono, in vari gradi, delle realizzazioni imperfette o difettose di essa. Ma osservata dal punto di vista dell'azione sovrana e misericordiosa di Dio, la quale si serve degli elementi istituzionali senza lasciarsi condizionare o limitare da essi, una comunità cristiana è tanto più veramente Chiesa quanto più essa è trasformata in popolo di Dio, in famiglia di Dio, in comunione fraterna e spirituale, impregnata di fede e di carità» (13).
Prendiamo quindi atto di questi atteggiamenti di pensiero più positivi e più promettenti. Con ciò non vogliamo nasconderci le difficoltà che sorgono sulla dottrina della Chiesa. Ritroviamo nella costituzione il concetto di Chiesa mediatrice della fede, dono di Dio (14). Comprendiamo la necessità d'insistere sul fatto che Dio elegge la parola degli uomini, ma dobbiamo precisare che questa elezione è assolutamente libera, si compie come e quando Dio vuole. Vi può anche essere un silenzio di Dio mentre i suoi inviati parlano, mentre riteniamo che questa elezione consista in un rinvio al testo biblico che viene così instillato dallo Spirito Santo nella nostra mente e nel nostro cuore per il consolidamento della nostra fede. L'importanza della testimonianza è veramente messa in prim'ordine quando, con chiara coscienza, si afferma che essa è assunta e trasfigurata dalla azione di Dio sì che non abbiamo più termini di misura e di confronto tra la parola umana e la Parola di Dio. Non è più a motivo di quello che ci è stato detto che crediamo, ma unicamente a motivo della Scrittura che il Signore ha voluto rendere viva in noi. Per questo riteniamo di dover attribuire a Cristo soltanto la funzione di mediatore, e non possiamo assuefarci a riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo (15).
Vogliamo mantenere al nostro discorso un indirizzo scrupolosamente cristologico, evitando quindi di avvicinarlo a prospettive di natura ecclesiologica. È comprensibile che un protestante guardi con timore alla tradizionale dottrina cattolica della Chiesa come Corpo Mistico, e tema, sempre dal punto di vista della sua teologia, che tale dottrina finisca per porsi, come oggetto, la coscienza che la Chiesa ha di se stessa. Sarebbe una Chiesa orfana. Questi sono i nostri timori allo stato attuale del dialogo. L'ecumenismo è fatto anche di questi timori, ed è sicuramente segno di progresso ecumenico poterli presentare con franchezza, come caratteristica di un settore di ricerca irto di difficoltà. Per alcuni protestanti la nozione del popolo di Dio prospettata dal De Ecclesia può contribuire ad allentare proprio questi timori e queste perplessità di natura ecclesiologica, per l'insistenza sulla sovranità del Cristo (16).
Sempre a proposito della nozione di popolo di Dio, rileviamo ancora un altro punto d'interesse: il Sacerdozio comune dei fedeli. Che il sacerdozio universale dei fedeli, dottrina classica della Riforma, fosse una verità basilare dell'ecclesiologia cattolica, come afferma il Küng (17), non ci sembrava molto evidente. Ora invece notiamo che il problema si sta chiarificando con sicurezza. È forse utile accennare a quanto amore noi protestanti abbiamo portato a questo concetto. Esso rappresenta infatti, nella nostra sensibilità storica tradizionale, il momento in cui il medioevo tramonta definitivamente e comincia l'epoca moderna. È l'inizio dell'organizzazione della Società dal basso verso l'alto, e quindi la fine della visione piramidale precedente la Riforma. Esse rappresenta, infine, la base rivoluzionaria e decisiva di ogni formulazione democratica. Ci siamo entusiasmati per queste cose, ne abbiamo fatto il nostro vanto e difficilmente, oggi ancora, riusciamo a parlarne senza entusiasmo e spassionatamente.
L'odierno impegno politico del cristiano, che deve farsi sentire con particolare insistenza, trova il suo fondamento biblico nel sacerdozio universale e regale dei credenti. È quindi con vera gioia cristiana che sentiamo parlare del popolo di Dio come di un popolo di sacerdoti. È logico, tuttavia, che abbiamo qualche riserva da fare. Non possiamo far nostro il confronto tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico (18), anche se la collegialità dell'episcopato e la sua funzione di servizio animano di nuovi propositi la problematica tradizionale (19). Entrambe queste nozioni di sacerdozio, quella comune e quella gerarchica, sono ordinate all'unico sacerdozio del Cristo. Ci è offerta così una dimensione nuova che teniamo a rilevare.
Animati dal desiderio di capire le nuove possibilità del dialogo, siamo liberati, con questo riferimento a Cristo, dalla tentazione di intendere la gerarchia in funzione del laicato, il che forse non renderebbe giustizia neppure alle correnti conciliari più progressiste, e dalla tentazione d'intendere il laicato in funzione della gerarchia, secondo la predilezione delle correnti conservatrici. Con questo preciso riferimento a Cristo dobbiamo ritenerci di fronte ad una impostazione cristologica e non ecclesiologica del discorso. Si tratta infatti dell'unico ministero del Signore, il Capo del popolo di Dio. Questa affermazione chiara, che tutto riordina nella Signoria del Cristo, offre delle buone prospettive al dialogo. In quanto protestanti ci sentiamo così un po' risollevati dall'impressione lasciataci da quelle identificazioni, a cui abbiamo accennato, sul terreno ecclesiologico, identificazioni che hanno fatto sorgere le nostre perplessità.
Il laicato
La Costituzione offre la seguente definizione del laicato: «Col nome di laici s'intendono qui tutti i fedeli che non sono membri dell'ordine sacro e dello studio religioso sancito nella Chiesa, i fedeli, cioè, che in quanto incorporati a Cristo con il battesimo e costituiti popolo di Dio, e nella loro misura resi partecipi dell'ordine sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano » (20). Il laico è consacrato dallo Spirito Santo a tale missione (21) ed è rivestito dei doni appropriati per compierla (22). Il suo campo d'azione particolare è la società secolarizzata della nostra epoca (23). La teologia cattolica precisa così una sua dottrina sul laicato che ha suscitato degli echi favorevoli presso gli specialisti protestanti (24), fin dalle prime reazioni. Bisogna rilevare che il sacramento dell'ordine, e la conseguente distinzione tra diritto umano e diritto divino, portano, nella visione cattolica del laicato, degli elementi che non ritroviamo nel pensiero protestante. Notiamo che v'è una direzione gerarchica (25) per cui, sia pure nel rispetto delle iniziative (26) i laici sono esortati ad abbracciare nella sottomissione ciò che i pastori stabiliscono, e a collaborare con loro in particolari casi, anche negli uffici ecclesiastici (27). Vediamo qui riaffiorare con tratti evidenti una prospettiva ecclesiologica che risolleva i problemi già accennati, sui quali non ritorneremo.
Fin dai tempi della Riforma la teologia evangelica ha cercato di rinunciare alla distinzione tra clero e laici. Nell'ultimo dopo guerra questa tendenza è andata ancora accentuandosi, dando luogo ad un rigoglio di studi sui ministeri. Siamo convinti che ogni credente in Cristo ha un suo ministero da svolgere comunitariamente. La riconoscenza con cui la creatura loda il suo Signore assume delle forme diverse, forse tanto diverse quanto diversi sono gli individui. V'è quindi una vocazione che può essere descritta come riconoscenza e che ci impegna gli uni e gli altri davanti a Dio. Con essa il Signore ci dà un'occasione, nei nostri brevissimi giorni, di dire a noi stessi e agli altri il valore che noi attribuiamo alle cose grandi di Dio. Il nostro tempo si trasforma così da tempo perso in tempo di grazia.
Le giovani chiese ci sono state di grande aiuto per comprendere il senso della nostra missione cristiana. Ci hanno rimproverato, con sincerità e con coraggio, il peso insopportabile di tutti i nostri «ismi» culturali, nazionali e confessionali. Da loro abbiamo imparato a rispettare più concretamente il governo del Signore sulla sua Chiesa, ed abbiamo capito come le nostre strutture di pensiero possano facilmente trasformarsi in ostacolo per la testimonianza. Sentiamo il bisogno di meditare con maggiore considerazione sullo sviluppo spontaneo della missione, e di dare una dimensione più umile, ma non per questo meno impegnativa, al nostro modo pastorale di essere accanto ai fratelli.
In questo ordine di pensieri possiamo registrate tre momenti significativi. Il primo è quello in cui il pastore è al centro della vita ecclesiastica. Tutto converge verso il suo ministero, e la vita stessa della comunità è, in un certo senso, determinata dalla presenza del pastore. In un secondo momento si è sentito il bisogno di affiancare al ministro pubblico una serie di collaboratori per alleggerirlo dai suoi impegni. Benché questi due orientamenti siano ancora vivi, oggi si è sempre più coscienti che bisogna rovesciare buona parte delle impostazioni del passato: non è più il laico che deve aiutare il pastore nel suo lavoro, ma è il pastore che deve aiutare il laico a scoprire il suo particolare ministero e a portarlo a compimento. Il centro di gravità si sposta dal pastore al singolo credente, che viene ad essere così il fulcro della missione cristiana.
Questi brevi accenni alla problematica evangelica sulla dottrina dei ministeri esprime, meglio di un confronto diretto e particolareggiato, quale può essere il nostro atteggiamento di fronte alla formulazione della dottrina cattolica sul laicato. È evidente che, dal punto di guardatura cristologico, il dialogo può farsi sempre più interessante e positivo.
L’escatologia
La dottrina degli ultimi tempi è stata oggetto di particolare studio da parte protestante nel XX secolo. Ciò è dovuto al fatto che la teologia evangelica, libera da una struttura filosofica dominante, qual è per esempio il tomismo nella Chiesa cattolica, ha sentito il bisogno di esprimere continuamente il nucleo della fede cristiana in termini attuali di pensiero. Così si è parlato a volte in termini esclusivamente futuristici della realtà ultima del Regno di Dio, mettendo in netto contrasto il nostro mondo in transizione e il nuovo mondo, veniente nella perfezione e nell'incorruttibilità. Ritroviamo un atteggiamento simile, nel Nuovo Testamento, presso i cristiani della comunità di Tessalonica, i quali incrociarono le braccia in attesa del giorno felice del ritorno del Signore. Evidentemente le preoccupazioni quotidiane della famiglia, della società e del domani perdevano completamente la loro pregnante urgenza d'impegno e di responsabilità. Fu l'apostolo Paolo a pronunciare, in quell'occasione, le famose parole: «... se qualcuno non vuol lavorare neppure deve mangiare» (2 Tess.; 3, 10).
Il nostro secolo ha accolto pure un'influenza immanentistica che, a nostro giudizio, è travasata nella riflessione esistenziale. In quest'ultima configurazione di pensiero il termine trascendenza ha ritrovato una sua ragione di essere, ma è stato ridimensionato entro i confini della storia umana ed articolato secondo le potenzialità del divenire. In sede teologica protestante si è parlato allora di escatologia realizzata facendo, per esempio, coincidere la risurrezione con l’esperienza della vita nuova del credente. Ritroviamo qui un'altra posizione già nota nel Nuovo Testamento, presso la comunità di Corinto, i cui componenti erano inclini a considerare il Regno di Dio come una realtà già avvenuta, con la conversione all'Evangelo, e non attendevano altra risurrezione se non quella della vita nuova di neoconvertiti. Le loro agapi fraterne, accompagnate a volte da manifestazioni eccessive di gioia, intendevano presumibilmente dare espressione ad un messianismo già realizzato. L'apostolo Paolo doveva riprendere con veemenza anche questi fratelli, ricordando loro che la figura di questo mondo passa, che quaggiù non siamo chiamati a regnare, e che la risurrezione dei morti è un miracolo nelle mani di Dio che, ad immagine di Cristo, intende rivestirci di incorruttibilità.
Il pensiero protestante ha dovuto affrontare il risorgere di questi antichi problemi del cristianesimo nascente e trovare una formulazione moderna della dottrina degli ultimi tempi. La soluzione è stata avviata nel mettere in risalto la tensione esistente tra il vecchio ed il nuovo mondo, tra le realtà che lo Spirito Santo già anticipa nel nostro tempo, come segno ed incoraggiamento, e la realtà di Dio che ancora attendiamo e che non possiamo manomettere con le nostre azioni e con i nostri pensieri. I segni che noi possiamo notare oggi, a nostra consolazione, non costituiscono ancora la realtà, e tra gli uni e l’altra v'è una differenza non solo quantitativa, ma qualitativa, che ci impedisce la speculazione ed il confronto. Possiamo solamente dire che lo Spirito dispensa sia i segni sia la realtà, e che gli uni e l'altra trovano in Lui la loro unità. Per gli evangelici questa maturata consapevolezza costituisce un motivo di più per marcare rigidamente la distanza tra noi e il Signore, tra la Chiesa e il Regno e tra la nostra vita religiosa e la Vita Eterna.
Che cattolicesimo e protestantesimo non si ritrovino facilmente su questi temi non è un fatto nuovo. I documenti conciliari e il cap. VII della Costituzione De Ecclesia permettono tuttavia di riprendere il confronto in un contesto rinnovato, ogni volta che viene prospettata una tensione tra le realtà ecclesiastiche e le realtà del Regno. Questo ci sembra essere il problema di fondo, al quale va subordinata l’importanza che possiamo dare ai singoli argomenti. Là dove si ha motivo di ritenere la prevalenza di una prospettiva centrata sulla Chiesa, nasce spontaneo il timore che non vi siano nuove speranze e che le posizioni rimangano inconciliabili (29). Là dove invece si sente il pulsare nuovo di prospettive centrate sul Cristo, si scorge l'avvicinarsi di nuove formulazioni che da tempo si rendono necessarie, a giudizio protestante, a proposito di alcuni temi fondamentali. La Chiesa si apre verso il futuro di Dio, e prende forma un concetto diverso dell'unità cristiana che può finalmente costituire un'alternativa seria alla nozione del «grande ritorno» (30).
Voci autorevoli di cattolici si sono espresse incoraggiando queste linee di pensiero. Citiamo, ad esempio, il vescovo De Smedt che, nel suo intervento del 10 novembre 1962, ebbe a dire: «Ciò che rimane è il popolo di Dio, ciò che passa è il mistero della gerarchia... Dobbiamo stare attenti, parlando della Chiesa, a non cadere in un certo gerarchismo... ciò che prevale è il popolo di Dio» (31). Ed ancora il Sartory che scrive: «Se per i cristiani la Chiesa è Mysterium Dei, vuol dire allora che Dio è più grande della Chiesa. La Chiesa nella sua concreta conformazione terrena non è una realtà definitiva, mentre Dio - il Dio uno e trino - è la realtà ultima assoluta; e la sua istituzione di salvezza per l'uomo è il Regno di Dio, il quale è a sua volta più grande della Chiesa» (32). Il germogliare di queste osservazioni sia da parte cattolica sia da parte protestante non deve forse incoraggiarci a seguire il lavoro con fiducia?
Due prospettive fondamentali
Abbiamo così esaminato alcuni aspetti del De Ecclesia che più da vicino interessano il dialogo ecumenico. In conclusione desideriamo sottolineare ancora quanto abbiamo cercato di mettere in evidenza nel nostro esposto: vi sono due prospettive fondamentali: quella cristologica e quella ecclesiologica. È inutile dire che la nostra solidarietà, a causa del nostro modo di essere fedeli all'Evangelo, va alla prima a scapito della seconda. Certo non disdegniamo parlare della Chiesa, della sua funzione di servizio e di testimonianza; riteniamo tuttavia che questo possa essere fatto meglio da una rigorosa prospettiva cristologica. A partire dal Cristo tutto diventa più chiaro e l'unità della Chiesa vibra con giovanile vigore. Quando quest'ordine non è seguito le difficoltà si fanno insormontabili, e ci ritroviamo a calcare le usate strade polemiche che non tardano a rivelarsi come vicoli ciechi.
Cristo diventa l’unità di misura del discorso ecumenico. Quanto più sarà evidente la differenza tra l’unità di misura e ciò che è misurato, tante più si esalterà la norma al di sopra della nostra realtà confessionale, tanto più ci presenteremo davanti a Dio disposti a voler vivere del suo perdono soltanto, tanto più il nostro confronto ecumenico si farà vivo, interessante e promettente.
Da tutte le parti si è avvertita la necessità di stare in guardia per evitare l'irenismo e l'entusiasmo che incoraggiano la superficialità e relativizzare i problemi di fondo. Sicuramente in Italia non sono mancati. Ciò non significa che non dobbiamo raccomandare anche la fiducia ed il coraggio, perché l'ecumenismo comporta anche queste cose. Forse proprio perché la nostra configurazione geografica e religiosa ci ha meno abituati al confronto ecumenico, abbiamo oggi più che mai bisogno di una visione coraggiosa. Dobbiamo chiedere al Signore che ci liberi dalla paura, perché spesso abbiamo paura di ciò che ci attende. La paura infatti non è come il timor di Dio che dobbiamo avere; essa avvilisce le nostre energie, non le dimensiona nell'umiltà ma le umilia. La paura non permette la serenità dell'ascolto reciproco, incoraggia invece la chiusura, l'autodifesa e, in ultima analisi, la pigrizia e l'indifferenza.
Se oggi Dio ha messo nelle mani della sua Chiesa un talento ecumenico, noi non dobbiamo nasconderlo per paura, sapendo che il Signore può raccogliere bene altrove. Dobbiamo invece amministrarlo con timore, come si amministrano le cose grandi di Dio, sapendo cioè che dobbiamo renderne conto. Il popolo di Dio dev'essere un popolo coraggioso, perché Cristo ha avuto il coraggio di costituirci fratelli nella sua morte, nella sua risurrezione ed in vista del suo Regno.
Note
* Articolo apparso sulla rivista «Il Mulino», n. 165, 1966, Bologna.
1) Citato da V. VINAY, La Chiesa nella polemica tra il cardinale Sadoleto e Giovanni Calvino alla luce del movimento ecumenico dei nostri giorni, «Protestantesimo», 4/'64, p. 211.
2) H. KÜNG, Strutture della Chiesa, cit., p. 72.
3) V. SUBILIA, L'ecclesiologia del Concilio Vaticano II, «Protestantesimo», 2/'65, p. 95. La posizione è stata parzialmente modificata in: La Nuova Cattolicità..., cit., p. 40.
4) Citato da H. KRAEMER, La parte dimenticata, Claudiana, Torre Pellice 1960, p. 63; Y. CONGAR, Le peuple de Dieu et le schème sur l’Eglise au Concile, «Foi et Vie», 6/'64.
5) Costituzione De Ecclesia parr. 9 e 13.
6) Ibidem par. 9.
7) Ibidem par. 11.
8) Ibidem parr. 13 e 16.
9) Ibidem par. 10.
10) R. BERTALOT, Necessità..., cit., p. 86.
11) G. CAPRA La Chiesa mistero e segno di unità, «Humanitas», 12/'65, cfr Costituzione De Ecclesia par. 13.
12) Vedi capitolo precedente.
13) Citato da G. CAPRA, art. cit., p. 1295.
14) Cost. De Ecclesia par. II: per Ecclesiam.
15) Cfr. Enciclica Ecclesiam Suam, «L'Osservatore Romano», 10-11 agosto 1964.
16) V. VINAY, La Chiesa romana e la cristianità non romana nei documenti del Concilio Vaticano II, «Protestantesimo», 3/'65, p. 138, n. 28.
17) H. KÜNG, op. cit., p. 103.
18) Cost. De Ecclesia, par. 10.
19) Cfr. L. VISCHER e O. CULLMANN citati da V. VINAY in La Chiesa romana..., art. cit., p. 239.
20) Cost. De Ecclesia, par. 31.
21) Ibidem, par. 34.
22) Ibidem, par. 33.
23) Ibidem, par. 35.
24) H R WEBER citato da «S.OE.P.I.», 16 dicembre 1965.
25) Cost De Ecclesia, par. 37.
26) Idem.
27) Ibidem, par. 7.
28) Ibidem, par. 35 e 37.
29) V. SUBILIA art. cit., p. 66.
30) V. VINAY, La Chiesa romana…, art. cit., p. 136.
31) Ibidem, p. 137.
32) Citato da G. CAPRA, art. cit., pp. 1293 ss.