Ma cosa intendiamo oggi con l'espressione "una cosa sola"? Unico Corpo di Cristo nel mistero della sua presenza visibile ed invisibile oppure "l'oicumene" dei greggi dispersi e divisi fra di loro, che sono d'accordo su qualche punto cruciale, ma sorvegliano gelosamente la loro identità storica e confessionale? Si tratta veramente della comunione o solamente del gentile rispetto reciproco? E se il rispetto può essere l'inizio del cammino, verso quale unità?
Davvero la notte di Pasqua ci mette davanti alla speranza improvvisa, ma anche davanti ad un grande ed amaro punto interrogativo. Perché le domande non finiscono qui. Per rispondere, occorre però formularle in una maniera corretta e più dettagliata. Prima di tutto, possiamo davvero parlare dell'inizio del "cammino" per ciò che è semplicemente un crocevia? Infatti Oriente e Occidente, nel giorno più solenne dell'anno, si sono accorti l'uno dell'altro o hanno appena incrociato gli sguardi, e pronunciando qualche saluto di rito si sono subito separati per continuare il proprio cammino?
Quando cominciamo a chiedere, ci accorgiamo che ogni domanda che va al cuore del problema contiene un numero indefinito di questioni. La vera risposta arriva non come una formula magica, ma dall'interno delle domande stesse, quando la catena delle domande si trasforma in un cammino verso la verità. Per iniziare questo cammino vorrei fermarmi un attimo su tre brevi riflessioni.
Primo: la crisi dell'ecumenismo attuale; secondo: la sfida alle Chiese da parte del mondo contemporaneo; terzo: quali sono oggi i fondamenti della speranza.
La crisi dell'ecumenismo.
Dappertutto sentiamo dire che l'ecumenismo si trova "in pausa" o addirittura in una crisi che colpisce il suo stesso principio e l'impegno: il pentimento per la divisione e la coscienza dell'obbligo morale di tornare all'unità perduta quasi mille anni fa. La crisi dell'ecumenismo, però, sembra sia legata alla sua stessa vittoria psicologica.
Il discorso ecumenico negli ultimi decenni è diventato così onnipresente e evidente che si è trovato in qualche modo ad essere superato e inutile. Che senso reale ha la nostra ricerca appassionata dell'unità, se il concetto stesso dell'unità perde il suo fondamento ecclesiale e si riduce a gesti di benevolenza nei confronti delle tradizioni altrui? Questo tipo di ecumenismo è già iscritto nelle Costituzioni dei Paesi democratici e fa parte del codice di tolleranza reciproca, sia politica sia ecclesiale.
Se per dialogo ecumenico intendiamo il rispetto di chi rimane sostanzialmente un estraneo, un lontano (e, a dire la verità, neppure tanto interessante), quale unità sarà realmente possibile? Solo quella della stretta di mano, del sorriso e della non ingerenza negli affari degli altri.
Devo precisare: queste domande, forse un po' provocatorie, provengono dalla mia esperienza personale, occidentale e russa, vissute insieme nella loro contraddizione dialettica. La parte occidentale afferma che l'ecumenismo (o ciò che noi indichiamo con questa parola) è semplicemente una forma di vita retta praticata nella società. Grazie a Dio, siamo cittadini di una civiltà dove ad ogni essere umano spetta il suo angolo "mistico" privato; dove chiunque ha il diritto di essere stimato e riconosciuto per il suo credo, dubbio, pensiero o "sogno religioso", qualunque esso sia. In questo ambito l'ecumenismo è anzitutto un avvenimento che si compie tra persone credenti, un movimento che può essere importantissimo, salvifico, caloroso a livello umano ma che, piano piano, sta diventando un valore in sé. Davvero ogni incontro ecumenico è rivolto verso Cristo come via fatta insieme, come verità confessata in comune o come vita vissuta in comunione?
Quindi, la dolce crisi dell'ecumenismo, di cui parliamo, consiste, da un lato, nella sopravvalutazione umana che sostituisce la ricerca della comunione in "ciò che era fin da principio" (1 Gv 1,1); dall'altro dal dialogo senza fine sui principi, e dalla sua riduzione a concetto giuridico, in base al quale ciascuno ha diritto alla propria identità religiosa. Né il dialogo intellettuale, né il diritto civile, due forme indispensabile della nostra cultura della coesistenza, toccano, però, il mistero del nostro rapporto con Dio. Parafrasando Vladimir Soloviev, si può dire che il diritto sia stato creato non per istituire il paradiso sulla terra, ma per impedire l'arrivo anticipato dell'inferno. Tuttavia, in ambito cristiano, il potere del diritto può diventare addirittura "aggressivo" (soprattutto per le supersensibili orecchie ortodosse). Capita, per esempio, quando il Consiglio mondiale delle Chiese parla del diritto del femminismo nei confronti di Dio o dei diritti (non civili, ma proprio religiosi ed ecclesiali) delle cosiddette minoranze sessuali.
La crisi dell'ecumenismo, in ambito ortodosso, ha una forma opposta e molto aspra. L'ecumenismo, nel suo "involucro" occidentale, è spesso rigettato come l'ingerenza di uno spirito estraneo. È visto prima di tutto come "il ladro [che] non viene se non per rubare, uccidere e distruggere" (Gv 10, 10). Distruggere chi? Per coloro che vegliano sul proprio gregge, è chiaro che le vittime possono essere solo la fede e la civiltà ortodossa.
La crisi, secondo il mio modo di vedere, deriva dal fatto che i due sistemi sono chiusi in se stessi. Quando si guardano, in realtà non si vedono; non colgono le sensibilità reciproche e le ragioni dell'altro.
Ma cosa sta al fondo di questa incomprensione? Per quanto riguarda le Chiese ortodosse, la crisi dell'ecumenismo è legata a processi interni che provengono dallo scontro con il mondo in cui viviamo, visto come minaccia ai fondamenti stessi della cristianità. In altre parole, la crisi, nasce dalla sfida della secolarizzazione e della globalizzazione, e dal modo diverso che Oriente ed Occidente hanno elaborato per rispondere a questo fenomeno.
Ecumenismo e secolarizzazione.
Mi capita di sentire spesso questa affermazione: cattolicesimo e ortodossia sono vicinissimi per quanto riguarda il deposito dogmatico e l'ecclesiologia, ma sono abbastanza lontani nella loro mentalità e nelle loro tradizioni. Invece il protestantesimo, che dogmaticamente è molto più lontano dalla Chiesa cattolica rispetto all'ortodossia, appartiene al suo stesso ambito culturale, all'interno del quale si è consolidato un certo rapporto con il mondo dei non credenti che ha un'inclinazione alla collaborazione e alla comprensione. La frontiera tra il profano e il sacro sta sparendo, perché tutto ciò che è umano si sta avvicinando al sacro e tutto ciò che era sacro adesso va verso la sua semplificazione e umanizzazione.
Un cristiano orientale, per esempio, come vede il mondo cattolico d'oggi? Nota che i preti non portano più le vesti talari, che la confessione si fa al massimo una volta all'anno, che parole così abituali per l'Oriente cristiano come "peccato", "pentimento" o "giudizio finale" non sono pronunciate neanche dal pulpito; che il digiuno è sparito senza lasciare traccia, che le preghiere sono per la maggior parte improvvisate (se non addirittura prese a prestito dalle religioni non cristiane); che tante nobili ed antichissime tradizioni sono dimenticate, che nella vita di fede di un credente c'è un clima di familiarità con Dio impensabile per un ortodosso.
Ma cosa non riesce invece a vedere? Tante nuove e bellissime iniziative che portano la vera luce di Cristo nelle zone del nostro mondo più scristianizzate, tanta fede rinnovata, tanta grazia riversata nei cuori dallo Spirito Santo che soffia dove vuole. Le missioni, i nuovi movimenti, il coraggio, il servizio al prossimo, il pensiero teologico che si sviluppa e si interroga... Forse, il dono dell'Oriente cristiano è la sua fedeltà alla tradizione della Chiesa primitiva e quello dell'Occidente è il rinnovamento, l'eterno aggiornamento nel dialogo con il mondo… Ma ogni aggiornamento (nello stile, nella lingua, nella maniera di portare la Buona Novella) è gravido di alcune perdite, come anche di guadagni incontestabili.
Lo sviluppo del mondo ortodosso d'oggi è radicalmente diverso, e bisogna rendersene conto. Durante il comunismo le Chiese non avevano altra scelta che esistere sotto il suo dominio, per conquistarsi insieme ad un piccolo ruolo politico (rivestito dall'abito ecclesiale) il diritto alla sopravivenza. Con la libertà che in pochi giorni ha sconvolto l'Est dell'Europa, 10 anni fa, tutti questi giochi sono stati spazzati via. E ciò che rimane ancora dell'ecumenismo vive ormai i suoi tempi peggiori.
Se ci chiediamo perché, non troveremo la risposta nelle vicende politiche. Perché il mondo ortodosso si è stabilito di nuovo nel suo rapporto tradizionale con il mondo che lo circonda. Se dovessimo definire la natura di questo rapporto, potremmo usare l'espressione "senso della distanza dal profano". Il mondo spirituale si situa come un universo in sé, con una sua sacralità molto solenne, con i suoi riti, preghiere, feste, celebrazioni, vestiti, costumi, stile di vita, perfino mentalità che non si cambiano da secoli, con il suo calendario liturgico che esiste ormai da 2000 anni, con il suo linguaggio che non si confonde con la lingua parlata "fuori le mura". Questo mondo chiuso, denso, "assorbente" sfiora a volte l'elemento magico, nel senso che si considera quasi indipendente dall'uomo, sia di oggi sia di ieri.
Un ortodosso in Occidente, se è coinvolto nell'avventura ecumenica, non deve stancarsi di spiegare tutto questo ai suoi interlocutori, che spesso ribattono spontaneamente: "Ma il popolo, senza dubbio, deve cercare il nuovo rapporto con la storia, aspirare al rinnovamento della vita ecclesiale, ad una nuova evangelizzazione della sua fede!".
Una certa minoranza è su questa lunghezza d'onda. Ma la maggior parte dei fedeli vuole esattamente il contrario. Le idee portatrici di modernità (la russificazione della lingua liturgica, la riforma del calendario) sono percepite quasi come "versetti satanici". Ma se il nostro occhio vede solo il rito "cristallizzato", senza percepire il fuoco che sotto vi cova, il nostro sguardo è quasi cieco. In vecchi "vasi d'argilla", coperti di polvere ancora bizantina o slava, si può trovare un'intensità di vita spirituale paragonabile a quella di cui oggi si può solo leggere nelle vite dei santi e dei padri del deserto. Si può trovare l'eredità apostolica nella sua purezza, la scuola di preghiera incessante, la contemplazione dei misteri di Dio, il pentimento più profondo, il senso vivente della bellezza celeste. Chi ha visitato un Paese ortodosso, si ricorderà non certo dei "problemi" della Chiesa o della "politica", ma piuttosto del timore e dell'amore con cui il popolo si avvicina al calice e partecipa all'eucarestia. Ogni comunione per un fedele ortodosso è un vero "dramma" che presuppone una preparazione (il digiuno e la preghiera ecclesiale e individuale), passa attraverso la confessione e arriva all'incontro con il Signore profondamente e personalmente vissuto nei santi doni.
Forse la crisi ecumenica deriva anche dalla pretesa di vedere il nostro interlocutore come un riflesso travisato di noi stessi. Spesso cerchiamo il dialogo con la "parte migliore" dell'altro, che corrisponde a ciò che noi consideriamo un elemento importante nel nostro cristianesimo, al punto che apprezziamo la sua fede in base alla condivisione di questo elemento.
Un esempio: per un protestante è una prospettiva sbagliata considerare l'ortodossia come un pezzo della Bibbia incatenato in riti complicatissimi e in cerimonie inutili. Ma è altrettanto sbagliato per un ortodosso guardare al protestantesimo solo dal punto di vista della sua fedeltà o meno a tutta l'eredità patristica dei primi secoli. Con il nostro ecumenismo o senza di esso, le Chiese cristiane non torneranno né alla loro infanzia né al primo e benedetto giorno della Pentecoste. L'unica prospettiva che ci rimane è quella della ricerca di una nuova effusione dello Spirito Santo. Nella nostra Chiesa come anche nella casa dell'altro. Lo Spirito Santo è sempre inaspettato e improvviso, e proprio lui dovrà essere il protagonista dell'"ecumenismo dopo l'ecumenismo". Che a quel punto avrà anche un altro nome.
I fondamenti della speranza.
Ma torniamo alla coincidenza pasquale e alla sfida dell'unità, e proviamo a cercare la risposta al nostro interrogativo: stiamo veramente percorrendo un cammino che ci porta ad essere "cosa sola"? La critica ha sempre più parole di quante ne ha la speranza. Ma noi viviamo nella speranza della Pentecoste, non soltanto quella ch'è avvenuta cinquanta giorni dopo la Risurrezione di Cristo e non soltanto quella che verrà nel tempo della parusia, ma anche di quella Pentecoste quotidiana che invisibilmente, misticamente avviene nelle nostre Chiese storiche durante tutto il loro cammino.
Ogni giorno lo Spirito Santo ci manifesta e lascia il Suo dono nella bellezza, nella preghiera, nel sacrificio, nella celebrazione, nella carità, nella rivelazione della Parola di Dio. Ogni Chiesa conosce i suoi doni e deve saper condividerli con gli altri. L'ecumenismo futuro o piuttosto la ricerca dell'unità sarà quella dell'unità fra le offerte piene, generose e reciproche.
Ricordiamo le parole: "Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all'altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (Mt 5, 22-23). Più volte questo brano è stato citato durante tanti incontri ecumenici. Ma siamo veramente andati al fondo di questo messaggio? Non si tratta della cortesia ecumenica, ma della cosa molto più essenziale. Presentare un'offerta è un gesto antichissimo e primordiale in qualsiasi religione. Togliamo qualche cosa da noi stessi come parte migliore e la presentiamo a Dio. Oppure noi ci apriamo davanti a Dio, lo facciamo entrare nel nostro intimo, perché ci purifichi e perché ci abiti, e questo sforzo di apertura si presenta come nostro sacrificio, l'offerta dell'anima. Credo che la stessa offerta sia possibile anche nel rapporto fra le famiglie cristiane.
Quale che fu la causa della divisione, ognuna delle tre grandi confessioni che professano il Credo apostolico, ha profondamente vissuto la sua fede nell'intimità col Cristo, nella luce dello Spirito, anche se le forme storiche e umane di questa vita possono essere estranee per gli altri. Fino a oggi la polemica si incentrava sulle diverse forme, ma quasi nessuno voleva guardare ed entrare nella fede maturata nell'altro. Mi arrischierei a dire: nel Cristo vissuto da un altro. La crisi del vecchio ecumenismo non lascia altra soluzione. Il movimento verso l'unità non è a tempo indeterminato: ad un certo punto si comincia a girare a vuoto. E l'unica via d'uscita è la conversione dell'ecumenismo stesso dal dialogo gentile e a volte sterile all'autentica comunione nelle offerte.
Ciascuno di noi può portare il mistero della propria fede, della propria Chiesa a un altro e ricevere da lui il suo mistero e viverlo non accanto, ma insieme a lui. Se il Padre è comune, se il Cristo è unico, e nello Spirito partecipano tutti, nell'estrema profondità della nostra vita in Dio la divisione non può esistere. Occorre quindi andare dentro di sé per scoprire la comunione nella sorgente della nostra fede. Certo, questa forma di ecumenismo mistico o, diciamo, spirituale, non può essere sufficiente per il ritorno all'unità vera e propria, ma questo incontro nello Spirito vissuto insieme, questa vita della fede condivisa almeno per un attimo, dovrà anche contribuire a superare tutto ciò che per ora sembra insuperabile.
Su questo cammino - sembra strano - anche l'ostinazione e la rigidità che l'ortodossia manifesta certe volte nei rapporti ecumenici, può servire in modo paradossale allo scopo dell'incontro presso la sorgente comune. Perché questa rigidità alza il prezzo dell'unità. L'impasse attuale nel cammino ecumenico può essere un momento dialettico per il suo risveglio, per la sua trasformazione interiore. Non possiamo imporre condizioni a nessuno, come, per esempio, il ritorno immediato alla nostra successione apostolica o il rifiuto solenne dell'infallibilità papale, o l'ospitalità eucaristica subito. Il cammino all'unità passa attraverso una lunga maturazione spirituale che si esprime nello scambio delle offerte, nella condivisione dei doni dello Spirito Santo.
L'unità comincia quando scopriamo il Dio della nostra fede nel cuore di un altro, del nostro prossimo "che non è di quest'ovile". In altre parole, quando scopriamo l'immagine, il volto del "nostro" Cristo nello Spirito Santo riversato sul nostro confratello.