Ecumene

Lunedì, 09 Agosto 2004 21:45

Il farmaco del dolore

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di Vladimir Zelinskij

Per il cristiano ortodosso impegnato non solo nel movimento ma anche nello spirito ecumenico, non c'è problema più doloroso che quello del nostra reciproca inospitalità eucaristica. Dopo tanti gesti simbolici di apertura, di amicizia, di riconoscenza della piena validità della vita religiosa di un altro, arriviamo proprio al cuore della nostra fede, al mistero eucaristico e scopriamo di nuovo che questo cuore è diviso. Come se fossero divisi spirito e verità; il primo ama "il fratello separato" e va dove lo porta il cuore, la seconda, invece, è immobile, pietrificata, costituita dalle pietre preziose delle nostre tradizioni.

Non faremo finta che le nostre verità siano fatte dalla materia così leggerissima che loro possano volare dietro le folate del nostro spirito. La fede, anche se scoperta da zero, all'età adulta, è sempre ereditata e investe ciascuno di noi con la sua responsabilità verso coloro che l'hanno plasmato e vissuto così. L'ortodossia si chiama spesso "la fede dei nostri Padri" e ogni figlio, se decide un giorno fare tutto a modo suo, l'indomani perde il proprio statuto. Ormai lui non è più il figlio, ma un estraneo di cui le pecore non conoscono la voce (vd.Gv.10,5). Perciò, per un ortodosso che ha la passione per l'unità, l'ecumenismo - ciò che gli altri cristiani non sempre capiscono - è come una camminata sulla fune con l'asta a due capi. Su un capo c'e il peso della sua fedeltà, della paternità spirituale, dogmatica, canonica, istituzionale. Su un altro non c'è niente altro che il sogno, la nostalgia, il desiderio di essere pienamente unito in Cristo con tutti gli altri che partecipano a quel mistero, comunicano a quella luce, riconoscono il suo Dio in quel volto umano e riflesso di Sua immagine sul volto del prossimo.

Cosa ha fatto in fine dei conti l'ecumenismo in un secolo dopo la sua nascita? Una cosa essenziale, indispensabile, ma semplice: esso è riuscito a convincere la maggior parte dei cristiani che gli eretici e i scismatici del passato sono non soltanto esseri umani degni di rispetto, ma anche "fratelli in Cristo", benché separati. Questa scoperta, che oggi sembra così ovvia, è stata la principale destinazione del nostro cammino, ma anche il punto di partenza. Ci rendiamo conto che il termine "fratelli separati" non è niente altro che la stazione di trasbordo, la vera via deve partire da qui. Se la separazione umana, mistica, in parte anche spirituale, era già vinta, se la divisione dottrinale si è ritirata un po', l'ultima e più difficile vittoria va riportata sull'"alienamento" eucaristico.

Ma come? Non c'è una vittoria più facile che scaricare tutte le differenze teologiche, che sembravano all'epoca così essenziali, sulle "tradizioni degli antichi" per svalutarle radicalmente. In quel caso, il movimento ecumenico deve già fermarsi, siamo arrivati a capolinea, tutti rimangono nei loro asili ecclesiali con regolare e amichevole scambio delle visite eucaristiche sulle tavole diverse, ma coperte per tutti. Crediamo davvero che proprio quel tipo di unità che Cristo aspetta da noi? Che saremo riconosciuti come Suoi discepoli da quell'ideale dell'amore che sfiora l'indifferenza?

"Che bell’anima cristiana tu hai - disse un giorno un monaco atonita al padre (futuro cardinale) Yves Congar, - se fossi stato battezzato, potresti anche salvarla". In questa intransigenza che, però, non è priva dell'amore e del dolore per la perdita eventuale di un prossimo, c'è almeno chiarezza ed onesta. L'onesta nel movimento ecumenico è stata sostituita dall'allegria della fratellanza universale. Si, la gioia è una forte messaggera della speranza, ma non unica. Più l'ecumenismo andrà avanti, più saranno meno sufficienti le cose che abbiamo già acquistati: il riconoscimento reciproco del battesimo, la possibilità della preghiera comune, le concordanze di alcune formule teologiche. L'anelito dell'unità si batte inevitabilmente al mistero eucaristico sfaccettato nelle parole e concetti a cui ci teniamo forte, con cui non possiamo fare i compromessi, ma che per gli altri diventano come pietre dei nostri cuori…

Forse, nella pedagogia dell'unità che si costruisce nascostamente, deve arrivare anche il momento della sofferenza. La gioia deve andare insieme con il dolore che chiamerei il farmaco ecumenico, con l'amarezza dell'ospitalità impossibile, perché prima che i figli possano unirsi, anche i padri debbano essere riconciliati. Prima di arrivare alla tavola comune dobbiamo anche scoprire il Cristo comune, riconosciuto pienamente nella fede di un altro, ma anche vissuto con la stessa pienezza spirituale nell'Eucarestia di un altro.

Siamo ancora divisi. Vogliamo essere uniti. "Senza di Me non potete fare nulla" (Gv.15,5).



Letto 1939 volte Ultima modifica il Martedì, 13 Settembre 2011 19:05
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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