L'attuale successo dell'iconografia bizantina è dovuto anche al fatto che l'arte dell'icona ci immerge in un mondo allo stesso tempo familiare e un po' diverso: familiare, perché evoca le figure della fede cristiana comune; ma diverso, perché è quello del cristianesimo bizantino, con le sue modalità di presentazione e le sue sensibilità proprie. Sono questi caratteri particolari che bisogna precisare se si vogliono apprezzare tutte le ricchezze e le sfumature del mondo delle icone.
Per poter mettere in luce i caratteri propri dell'icona, conviene in primo luogo sapere come si è costituita storicamente questa immagine a Bisanzio, il che permetterà in seguito di apprezzarne il contenuto teologico, cioè di cogliere fino a che punto l'icona è il riflesso del mistero di Dio, presenza dell'incarnazione ed espressione della fede della Chiesa, quella di ieri come quella di oggi.
I - La Genesi dell'icona
L'icona è condizionata da una duplice esigenza: essa deve significare che un abisso separa il nostro mondo dall'aldilà ma anche affermare che un riflesso di questo mondo divino è visibile per noi uomini. Con mezzi terreni, forma, colore e luce, l'icona deve concretizzare realtà religiose che hanno la loro sorgente nell'aldilà Essa tenta di evocare ciò che è fuori del mondo sensibile, ciò che è divino. Quel che essa cerca di rendere visibile è determinato dalla fede, il dogma. Così diviene riflesso del mistero di Dio. Tale è la duplice visuale che anima l'icona. Se si dimentica questo duplice requisito, si rischia fortemente di ridurre l'icona a un semplice quadro religioso, oppure anche a una specie di idolo estetico.
Per esprimere l'invisibile, i cristiani dei primi secoli si orientavano già verso le forme che oltrepassano il mondo visibile: Le forme dell’ellenismo e il suo ideale di bellezza naturale come espressione del divino non potevano bastare. Quindi l'arte deve rinunciare a se stessa, passare attraverso la propria morte, immergersi nelle acque del battesimo per uscire da queste fonti battesimali all'alba del IV secolo, sotto una forma ancora mai vista: l'icona. È l'arte resuscitata in Cristo; né segno, né quadro, ma simbolo e luogo di presenza.
Si può dire che l'icona è nata quando lo spirito greco e lo spirito cristiano si sono incontrati, si sono sfidati e si sono compresi l'un l'altro per spiritualizzare la materia e rappresentare il "corpo spirituale", diverso dal "corpo psichico" di cui parla san Paolo (1 Cor 15,44). L'icona è il frutto di una spiritualizzazione, in senso intellettuale, da parte dell'influenza greca; di una spiritualizzazione nel senso di glorificazione della materia da parte dell'influenza biblica. È la potenza di queste due correnti che mescolando le loro acque donano all'icona la sua forza e la sua bellezza.
È ben noto che il mondo greco tende spontaneamente a privilegiare le idee: ai suoi occhi, il sensibile non è che un mezzo per giungere all'intelligibile. Ma l'intelligibile si riflette nel nostro mondo terrestre: il prototipo fisso nella beatitudine eterna si riflette nell'immagine che diventa così una realtà preziosa, la più preziosa che vi sia sulla terra. L'immagine è più che un'immagine, essa è veramente riflesso del mistero di Dio.
In questo senso l'icona appartiene all'ordine dei sacramenti, i quali fanno sorgere nella materia una realtà nuova, quella della grazia di Dio incarnato. Con il suo riferimento al mistero dell'incarnazione, l'icona rispetta l'ordine della natura umana, ma la trasforma, la trasfigura. Questo mutamento non si opera aggiungendo dei simboli, ma si produce dall'interno, con una nuova messa in opera di tutte le componenti dell'icona: disegno, spazio, colori, ecc.
Infatti, il disegno non è più il disegno secondo la natura, tipico dell'arte classica, ma è come trasformato dallo spirito: al tempo stesso dalle sapienti proporzioni di un canone idealizzato del corpo umano e dall'armonia di strutture e movimenti, come pure da una concezione dello spazio, dove non regnano più le dimensioni della natura, ma le dimensioni dello spirito.
Anche i colori si allontanano sempre più dai colori che si incontrano in natura. Nel corso delle generazioni, gli iconografì sviluppano la policromia: quel gioco di colori complementari, caro ai pittori moderni, tendente a tradurre un'armonia che non è direttamente di questo mondo. Cosi, grazie a questi colori sapientemente concepiti, alle architetture, ai paesaggi, le icone riflettono la vita, la gioia divina. Ogni icona è una festa
Ma l'elemento più importante di questa estetica si trova nella luce. E’ anche l'elemento più immateriale, riflesso della luce di Dio. Essa non ha una sorgente fissa. Alcune volte sorge dall'interno, altre dai lati. Essa rende ogni cosa trasparente, alleggerisce la pesantezza del mondo materiale, fa risplendere le figure e i volti come cristalli. Ed è innanzitutto sui volti che appare la luce della Risurrezione, su un colorito scuro, privo di bellezza carnale. Allora ogni cosa diviene luce e questa luce si comunica a colui che contempla. l'icona e lo trasforma.
Queste poche considerazioni, molto insufficienti, aiutano a capire perché l'icona superi tutte le altre immagini del nostro mondo e anche perché essa attiri gli uomini del nostro tempo. Ma questi elementi di estetica non sono sufficienti, servono soltanto a farne presentire il valore spirituale. Per saper leggere l'icona, è necessario comprendere il suo contenuto teologico, bisogna risalire alla sua stessa sorgente che è l'incarnazione di Cristo.
II - Le fonti trinitarie dell'icona
La concezione dell'icona si precisa nel corso della crisi iconoclasta dell'VIll e IX secolo. Gli iconoclasti rammentavano che il Dio infinito non è "circoscrivibile". Ma questa crisi, che colpiva la cultura e la fede bizantine alle loro radici, non riguardava soltanto l'immagine, come rappresentazione figurativa: ciò che metteva in dubbio era il dogma stesso dell'incarnazione, essenza della fede cristiana
La discussione porta all'icona di Cristo. I difensori delle immagini affermavano due cose: prima, che l'icona non è una rappresentazione della sola divinità del Cristo, poiché questa è al di sopra di ogni forma e di ogni linguaggio umano. Seconda, che l'icona non è neppure un semplice ritratto di Gesù di Nazaret, perché ciò che essa vuol rappresentare è la presenza di Cristo nella sua pienezza, in quella misteriosa unione della natura divina con la natura umana.
Così, la fede cristiana è intervenuta nel processo di astrazione per conferire alla materia una dignità che lo spirito greco aveva appena intravisto, ma che si impone in virtù dell'incarnazione di Cristo.
Dopo l'incarnazione, il mondo materiale è come rivestito di una grandezza nuova: può diventare rivelatore dell'Assoluto. La rappresentazione dell'Assoluto non soltanto non è più interdetta, come nell'Antico Testamento, ma diviene legittima e anche necessaria come conseguenza dell'incarnazione. L'icona nasce da questo giubilo di saper possibile la rappresentazione dell'Assoluto e non soltanto una rappresentazione astratta ma una rappresentazione personale, quella dell'Unico!
Ma se tale è il principio generale dell'icona, come precisarne la messa in opera? Come il Dio divenuto uomo può essere rappresentato in un'immagine? In quale modo si può esprimere nella materia questa misteriosa unione della divinità con la natura umana nella persona di Cristo?
innanzitutto è necessario sottolineare che dalla teologia trinitaria l'immagine riceve un significato nuovo. Le categorie umane devono essere superate perché ci si possa avvicinare a ciò che è Dio.
Ora, la Scrittura afferma che il Figlio Unico è generato dal Padre. "Dio non genera come generano gli uomini, ma come Dio - dice sant'Atanasio - Egli è veramente Padre; è da lui che ogni Paternità nei cieli e sulla terra prende nome" (Ef 3,15). Per il fatto che il Figlio è generato in Dio, in lui si trova tutta la pienezza della Divinità. Così egli è l'immagine perfetta del Padre, "homoousios" (consostanziale): perciò la concezione terrena dell'immagine, che include sempre una deficienza in rapporto al modello, è superata. E, se il Figlio è l'immagine perfetta del Padre, allora il padre si è veramente rivelato a noi: "Chi ha visto me, ha visto il Padre" (Gv 14,9).
Che cosa possiamo dire dell'immagine del Padre? Possiamo discernere una forma specifica, le sue proprietà? È san Gregorio di Nissa che ci conduce al cuore della Santa Trinità e ci fa vedere con più chiarezza le relazioni tra le Persone divine. Egli si basa sulla Rivelazione ricevuta dallo Spirito nella Scrittura. Ora, la Scrittura ci rivela del Figlio che "tutto è stato fatto per mezzo dì lui" (Gv 1,3), "tutto sussiste in lui" (Col 1,17). E san Gregorio conclude: "Infatti, dal Padre nasce il Figlio, dal quale tutte le cose sono state fatte e che è sempre inseparabilmente conosciuto con lo Spinto, perché non si può giungere a pensare al Figlio senza essere stati prima illuminati dallo Spirito" (san Gregorio di Nissa, Lettera di san Basilio a suo fratello Gregorio).
Questa idea del potere assoluto del Figlio apparir, sullo sfondo sfavillante d'oro delle cupole bizantine, nell'immagine del Pantocràtor Essa sarà anche l'idea dominante nella liturgia e spiritualità bizantine.
Per precisare in qual senso il Figlio è l'immagine del Padre, San Gregorio si riferisce alla Lettera agli Ebrei: "Egli è l 'irradiazione della sua gloria e i l’impronta della sua ipostasi" (Eb 1,3).
Questo testo è capitale, perché introduce il termine ipostasi nella teologia e ne conferma l'impiego con l'autorità della Rivelazione. Mostra anche come il Figlio sia l'immagine dell'ipostasi del Padre. E san Gregorio conclude: "Se si comprende la bellezza dell'immagine, si giunge al 'intelligenza del 'archetipo... Si riconosce la Bellezza ingenerata della Bellezza generata". Per l'iconografia, queste distinzioni avranno un'importanza primordiale. È chiaro che l'icona non vuole rappresentare la natura divina, ma l'ipostasi del Verbo o dei santi, disegnare i contorni delle figure, il loro aspetto corporeo e i loro tratti "caratteristici".
Queste poche riflessioni ci conducono a capire fino a che punto l'icona affondi le radici nel mistero della Santa Trinità e partecipi a questo mistero. La sua natura sarà trasformata dalla bellezza e perfezione dell'immagine del Padre per essere presente a tutti coloro che la venerano. Ma perché l'immagine del Padre divenga icona di Cristo, è necessario che l'ipostasi del Verbo divenga uomo, che vi sia dunque identità tra il Verbo e la sua umanità in una reale e indissolubile unione.
Per dimostrare questa apparizione del verbo nella carne, san Cirillo d'Alessandria si riferisce al vangelo di san Giovanni; Gesù, incontrando il cieco-nato, dopo la sua guarigione gli dice: ""Tu credi nel Figlio del 'uomo". Egli risponde: "E chi è, Signore, perché io creda in lui?". E Gesù: "Tu lo hai visto: colui che parla con te è proprio lui"" (Gv 9,35-37). Questo Gesù è dunque il Verbo preesistente, il Verbo e la carne sono uno, può essere percepito dai sensi. E credere in lui è credere a quella persona che è Dio e uomo, senza confusione e senza separazione. in questa unione meravigliosa il corpo del Verbo diviene santo, vivificante e pieno di energia divina. Allo stesso modo, in questo corpo divinizzato, tutta l'umanità è legata a Dio in un solo essere: siamo diventati suoi fratelli. La Redenzione supera di gran lunga l'aspetto giuridico della riparazione del peccato per diventare una nuova e più meravigliosa comunicazione della vita divina (théosis). Essa si attualizza al livello della natura umana e in essa si espande a tutta la creazione. Per l'icona, la dottrina dell'Incarnazione fa sorgere una nuova dimensione. Essa non è soltanto l'immagine del personaggio storico, ma quella della carne divinizzata di Cristo. Proprio grazie all'incarnazione la rappresentazione di Cristo e dei santi è resa possibile.
Contemplando la meravigliosa discesa dell’immagine del Padre verso gli uomini, ci resta ancora di fare un ultimo passo. È forse il più difficile per lo spirito umano, perché si tratta di realizzare come l'ipostasi del Verbo incarnato possa apparire nella materia Come possiamo vedere nell'icona un'immagine autentica di Nostro Signore? E’ evidente che non si tratta di un ritratto naturalistico. La nozione trascendentale dell'immagine e la persona divina di Gesù escludono questa forma.
Tuttavia, ciò che è dipinto sull'icona deve avere una relazione con colui che è rappresentato. Bisogna anzi dire che questa relazione è la condizione della sua esistenza, altrimenti non vi sarebbe immagine. I difensori delle sante immagini al tempo dell'iconoclasmo hanno paragonato questa relazione con l'impronta di un sigillo sulla cera. Questa impronta mostra necessariamente la forma esatta del sigillo, gli assomiglia fedelmente senza identificarsi con esso. E’ dunque la somiglianza che costituisce la relazione tra l'immagine e il suo archetipo. Essa deve essere accessibile all’intelligenza umana, deve essere riconosciuta. Questa concezione è sorprendente e può sembrare razionalista, ma non si tratta di una intelligenza puramente umana. Per una simile intelligenza, l'icona resterebbe un semplice oggetto d'arte. Anche la somiglianza non è da capire in modo razionalista, ma come una epifania che si presenta allo spirito illuminato dalla fede: l'icona supera le facoltà dello spirito umano e non si apre ad esso che nella contemplazione.
Eppure, per lo spirito critico del nostro secolo, questa risposta sembra insufficiente. Non si comprende bene come si possa paragonare l'immagine con il suo archetipo. In altre parole, come possiamo dire che l'icona di Cristo riflette fedelmente l'ipostasi del Verbo incarnato? Il Santo Volto - palladio venerato da Bisanzio e rispettato anche dagli iconoclasti - non è ciò che le leggende pretendevano, e cioè il ritratto storico del Signore, ma la visione teologica della comunità cristiana. È qui che si deve cercare la verità delle icone, la loro autenticità, perché l'icona è l'espressione della fede della Chiesa.
III - L'icona autentificata dalla Tradizione
L'icona è inseparabilmente legata alla Chiesa, alla sua fede, alla sua vita liturgica e spirituale. Come ogni opera d'arte non può essere interpretata fuori dall'ambiente dove è stata creata, così l'icona perde il suo senso e la sua funzione se si vuole separarla dalla comunità che l'ha generata e nella quale è radicata. È la tradizione della Chiesa che le conferisce la sua autenticità. Bisogna dunque cogliere il senso di che cosa è Tradizione.
Per alcuni nostri contemporanei, sensibili all'impegno sociale, la tradizione appare come una perpetuazione delle idee e delle forme del passato che si oppone a ogni creazione, a ogni rinnovamento. Questa concezione dimentica che l'anima della Tradizione è lo Spirito Santo che l'ha creata, la conserva e la vivifica. È lui che ha ispirato gli autori dei libri santi della Scrittura ed è lui che tocca i nostri cuori quando contempliamo le immagini da lui ispirate. È lui che ha assistito i Padri della Chiesa nella loro lotta contro le eresie e che ha aperto una nuova porta verso la pienezza del mistero ogni volta che la Chiesa ha definito un dogma. Come un organismo vivo che cresce e si difende, la Tradizione ha saputo evitare i pericoli che minacciavano la fede, ha difeso le verità rivelate e ha fatto emergere aspetti nuovi della dottrina trasmessa. E questa tradizione non si limita alla Scrittura o al dogma, ma include tutta la vita della Chiesa. Pensiamo soltanto a quell'esempio straordinario che è l'evoluzione della liturgia. Dalla sua forma primitiva, la liturgia degli Apostoli, essa si evolve come un albero vigoroso, per formare nel linguaggio, nella sensibilità delle diverse culture, i numerosi riti che celebrano tutti lo stesso mistero del Corpo e del Sangue di Cristo.
Con la Scrittura, il dogma, la liturgia, la tradizione dell'iconografia trova il suo senso nell'azione dello Spirito Santo. Come i dogmi, anche le icone di Cristo possono essere messe accanto alla Scrittura e ricevere la stessa venerazione. Perché l'icona mostra nei colori ciò che il Verbo annuncia con le parole scritte. I dogmi si rivolgono all'intelligenza ed esprimono una realtà che supera i processi della nostra ragione. Le icone raggiungono la nostra coscienza attraverso i sensi esteriori e presentano la stessa realtà in forme estetiche. Ma l'elemento intelligibile non fa loro difetto, perché il loro contenuto teologico è simile a quello dei dogmi.
Se vediamo la Tradizione come azione dello Spirito Santo nella Chiesa, comprendiamo meglio perché essa svolga un grande ruolo nell'iconografia È alla presenza dello Spirito di Dio che l'iconografo opera; egli sa che le sante immagini fanno parte del tesoro della Tradizione, da conservare fedelmente. Così un'icona non prima di tutto la creazione soggettiva di un artista, ma l'interpretazione di un contenuto teologico della Tradizione. Preparato dalla contemplazione, purificato e illuminato dalla grazia, l'iconografo deve elevarsi ad una visione spirituale per rappresentare il suo soggetto. Responsabile del lavoro delle sue mani e cosciente dei propri limiti, deve confidare più nell'azione dello Spirito Santo che nella sua abilità tecnica, deve considerarsi suo strumento. Questa preoccupazione di essere strumento non sopprime evidentemente la nota personale, il lavoro, la perfezione estetica e artistica, la differenza degli stili. Essa non fa che condizionarlo.
Cosi, fra le numerose icone di Cristo, non ve n'è una identica all'altra Ognuna mostra lo stesso archetipo, ma questo è sempre interpretato in modo personale, secondo la visione interiore del pittore. Bisogna riconoscere che non sappiamo quasi nulla di quando e come i tipi iconografici si sono fissati.
Si può soltanto constatare che essi hanno trovato la loro forma definitiva dopo 1'iconoclasmo, nel IX secolo. Non ci resta quindi che tornare alla domanda che ci ha condotti alla Tradizione della Chiesa. Come possiamo affermare che nell'icona di Cristo si riflette veramente il volto di Nostro Signore? Chi dà all'icona la sua autenticità? Non sono gli storici che ci possono dare una risposta perché tutte le celebri icone miracolose di Bisanzio si sono perdute nella tormenta iconoclasta e, successivamente, nel sacco di Costantinopoli e la conquista turca. Bisogna dunque cercare un altro campo, quello della fede viva della Chiesa. Anch'essa appartiene alla Tradizione, una Tradizione che rimane nascosta e non ha lasciato documenti agli storici. "Lex orandi – lex credendi". Non è sorprendente che il volto del Signore sia perpetuato per secoli? Che i fedeli, sin dalle prime icone di Cristo, vi abbiano sempre riconosciuto il volto del Signore? Che anche oggi i nostri fratelli in un mondo ateo, contemplando le sante immagini, vedano il mondo trasfigurato dalla luce di Dio e ricevano "la forza contro il male, la guarigione dell'anima e del corpo e la consolazione dello Spirito Santo", come dice la preghiera della benedizione delle icone?
In quest’ultima tappa (della comunione di Dio con il mondo) l'icona resta fedele alle sue origini. Come l'immagine del Padre supera ogni nozione terrestre dell'immagine, così l'unione dell'ipostasi del Verbo incarnato con l'icona appartiene al mistero di Dio.
Illuminati dalla fede dobbiamo aprire il cuore per ricevere la certezza che egli è veramente presente. San Giovanni Damasceno dice: "Ho visto la forma umana di Dio e la mia anima è salva".
A cura del CENTRO RUSSIA ECUMENICA 00193 Roma – Vicolo del farinone 30