L'Ecumenismo spirituale
Card. Walter Kasper
I. Sono trascorsi più di quaranta anni dalla conclusione, l’8 dicembre del 1965, del Concilio Vaticano II, che ha segnato una svolta decisiva per l’impegno ecumenico, definendo nel Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio il ristabilimento dell’unità fra tutti i cristiani uno dei suoi principali intenti. Questo documento inizia con le parole: “Il ristabilimento dell'unità da promuoversi fra tutti i Cristiani, è uno dei principali intenti del Sacro Concilio Ecumenico Vaticano Secondo” (UR 1). Questa opzione del Concilio Vaticano II è fondata sul mandato di nostro Signore, che alla vigilia della sua morte ha pregato “affinché tutti siano una cosa sola.” Il Decreto chiarisce che non si tratta di un ecumenismo qualunque, ma di un ecumenismo della verità e dell’amore, volto a ricomporre l’unità visibile della Chiesa (cf. UR 2 s.).
Da allora in poi l’opzione ecumenica del Concilio è stata dichiarata irreversibile da Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint (1995) (UUS 3), dove egli aggiunge che essa non è una semplice “appendice” all’attività tradizionale della Chiesa (UR 20), ma “una delle priorità pastorali” del suo pontificato (UR 99). E Papa Benedetto XVI fin dal giorno successivo alla sua elezione a sommo pontefice, in un discorso programmatico pronunciato davanti ai cardinali riuniti nel conclave, si è dichiarato disposto a fare quanto è in suo potere per promuovere la fondamentale causa dell’ecumenismo, ribadendo poi questa affermazione durante la cerimonia d’inaugurazione del suo ministero, il 24 aprile 2005 in Piazza San Pietro. Da allora Papa Benedetto ha ripetuto questa affermazione in più occasioni.
Da quando la Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, si è aperta ufficialmente al movimento ecumenico, il dialogo ecumenico ha compiuto grandi passi in avanti. Questo è avvenuto sia a livello delle singole chiese locali che a livello della Chiesa universale. Il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani ha stabilito dialoghi ufficiali o conversazioni ed incontri con quasi tutte le Chiese e Comunità ecclesiali, con le Federazioni o Alleanze confessionali mondiali e con il Consiglio Ecumenico delle Chiese. Ne è scaturito un gran numero di documenti. Grazie a questi dialoghi è stato possibile pervenire ad avvicinamenti sostanziali in varie questioni ed, in alcuni casi, persino a consensi. Pietra miliare di questo percorso è stata la firma della “Dichiarazione Congiunta sulla Dottrina della Giustificazione” con la Federazione Luterana Mondiale (1999), e l’adesione a questa Dichiarazione da parte del Consiglio Metodista Mondiale nel luglio scorso.
Accanto a questi dialoghi è importante ricordare le visite di Papa Giovanni Paolo II a quasi tutti i Patriarchi orientali e soprattutto la recente visita di Papa Benedetto XVI al Patriarca ecumenico e la visita dell’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia a Roma. Le due visite a cui ho appena accennato sono da considerarsi storiche. Oltre ad esse, il rilancio del lavoro della Commissione teologica internazionale per il dialogo con le Chiese ortodosse nel loro insieme ha segnalato una nuova fase nei rapporti con le Chiese ortodosse. Ciò non vuol dire che abbiamo dimenticato i contatti con le comunità che nascono dalla Riforma del XVI secolo. Si potrebbe accennare a tanti incontri incoraggianti ad alto livello con queste Comunità ecclesiali durante l’anno scorso, l’ultimo in ordine di tempo è stata la visita di una delegazione finlandese all’inizio della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
Ancora più importante dei singoli risultati dei dialoghi e degli incontri ufficiali ai vertici delle chiese è tuttavia ciò a cui Papa Giovanni Paolo II fa riferimento nella sua Enciclica sull’ecumenismo Ut unum sint (1995), ovvero la fratellanza nuovamente scoperta tra i cristiani. Oggi non parliamo più tanto – come fa osservare il Santo Padre – di “cristiani separati” o di “fratelli e sorelle separati”, ma di “altri cristiani” e di “altri battezzati”. Questo ampliamento di vocabolario è rappresentativo. I cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali oggi non si vedono più come avversari; non si pongono più gli uni di fronte agli altri con sentimenti di antagonismo, di competizione o di indifferenza, ma si considerano come fratelli e sorelle che hanno intrapreso insieme il cammino verso la piena unità.
Già oggi si impegnano insieme a favore della pace e della giustizia nel mondo. Sin dall’inizio del moderno movimento ecumenico la promozione dell’unità e la missione nel mondo sono andate di pari passo. Nella promozione dell’unità e nella missione si attua l’auto-trascendenza della Chiesa e inizia la raccolta escatologica di tutti i popoli già annunciata dai profeti.
Alla base di questo sviluppo positivo ed incoraggiante, là dove il movimento ecumenico è inteso nella giusta maniera, non c’è né un filantropismo liberale, né un relativismo o un pluralismo postmoderno che non tiene conto delle differenze confessionali o abbandona l’identità cattolica; anzi, la base dei dialoghi è la comune confessione di fede nella santissima Trinità e in Gesù Cristo, unico e universale salvatore e redentore, e il mutuo riconoscimento dell’unico battesimo, attraverso il quale tutti i battezzati entrano a far parte dell’unico Corpo di Cristo e sono pertanto, fin da ora, in una comunione reale e profonda, anche se non ancora completa. La nuova fratellanza ecumenica dunque non significa semplicemente una realtà sentimentale e una sensazione familiare di cordialità, ma riguarda una realtà spirituale ontologicamente fondata.
Nonostante questi progressi incoraggianti, non si può tuttavia tacere che, al di là delle singole difficoltà, normali e facenti parte della vita, il dialogo si è in qualche modo arenato, anche se non si sono arrestati i colloqui e gli incontri, le visite e la corrispondenza. La situazione è mutata, l’atmosfera non è più la stessa, sono apparse all’orizzonte nuove sfide come per esempio l’enorme crescita dei movimenti evangelicali, pentecostali e carismatici che si sono sviluppati soprattutto nell’emisfero meridionale del mondo. D’altra parte, in alcune comunità protestanti si mostrano tendenze liberali soprattutto in questioni etiche, che creano nuove differenze e difficoltà. Mentre immediatamente dopo il Concilio si constatava talvolta un’atmosfera ottimistica e utopistica, oggi si prevede che il cammino ecumenico, almeno secondo le misure umane, sarà ancora lungo. Come frutto di questa riflessione il tema dell’ultima Sessione plenaria del PCPUC nel novembre 2006 aveva come titolo “L’ecumenismo in via di trasformazione”.
Come sempre ci sono diversi motivi per il cambiamento di una situazione. Uno dei motivi sta nel fatto che, dopo aver superato molti malintesi ed aver conseguito un consenso fondamentale sul fulcro della nostra fede, ora siamo giunti al nocciolo delle nostre differenze ecclesiologiche, o piuttosto delle nostre differenze istituzionali ed ecclesiologiche. Nel dialogo con le Antiche Chiese Orientali e con le Chiese ortodosse questa divergenza riguarda la questione del ministero petrino, mentre, nei rapporti con le Chiese riformate, concerne la questione della successione apostolica nel ministero episcopale. Quest’ultimo punto è tuttavia solamente la punta dell’iceberg di una differenza più profonda nella stessa ecclesiologia. Per poter risolvere tali punti, la Chiesa cattolica ritiene che sia fondamentale affrontare due questioni fondamentali.
Primo: abbiamo bisogno di un ecumenismo fondamentale, cioè dobbiamo rafforzare i fondamenti del nostro impegno ecumenico, la fede in Dio e in Gesù Cristo. Non solo per le altre Chiese, ma spesso anche per noi queste verità fondamentali e centrali stanno scomparendo in molti fedeli. Ma come si può parlare della giustificazione dei peccatori da parte di Dio, se non c’è più un vivace rapporto con Dio e se non c’è più la consapevolezza d’essere peccatore e di avere bisogno della redenzione? Secondo: la questione delle Chiese, quelle intese come Comunione. Intanto dobbiamo essere grati che la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio mondiale delle Chiese ha pubblicato un documento ancora provvisorio su “La natura e la missione della Chiesa”, alla cui elaborazione ha collaborato il nostro Consiglio e alla cui stesura finale vogliamo continuare a cooperare attivamente. Speriamo che questo possa essere un passo e un contributo importante per raggiungere la piena comunione e cioè la comunione eucaristica con i nostri fratelli e sorelle, il che è lo scopo dell’impegno ecumenico.
II. Dopo aver affermato tutto questo e tenendo in considerazione anche i vari passi di avvicinamento, rimane comunque un certo sentimento di delusione e di frustrazione. Per rimettere in moto la situazione attuale, è necessario un impulso ben più forte e vigoroso di quello che, per loro natura, i dialoghi accademici possono dare. In questo momento critico, dobbiamo richiamarci alla forza motrice originaria del movimento ecumenico ed alla dimensione pneumatologica dell’esistenza cristiana e della Chiesa. Perciò accanto alle basi teologica e ecclesiologica già menzionate bisogna riflettere sulle basi pneumatologica e spirituale. Perché l’unità dei discepoli di Cristo non si può “fare”, né tramite dialoghi teologici anche se sono importanti e irrinunciabili, né tramite una certa così detta diplomazia ecclesiastica o tramite azioni pragmatiche, anche se hanno una loro utilità. In ultima analisi l’unità della Chiesa è, sebbene visibile, una realtà peumatologica e quindi un dono dello Spirito di Dio. Secondo l’apostolo Paolo c’è una diversità di carismi nella Chiesa, ma uno solo è lo Spirito (1 Cor 12,4), che è quasi l’anima della Chiesa. È significativo che le parole di Gesù “affinché tutti siano una sola cosa” non è un comandamento ma una preghiera; e l’ecumenismo in ultima analisi non è altro che unirsi a questa preghiera di nostro Signore e farla nostra.
Queste per me non sono solamente riflessioni astratte, sono pensieri che vengono della mia esperienza personale, maturata nel corso di molti anni ma anche di ogni giorno. In questo lasso di tempo ho partecipato a molti dialoghi e a molti incontri ecumenici. Ed era sempre lo stesso. Se questi dialoghi rimanevano soltanto a livello accademico erano forse interessanti ma non portavano frutto. Spesso, quando non c’era preghiera e un’atmosfera spirituale, si poteva dimenticarli. Mentre se c’era un clima di preghiera i cuori si aprivano, era possibile superare malintesi e pregiudizi, promuovere comprensione anche per le differenze, trovare convergenze e talvolta anche consensi e soprattutto cresceva il mutuo amore e lo slancio per continuare.
Questa esperienza personale è confermata dall’esperienza storica della Chiesa. Le divisioni in seno alla cristianità non sono dovute primariamente a dispute a livello di discussioni o a controversie su formule dottrinali divergenti, ma ad un’esperienza di vita che ha portato ad un reciproco allontanamento. Varie forme di vita di fede cristiana sono diventate estranee le une alle altre, fino a non potersi più capire. Così le divisioni del passato sono il risultato – come ha detto il Concilio – di un raffreddamento dell’amore. Problemi, come tali risolvibili, sono diventati ostacoli insormontabili, da differenze, di per sé legittime, sono sorte controversie, che si sono esagerate e assolutizzate. Alla fine ci si è allontanati e non ci si è più compresi. Questo ha condotto ad inevitabili fratture. Diverse condizioni e costellazioni culturali, sociali e politiche hanno svolto un ruolo importante in tutto ciò. Con questo non vogliamo scordare che si è trattato anche di una ricerca della verità e di serie differenze di fede. Ritorneremo in seguito su questo importante aspetto. Ma la ricerca della verità è stata sempre iscritta nell’esperienza concreta e legata a questa inscindibilmente.
D’altra parte già agli inizi, il movimento ecumenico fu in gran parte alimentato da un movimento spirituale, che ha trovato una sua espressione soprattutto nella Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, avviata nel 1933 dall’Abate Paul Couturier, e per noi questa settimana è tuttora il centro ecumenico dell’anno liturgico.
Il Concilio Vaticano II, nel suo Decreto sull’Ecumenismo Unitatis Redintegratio, vede il movimento ecumenico come impulso ed opera dello Spirito Santo (UR 1; 4). E non a caso il Concilio ed il Papa di allora hanno descritto l’ecumenismo spirituale come il cuore del movimento ecumenico (UR 8). Ecumenismo spirituale secondo il Concilio significa: preghiera, soprattutto preghiera ecumenica comune, conversione personale e riforma istituzionale, penitenza e sforzo per la santificazione personale (UR 5-8). Papa Giovanni Paolo II nella sua enciclica Ut unum sint e in molti altri documenti ha spesso ripetuto e sottolineato questa posizione e Papa Benedetto XVI continua sulla stessa scia.
Recentemente il PCPUC ha pubblicato un piccolo libro sull’ecumenismo spirituale, che si fonda su molte esperienze concrete. La pubblicazione era stato raccomandata dalla Plenaria del 2003. Un primo progetto era stato presentato e discusso alla Conferenza internazionale tenutasi a Rocca di Papa nel novembre 2004 in occasione della celebrazione del 40mo anniversario del Decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II. Nel frattempo abbiamo ricevuto molti suggerimenti da organismi ecumenici internazionali e locali. Così il libro è il risultato di molte esperienze mie personali e di tanti altri in varie situazioni e parti del mondo. L’intento della pubblicazione è di dare suggerimenti concreti e pratici a tutti coloro che – come si suol dire sono alla base, cioè nelle diocesi, nelle parrocchie e nelle varie comunità – sono impegnati nel lavoro ecumenico.
Il particolare accento posto sull’ecumenismo spirituale è importante anche alla luce della situazione spirituale attuale che, da una parte, è segnata dal relativismo e dallo scetticismo postmoderni, e dall’altra presenta un desiderio nostalgico di esperienza spirituale, spesso vago e imprecisato. È evidente una scontentezza che scaturisce da un vuoto lasciato da una civilizzazione tecnica, funzionale ed economica. Si percepisce anche una scontentezza con una chiesa prevalentemente istituzionale, che non dà abbastanza nutrimento spirituale, che non soddisfa i desideri più profondi del cuore. Questo è uno dei motivi per cui tanti fedeli lasciano la Chiesa e si associano in comunità carismatiche e pentecostali o si affidano a pratiche esoteriche. Questa situazione ci obbliga a chiarire dapprima il concetto di spiritualità.
III. Attualmente, la parola “spiritualità” è molto utilizzata e racchiude molti significati. È bene allora, per prima cosa, fare un po’ di chiarezza su questo termine e sul suo significato. E poi potremo dare suggerimenti concreti.
Spiritualità è un “prestito” lessicale, che proviene dal cattolicesimo francese. Tradotto letteralmente significa: “pietà”. Tuttavia, con ciò, non è coperta tutta la gamma di significati di tale concetto. Il Dictionary of Christian Spirituality descrive la spiritualità come quel comportamento, quella fede e quell’insieme di pratiche che definiscono la vita degli uomini, aiutandoli a raggiungere realtà che vanno oltre la percezione dei sensi. Per migliorare questa descrizione, potremmo dire che spiritualità è uno stile di vita guidato dallo spirito. Il Lessico ecumenico dice pertanto: “La spiritualità consiste nel dispiegamento dell’esistenza cristiana sotto la guida della Spirito Santo.”
È chiaro allora che il concetto di spiritualità ha due componenti: una dimensione che proviene “dall’alto” e che non è influenzata dall’uomo poiché è opera dello Spirito di Dio, ed una dimensione “dal basso”, che racchiude la condizione umana e la situazione contingente in cui si trova l’esistenza cristiana ed in cui essa tenta di forgiarsi e definirsi spiritualmente. La spiritualità vive dunque in tensione tra l’unico Spirito Santo, che opera ovunque ed in tutto, e la varietà delle realtà e delle forme di vita umane, culturali e sociali. È quindi nella tensione tra unicità e pluralità che risiede fondamentalmente il significato della spiritualità.
Con questa tensione la spiritualità racchiude il pericolo o di una spaccatura o di preponderanza di un elemento. In quanto espressioni culturali e terrene della fede incarnata, le spiritualità portano in sé il rischio del sincretismo, quando la fede cristiana si mischia ad elementi religiosi e culturali non adatti, che falsano la fede stessa. Le varie spiritualità possono anche unirsi a scopi e questioni politiche, conferendo alla fede cristiana non solo un tono nazionale, ma anche un’impronta ideologica pseudo-spirituale o nazional-sciovinista. In alcune forme di fondamentalismo religioso tale pericolo è estremamente evidente. A fianco di queste, esistono altre forme di spiritualità, di cosiddetta spiritualità ecumenica che sono solo emotive e sentimentali e possono essere descritte come banalizzazione borghese della fede cristiana.
Ogni spiritualità deve pertanto chiedersi da quale spirito si lascia guidare, dallo Spirito Santo o dallo spirito del mondo e del tempo. La spiritualità richiede un discernimento degli spiriti. La spiritualità non è esonerata dalla ricerca della verità. Per questo, non ci si può sottrarre comodamente alla teologia richiamandosi alla spiritualità. La spiritualità, per rimanere sana, ha bisogno di una riflessione teologica.
IV. I grandi maestri della vita spirituale ci hanno lasciato un ricco tesoro di esperienze per il discernimento degli spiriti. Le più conosciute sono le regole per il discernimento degli spiriti del libretto di esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Vale la pena rileggerle attentamente, dal punto di vista ecumenico; è possibile, in tal senso, trarne un grande beneficio. Tuttavia, io preferisco intraprendere qui un altro cammino ed interrogarmi, in tre punti, su quale sia la natura e l’opera dello Spirito a livello sia biblico che sistematico per giungere ad una spiritualità ecumenica oggettiva sulla base di una teologia riflettuta dello Spirito Santo.
1. Il significato fondamentale in ebraico e in greco di “spirito” (ruah, pneûma) è vento, respiro, soffio e – poiché il respiro è segno di vita – vita, anima ed infine, in senso traslato, lo spirito come principio vitale dell’uomo, come sede delle sue sensazioni spirituali e della sua volontà. Non si tratta tuttavia di un principio immanente nell’uomo; si riferisce piuttosto alla vita donata e resa possibile da Dio. Dio dona lo spirito e lo può anche riprendere. Lo spirito di Dio è dunque la forza vitale creatrice di tutte le cose. Esso dà all’uomo sensibilità artistica e perspicacia, discernimento e saggezza.
È lo Spiritus creator, che opera in tutta la realtà della creazione. “Lo spirito del Signore riempie l’universo, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce” (Sap 1,7; cf. 7,22-8,1). Secondo l’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, soccorre nelle attese e sofferenze del mondo, intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili (Rom 8,26 s). Secondo Agostino, lo Spirito è “la forza di gravità della carità, lo slancio verso l’alto, che si oppone alla forza di gravità verso il basso e conduce tutto alla realizzazione in Dio” (Conf. XIII, 7,8). Ogni verità – come ci insegna Tommaso d’Aquino – da ovunque essa derivi, proviene dallo Spirito Santo (cf. S. th I/II,109,1).
Una dottrina dello Spirito Santo pertanto non si deve rintanare fin dall’inizio dietro le mura di una chiesa o ripiegarsi su se stessa. Essa deve situarsi all’interno di una prospettiva universale. La pneumatologia è possibile soltanto nell’ascolto, nell’attenzione rivolta alle tracce, alle attese, alle gioie e alle vanità della vita, nell’osservazione dei segni del tempo che si trovano ovunque, là dove la vita nasce, è in fermento, si espande, ma anche là dove le speranze di vita vengono frantumate, strozzate, imbavagliate e soppresse. Ovunque si mostri la vita vera e nuova, là è all’opera lo Spirito di Dio.
Il Concilio Vaticano II ha visto questo operare universale dello Spirito non solo nelle religioni dell’umanità, ma anche nella cultura e nel progresso degli uomini (cf. Gaudium et spes, 26; 28; 38; 41; 44). Papa Giovanni Paolo II ha sviluppato ulteriormente questo pensiero nella sua Enciclica sulle missioni Redemptoris missio, dove leggiamo: “Lo Spirito, dunque, è all’origine stessa della domanda esistenziale e religiosa dell’uomo, la quale nasce non soltanto da situazioni contingenti, ma dalla struttura stessa del suo essere”. Poi il Santo Padre continua: “La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui, ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni. Lo Spirito, infatti, sta all’origine dei nobili ideali e delle iniziative di bene dell’umanità in cammino” (n. 28).
Una spiritualità ecumenica ispirata alla Bibbia non può dunque ripiegarsi su se stessa o essere esclusivamente ecclesiocentrica. Essa deve essere attenta alla vita e servire la vita. Deve occuparsi della quotidianità, delle piccole esperienze di tutti i giorni, così come delle grandi questioni di vita e sopravvivenza dell’uomo moderno, ma anche delle religioni e delle opere della cultura umana. Secondo un principio della mistica tardomedioevale e di Ignazio di Loyola, è possibile trovare Dio in tutte le cose.
Spiritualità ecumenica significa cooperazione in favore della vita, della giustizia, dei diritti dell’uomo e della pace. In questo contesto non penso in primo luogo a azioni spettacolari, ma a cooperazione nelle opere di carità di ogni giorno, per i bambini, i giovani, i malati, gli handicappati e gli anziani. Penso anche alla cooperazione nella pastorale per i turisti, nei mass media ecc. In tutti questi ambiti dobbiamo superare lo spirito di competitività, perché deve imperare la solidarietà. Possiamo fare tante cose insieme, e tramite questa cooperazione ci conosciamo meglio e cresciamo insieme.
2. Lo spirito nella Bibbia non è solo forza creatrice di Dio: è anche la forza divina che si esplicita nella storia. Lo Spirito parla attraverso i profeti e viene promesso come lo spirito messianico (Is 11,2; 42,1). È la forza della nuova creazione, che trasforma il deserto in paradiso e lo rende luogo di legge e di giustizia (Is 42,15 ss). “Non con la potenza, né con la forza, ma col mio spirito” (Zac 4,6). Lo spirito avvicina dunque la creatura che geme e soffre al Regno della libertà dei figli di Dio (cf. Rom 8,19 ss).
Il Nuovo Testamento annuncia la venuta del Regno della libertà in Gesù Cristo. Egli nasce dallo Spirito (Lc 1,35; Mt 1,18.20); nel momento del battesimo, lo Spirito discende su di lui (Mc 1,9-11); tutta la sua opera sulla terra è nel segno dello Spirito (Lc 4,14.18; 10,21; 11,20). Lo Spirito riposa in lui; così egli può annunciare il messaggio di gioia ai poveri, la libertà ai prigionieri, la vista ai ciechi e la giustizia agli afflitti (Lc 4,18). La sua risurrezione avviene nella forza dello Spirito (Rom 1,3) e nella forza dello Spirito egli continua ad essere presente nella Chiesa e nel mondo. “Il Signore è spirito” (2 Cor 3,17).
Poiché in Gesù Cristo, nella sua vita sulla terra e nella sua opera come Redentore, l’azione dello Spirito iscritta nella storia della salvezza giunge alla sua pienezza escatologica, lo Spirito è per Paolo lo Spirito di Cristo (Rom 8,9; Fil 1,19), lo Spirito del Signore (2 Cor 3,17) e lo Spirito del Figlio (Gal 4,6). La confessione di Gesù Cristo è quindi il criterio fondamentale per il discernimento degli spiriti: “…nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: ‘Gesù è anatema’, così nessuno può dire: ‘Gesù è Signore’, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1 Cor 12,3).
Con ciò viene affermato il criterio cristologico, che è decisivo in una spiritualità ecumenica. Esso vuole lottare contro il pericolo di un relativismo e sincretismo spirituale, che minaccia le esperienze spirituali delle varie religioni, confondendole tra loro o selezionandole in maniera eclettica. La spiritualità ecumenica preserva l’unicità e l’universalità del significato salvifico di Gesù Cristo. Essa è anche contraria alla tentazione sognatrice ed esaltata di eliminare l’intermediazione cristologica e accedere direttamente a Dio. E ricorda: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18).
Una spiritualità ecumenica legittima sarà dunque in prima linea una spiritualità biblica ed avrà un influsso sulla lettura comune delle scritture e sullo studio comune della Bibbia. Essa si impregnerà della Lectio divina, tanto raccomandata dal Concilio (DV 25), cioè la lettura della Bibbia legata alla preghiera che diventa un colloquio fra Dio e l’uomo. Essa rifletterà continuamente sui racconti biblici della venuta di Gesù, sul suo messaggio di libertà, sulla sua opera liberatoria e salvifica, sul suo servizio degli altri, sulla sua kenosi fino alla morte, sulla sua intera persona e sul suo intero operato, facendo di questi il criterio fondante. Essa si impregnerà della sequela di Gesù e continuerà a cercare il volto di Cristo, come ha menzionato in maniera programmatica Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Novo millennio ineunte del 2001. Tale spiritualità si rivela in ciò che Paolo definisce i frutti dello Spirito: carità, gioia, pace, pazienza, affabilità, bontà, fedeltà, dolcezza e temperanza (Gal 5,22).
Spiritualità cristocentrica significa spiritualità dell’ascolto della parola e significa anche spiritualità sacramentale. Cristo è presente nella parola e nei sacramenti; il Concilio ha rinnovato l’immagine della mensa della parola e del corpo di Cristo (DV 21). Ecumenicamente abbiamo in comune soprattutto il Battesimo, tramite il quale siamo membra dell’unico corpo di Cristo e già adesso in una comunione profonda sebbene non piena. Pertanto le celebrazioni di commemorazione del Battesimo comune sono centrali per una spiritualità ecumenica. Si può pensare alla festa del Battesimo di Cristo o a cerimonie nel periodo della Quaresima. Purtroppo non è possibile una piena comune partecipazione all’eucaristia. Conosco bene i problemi pastorali che ne possono scaturire. Negli ultimi anni si è sviluppata la consuetudine, che coloro che non possono pienamente partecipare e non possono comunicarsi chiedono la benedizione del sacerdote; così non si sentono esclusi e partecipano come è loro possibile.
La spiritualità cristologica valorizza anche i testimoni di Cristo. Abbiamo in comune molti santi dei primi secoli e abbiamo moltissimi testimoni, che possiamo chiamare martiri soprattutto nel secolo scorso. Essi sono modelli ed esempi della sequela di Gesù. Non da dimenticare Maria, la Madre di Gesù. Anche molti evangelici oggi la riscoprono come una figura biblica e come sorella nella fede.
Infine, nello Spirito, possiamo e dobbiamo dire “Abba, Padre!” come Gesù ha detto a Dio (Rom 8,15.26 ss; Gal 4,6). Pertanto, una spiritualità ecumenica è una spiritualità della preghiera. Come Maria e gli Apostoli – ed insieme ad essi – tale spiritualità deve raccogliersi sempre nella preghiera per la venuta dello Spirito che unisce tutti i popoli nell’unica lingua, nella preghiera per la venuta di una Pentecoste rigeneratrice (cf. Atti 1,13 ss.). Una spiritualità ecumenica vive, come lo stesso Gesù, della preghiera; si accorda alla preghiera di Gesù e si unisce a lui, nel chiedere che tutti siano uno (cf. Gv 17,21). Nella preghiera sopporta, come Gesù sulla croce, anche l’esperienza dell’abbandono dello spirito e dell’abbandono di Dio (cf. Mc 15,34); solo nella forza della preghiera può sopportare difficoltà e delusioni ecumeniche, come pure l’esperienza ecumenica del deserto.
3. Accanto al criterio cristologico per Paolo c’è anche il criterio ecclesiologico. Paolo collega lo Spirito alla costruzione della comunità e al servizio nella Chiesa. Lo Spirito è stato donato per il bene di tutti. I vari doni dello Spirito devono servire quindi gli uni agli altri (1 Cor 12,4-30). Lo Spirito non è uno Spirito di confusione, ma un Dio di pace (1 Cor 14,33). Però l’opera dello Spirito non è limitata alle istituzioni della Chiesa e monopolizzata da esse, lo Spirito è dato a tutti come afferma la Bibbia, ognuno ha il suo carisma. Ma lo Spirito non opera quando gli uomini sono gli uni contro gli altri, ma quando essi sono gli uni con gli altri, e grazie al contributo personale da parte di ciascuno. Lo Spirito è avverso ad ogni divisione in fazioni e partiti. Il maggior dono dello Spirito è la carità, senza la quale la conoscenza non ha nessun valore. La carità non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio; tutto sopporta e non viene mai meno (cf. 1 Cor 13,1-4.7).
La tradizione teologica ha sviluppato proprio questo aspetto. Secondo Ireneo di Lione, la Chiesa è “il recipiente, in cui lo Spirito ha riversato la fede e la mantiene fresca”; là dove è la Chiesa, è anche lo Spirito di Dio; là dove è lo Spirito di Dio, là è la Chiesa e tutta la grazia” (Adv. haer. III, 24,1). Ed Ippolito dice: “Festinet autem et ad ecclesiam ubi floret spiritus” (Trad apost. 31; 35). In tutta la tradizione occidentale, ispirata soprattutto da Agostino, lo Spirito è l’amore tra Padre e Figlio, è ciò che c’è di più interno a Dio ed al tempo stesso è di più esterno a Dio, poiché, in lui e attraverso di lui, l’amore di Dio si riversa nei nostri cuori. Nello Spirito Dio dona il suo intimo all’esterno cosicché noi possiamo condividere la sua vita. Lo Spirito è dunque il principio vitale della vita cristiana e quasi l’anima della Chiesa (cf. LG 7).
La spiritualità ecumenica è dunque una spiritualità ecclesiale e, per questo, una spiritualità comunitaria. La spiritualità ecumenica si sforzerà di giungere al “Sentire ecclesiam”, tenterà di entrare più profondamente nell’essenza, nella tradizione ed in particolare nella liturgia della Chiesa, rendendo la liturgia attuale e consapevole. La spiritualità ecumenica vive della festa della liturgia. Tale spiritualità ecumenica perlopiù viene vissuta soprattutto in gruppi e circoli ecumenici. Questi gruppi, tuttavia, non possono distaccarsi dalla più ampia comunità della Chiesa ed elevarsi sopra di essa. Non possono fare ecumenismo a loro proprio gusto e maniera. Debbono sentirsi come membri che contribuiscono alla vita di tutto il corpo della Chiesa e d’altra parte ricevono anche dalla comunità più grande. La spiritualità ecumenica si studia di conservare l’unità dello Spirito (cf. Ef 4,3).
Vivere nella Chiesa, con la Chiesa e vivere la Chiesa vuol dire soffrire anche nella Chiesa e con la Chiesa. Essa soffre e sanguina per le ferite inferte dalle divisioni. Tale sofferenza è essenziale per la spiritualità ecumenica. Così, la spiritualità ecumenica mobilita la coscienza della Chiesa, impedendole di ripiegarsi su se stessa e sulla sua autosufficienza confessionale stimolandola, al contrario, a ricorrere e ad attingere alla ricchezza delle altre tradizioni per cercare una più ampia unità ecumenica e, in tal modo, pervenire alla pienezza concreta della sua cattolicità. Essa, quindi, schiude in maniera profetica una visione del futuro davanti alla realtà ecclesiale concreta, senza sfuggire di fronte a questa realtà, ma sforzandosi invece con pazienza e costanza di giungere al consenso.
È lo Spirito che ci fa entrare nella verità sempre più grande e sempre più profonda; esso deve guidarci in tutta la verità (Gv 16,13). Ciò avviene in vari modi, uno dei quali, secondo il testo conciliare già citato, è l’esperienza spirituale. Di questa fa parte anche l’esperienza spirituale ecumenica. Infatti, il dialogo ecumenico non è semplicemente uno scambio di idee, ma uno scambio di doni e di esperienze spirituali (UUS 28). Ciò è possibile per ogni cristiano, nel luogo e nel modo suo proprio, poiché ognuno a suo modo è un esperto, è una persona che ha fatto delle esperienze e vuole comunicarle ad altri. Per il dialogo ecumenico vale dunque quanto ha detto Paolo per ogni raduno della comunità: Quando vi riunite, ognuno porti il proprio contributo (cf. 1 Cor 14,26).
Negli ultimi decenni noi cattolici abbiamo imparato molto dalle esperienze dei nostri fratelli e delle nostre sorelle protestanti per quanto riguarda il significato della Parola di Dio e l’interpretazione della Sacra Scrittura; essi, a loro volta, imparano dalla realtà dei nostri segni sacramentali e dal nostro modo di celebrare la liturgia. Nell’incontro ecumenico con le Chiese orientali, possiamo apprendere dalla loro ricchezza spirituale e dal loro rispetto per il mistero, mentre esse possono condividere le nostre esperienze pastorali e le nostre esperienze a contatto con il mondo odierno. Come suggerisce un’espressione ispirata di Papa Giovanni Paolo II, la Chiesa può dunque imparare a respirare di nuovo con due polmoni.
Pertanto, il dialogo ecumenico non ha come obiettivo primario quello di indurre gli altri a convertirsi alla nostra Chiesa ma la conversione di tutti a Cristo. Naturalmente, le singole conversioni nel senso tradizione non possono e non devono essere escluse; dobbiamo avere un grande rispetto per le decisioni prese a livello di coscienza personale che motivano tali scelte. Tuttavia, anche nel caso della singola conversione, difatti non si tratta di una conversione ad un’altra Chiesa, ma di una conversione alla piena verità di Gesù Cristo. In tal senso, tutti devono convertirsi, dato che la conversione non è un atto compiuto una volta per sempre, ma è un processo continuo.
L’incontro ecumenico sostiene tale conversione, poiché conduce all’esame di coscienza ed è inseparabile dalla conversione personale e dal desiderio di una riforma della Chiesa (cf. UUS 16; 34 ss; 83 ss). Quando, scambiandoci le nostre reciproche esperienze confessionali e partendo dai nostri diversi presupposti, ci avviciniamo a Gesù e raggiungiamo la misura della piena statura di Cristo (Ef 4,13), allora diventiamo con lui una cosa sola. Lui è la nostra unità. In lui, dopo aver superato le nostre divisioni, possiamo realizzare storicamente, in maniera concreta, anche tutta la pienezza della cattolicità.
Chiediamoci adesso: qual è l’unità della pienezza verso cui ci avviamo? La risposta è la seguente: non si tratta di una fusione come quella delle grandi ditte internazionali nel nostro mondo globalizzato; non è neppure un sistema complessivo, dal punto di vista speculativo o istituzionale, nel quale gli opposti si annullano, sul tipo della dialettica hegeliana. In questo risiede la differenza di fondo tra dialogo e dialettica. Certo, il dialogo tenta di dissipare i malintesi e superare le divisioni tra i partner, tendendo alla riconciliazione. Ma proprio la riconciliazione non cancella l’alterità dell'altro, non l’assorbe e non la risucchia, facendola scomparire. Al contrario, la riconciliazione riconosce l’altro nella sua alterità. L’unità nella carità non viene raggiunta quando l’identità dell’altro è annullata e assorbita, ma, al contrario, quando questa viene confermata e riempita.
Quest’esperienza dell’unità nella carità è il modello dell’unità cristiana ed ecclesiale. Essa trova, in ultima analisi, il suo fondamento nell’amore trinitario tra Padre, Figlio e Spirito Santo ed è il modello per l’unità ecclesiale; l’unità della Chiesa è come un’icona della Trinità (cf. LG 4; UR 3).
In ultima analisi, l’ecumenismo e l’unità sono un evento spirituale. Là dove si perviene ad un consenso ecumenico, questo consenso sarà sperimentato come un dono spirituale e come una nuova Pentecoste. Di questa nuova Pentecoste ha parlato Papa Giovanni XXIII, aprendo il Concilio Vaticano II con una chiara prospettiva ecumenica. Sono convinto che, se noi preghiamo come Maria e gli apostoli nel Cenacolo (Atti 1,12-14) e se ci impegniamo per quanto ci è possibile, un giorno riceveremo questo dono.