Ecumene

Sabato, 17 Luglio 2004 20:00

Perché la fede cristiana ha bisogno del giudaismo

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di Card. Roger Etchegaray

Relazione tenuta nel corso del Simposio organizzato dalla Commissione teologico-storica del Grande Giubileo dell'anno 2000 avente come tema "Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano".

Il cristianesimo ha bisogno del giudaismo? Quando ero ragazzo, una domanda del genere mi sarebbe parsa insolita, forse improponibile. Nel mio piccolo villaggio basco, non ho mai incrociato l'«ebreo errante». Una volta l'anno, la liturgia del Venerdì Santo mi faceva pregare «per gli ebrei infedeli». Quando mia madre mi conduceva nella vicina Bayonne per comprare il vestito buono, da un sarto che mi diceva essere ebreo, ero sorpreso nell'incontrare un uomo come gli altri; e fu lui stesso a confezionare la mia prima tonaca! In Seminario, sull'«insegnamento del disprezzo» prevaleva quello dell'insignificanza: l'ebreo non contava nulla, e io non ho mai avvertito alcun bisogno religioso di Ebraismo.

Ho provato il primo shock l'anno della mia ordinazione sacerdotale, esattamente 50 anni fa, quando non so come mi capitarono sotto gli occhi i «dieci punti di Seelisberg», elaborati in Svizzera da un piccolo gruppo di ebrei e cristiani. Oggi, quel testo che allora era tanto profetico e coraggioso, mi sembra abbastanza banale. Nel 1965, da esperto del Concilio Vaticano II, ammirai la dolce ostinazione dispiegata dal cardinale Bea per far votare la dichiarazione sugli ebrei Nostra Aetate. Otto anni dopo, quando ero arcivescovo di Marsiglia, grande città portuale in cui convivevano pacificamente 80 mila ebrei e 80 mila musulmani, fui, insieme ad altri tre vescovi francesi, cofirmatario di uno dei più aperti orientamenti sulle relazioni con gli ebrei offerto, non senza ripensamenti, da un episcopato. Ma fu soprattutto all'interno del Comitato internazionale di collegamento fra Chiesa cattolica ed Ebraismo mondiale che imparai fino a che punto il dialogo fosse difficile da una parte e dall'altra per via di una profonda asimmetria fra i protagonisti.

Questo preambolo mi consente di entrare senza indugi nel vivo della questione con vigore e con rigore. Il cristianesimo ha bisogno del giudaismo? La risposta spontanea è sì, un sì franco e deciso, un sì che esprime un bisogno vitale e quasi viscerale. Ma, naturalmente, io non posso che rispondere a nome della mia Chiesa, «scrutando» il suo «mistero» secondo la bella espressione della Nostra Aetate, nel pieno rispetto della maniera diversa in cui l'ebraismo vede e definisce se stesso. Per me, il cristianesimo non può pensare se stesso senza l'ebraismo, non può fare a meno dell'ebraismo. Fin dall'inizio del suo pontificato (12 marzo 1979) a Magonza, Papa Giovanni Paolo II osò dichiarare: «Le nostre due comunità religiose sono legate al livello stesso della loro identità». Ricordo ancora (ero presente) le sue parole folgoranti nella grande sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986: «La religione ebraica non ci è "estrinseca" ma, in un certo senso, è "intrinseca" alla nostra religione. Noi abbiamo dunque verso di lei dei rapporti che non abbiamo con nessun'altra religione. Voi siete i nostri fratelli preferiti e, in un certo senso, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori».

Queste parole, in fondo, non hanno nulla di nuovo o di audace; si ispirano all'immagine paolina della Lettera ai Romani (11,16-24) dell'ulivo buono che è Israele sul quale sono stati innestati i rami d'ulivo selvatico che sono i pagani. E san Paolo, l'antico fariseo divenuto «l'apostolo delle nazioni» dirà al pagano-cristiano: «Non menar tanto vanto; non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» (Rom. 11, 18)…è l'ebreo che ti porta. E non è forse nel Vangelo di Giovanni, che si vorrebbe intriso di antigiudaismo, che Gesù proclama solennemente alla Samaritana: «La salvezza viene dai giudei» (Gv. 4,22). Se le cose stanno veramente così, come spiegare il fatto che nel corso dei secoli tanti cristiani abbiano vissuto come se avessero dimenticato le loro radici, o peggio disprezzando il loro fratello maggiore? Comprendo bene la reazione del Rabbi Askenazi che diceva: «Non siamo neppure fratelli separati, perché non ci siamo mai incontrati». Di fatto, avvertiamo tutti la dolorosa ferita di quella che Fadiey Lovosky chiamava significativamente «la lacerazione dell'assenza».

Ma allora, per quale miracolo ebrei e cristiani si incontrano dopo duemila anni, o si mettono ad esaminare insieme i rapporti rovesciati che hanno avuto nel corso della storia? Perché c'è stato bisogno della Shoah per aprire l'era del dialogo? A dire il vero, la rottura non era forse cominciata con lo «scandalo» della croce di Cristo? Il passo ispirato di Jules Isaac presso Giovanni XXIII non è certamente estraneo all'avvio di una primavera tardiva e ancora timida. Ora cominciamo a prendere coscienza del fatto che la nostra identità cristiana è una identità ricevuta da altri, e che questo altro è il popolo eletto che esiste solo in quanto derivato da Dio. Il processo in atto va ben oltre la semplice constatazione della ebraicità carnale di Gesù ormai affermata senza difficoltà e da parte di tutti, con tutte le conseguenze culturali e cultuali nella liturgia e nella vita della Chiesa, oggi ammesse abbondantemente e senza imbarazzo da autori sia ebrei che cristiani. Giovanni Paolo II, ancora una volta, ricevendo l'11 aprile scorso la Pontificia Commissione Biblica, ha ricordato che non si può esprimere pienamente il mistero del Cristo senza ricorrere all'Antico Testamento. Fin dal secondo secolo, contro Marcione, la Chiesa dava testimonianza di questo rapporto vitale, in seguito molto oscurato se non camuffato. Da parte mia, amo ricordare che la Chiesa cattolica celebra costantemente la festa della Presentazione di Gesù al Tempio. E non finirò mai di scoprire fino a qual punto la mia preghiera, compresa la preghiera che Cristo insegnò ai suoi discepoli, il «Padre nostro», è impastata di citazioni e salmodie ebraiche. Tutto in me respira la pietà e la saggezza degli «anawim», i poveri del Signore.

Ma questo radicamento, per quanto importante, mi lascia ancora sulla soglia del problema, del vero problema contro il quale mi scontro e per il quale mi batto. Ciò che mi urta, ciò che oggi mi sconvolge, è la perseveranza del popolo ebreo nonostante tutti i pogròm, la sua sopravvivenza dopo i forni crematori. Non c'è, lì, la testimonianza invincibile di una vocazione permanente, di un significato attuale per il mondo, ma soprattutto nel seno stesso della Chiesa? Ciò è molto più che scoprire la ricchezza di un patrimonio comune; è scrutare nel disegno di Dio la missione che il popolo ebreo deve ancora e sempre compiere. Che cosa significa per me, cristiano, questo faccia a faccia permanente che è l'ebreo? Che cosa significa per la mia Chiesa questo popolo ebreo che non cessa di far risaltare il tempo dell'Antico Testamento in un tempo che io credevo esser divenuto una volta per tutte il tempo del Nuovo Testamento? Affermando, con san Paolo, che la seconda Alleanza non ha cancellato la prima, perché «i doni di Dio sono irrevocabili» (Rm. 11,29), la Chiesa arriva al punto di riconoscere all'ebraismo una funzione di salvezza dopo il Cristo? Per la mia coscienza cristiana, il confronto con questo volto ebreo che finora avevamo dissimulato se non sfigurato, con questa Sinagoga davanti alla quale avevamo chiuso gli occhi, comporta al tempo stesso un profondo mistero e una gigantesca sfida.

Parlare di «mistero» alla maniera di san Paolo (Rm. 11,25) vuol dire riconoscere che il significato ultimo della storia della salvezza ci sfugge poiché la sua chiave è in Dio, e ammettere che non tutto è svelato perché non tutto è compiuto. Certo, la Chiesa proclama chiaramente che Gesù Cristo è l'unico Salvatore del mondo; e vive in tutto il suo essere della sua morte e resurrezione. Ma la perennità d'Israele non è il segno di ciò che le manca per la completa realizzazione della sua missione? Di fronte al «già» della Chiesa, Israele è la testimonianza del «non ancora», di un tempo messianico non pienamente concluso. Il popolo ebraico e il popolo cristiano si ritrovano così in una situazione di contestazione o meglio di emulazione reciproca. Quando noi cristiani ci rallegriamo per il «già», gli ebrei ci ricordano il «non ancora», e questa tensione feconda è nel cuore dell'intera vita della Chiesa, fino a raggiungere la liturgia eucaristica, quando la Chiesa ogni volta lancia il suo grido lancinante: «Vieni, Signore Gesù». La Chiesa annuncia, prefigura già il «Regno», la città in cui Dio sarà «tutto in tutti», come dice san Paolo (1 Cor. 15,28). Ci conforta il sapere che questo Regno nascosto, questo spazio infinito di salvezza offerto a tutti, supera di molto i limiti visibili della Chiesa. La quale non è che il «Sacramento», il luogo in cui il Regno è celebrato da coloro che l'hanno già accolto.

Karl Barth diceva: «La questione decisiva non è "che cosa può essere la Sinagoga senza Gesù Cristo?", ma piuttosto "che cosa è la Chiesa se per tanto tempo si trova di fronte ad un Israele che le è estraneo?"». Detto in altro modo, per la Chiesa la perennità d'Israele non è solo un problema di relazioni esterne da sviluppare, ma un problema di relazioni interne da approfondire, un problema che tocca il proprio essere. Il sentiero sul quale ci troviamo corre lungo un crinale ancora poco esplorato dall'esegesi e dalla teologia, ma è su questa strada, mi sembra, che dobbiamo procedere, altrimenti il dialogo ebraico-cristiano resterà superficiale, limitato e pieno di riserve mentali. Questo dialogo, è stato detto, è appena uscito dall'età della pietra e non potrà proseguire se gli interlocutori da una parte e dall'altra non metteranno nel conto la contemporaneità dell'altro. Il cristianesimo è l'albero che cresce dal seme dell'ebraismo e copre tutta la terra con le sue fronde, ma il frutto dell'albero contiene di nuovo lo stesso seme. Nella Divina Commedia, Dante invita gli ebrei ad abbandonare la loro speranza: «Lasciate ogni speranza».

Franz Rosenzweig, scioccato da quel verso, commentava: «Quando l'ebreo comparirà davanti al trono celeste, gli sarà posta una sola domanda: "hai sperato nella redenzione?"». Tutte le altre domande, aggiungeva Rosenzweig, «sono per voi cristiani. Fin d'ora prepariamoci insieme, nella fedeltà, a comparire davanti al nostro Giudice». Per prepararci insieme, dobbiamo considerarci tutti eredi della Bibbia, ma io credo che per mettere bene a frutto questa eredità i cristiani hanno in modo particolare bisogno degli ebrei perché gli ebrei hanno con la Scrittura una sorta di familiarità carnale, perché al contrario di ogni dualismo che inaridisce essi sono testimoni dell'unità vivente dell'uomo interpellato da Dio, perché restano il popolo che ha distrutto gli idoli e denunciato le ideologie, antiche e moderne.

La Bibbia ebraica fa ascoltare al mondo intero la voce del Dio unico. Anche là dove non vive alcun ebreo ma la Bibbia è proclamata dalla Chiesa, l'ebreo è spiritualmente presente perché è percepito dalle nazioni che ricevono la Parola divina come appartenente al popolo per il quale il Signore si è fatto conoscere sulla terra. Se il bersaglio del neopaganesimo, radice profonda di ogni antisemitismo, è la Bibbia che svela in ogni uomo l'immagine di Dio, dobbiamo oggi più che mai testimoniare la nostra fedeltà comune alla Parola e alla Legge che strutturano ogni coscienza umana. Dobbiamo salire insieme sulla montagna santa del Sinai e lassù tenerci per mano senza batter ciglio davanti al volto di Dio, interamente occupati, come in una notte d'uragano, a ricevere l'acqua e il fuoco dal cielo per lasciarci purificare. Non dobbiamo, noi tutti, essere «grondanti della parola di Dio» come diceva Péguy al suo amico ebreo, Bernard Lazare? Non siamo tutti come quei primitivi che ricevettero il Decalogo divenendo così i veri civilizzatori dell'umanità?

Questa misteriosa differenza e questa incredibile parentela fra ebrei e cristiani ci portano insieme sulla via del pentimento, della teshuva. È l'insegnamento biblico fondamentale, comune a tutti noi. Perché, ebrei e cristiani, siamo tutti peccatori, attraversiamo la storia nel dualismo Chiesa-Sinagoga prodotto dall'indurimento degli uni e degli altri, ciascuno essendo interno all'indurimento dell'altro. E nella mia esperienza spirituale di fronte a Cristo, io cerco di misurare e di comprendere la distanza che mi separa dall'ebreo, senza mai pensare di fare dell'ebreo un «cristiano in potenza».

È vero che Gesù ci divide, che è fra di noi segno di contraddizione, pietra d'inciampo. Mi piace molto la formula sconvolgente di S. Ben Chorin: «La fede di Gesù ci unisce ma la fede in Gesù ci separa». E tuttavia oso dire - è la verità profonda di ogni paradosso - che Gesù ci unisce nel medesimo istante in cui ci divide. Perché questa lacerazione riguarda solo noi. Un buddista, un indù, non ha alcun motivo d'esser chiamato in causa da Gesù Cristo: non lo incontra mai nella sua storia. Anche un musulmano lo sfiora appena. Ma noi, ebrei e cristiani, che lo si voglia o no, prima o poi siamo costretti a chiederci davanti al mondo come assumere insieme questa lacerazione interna che c'è fra di noi, questa lacerazione che è tutta nostra e che ha provocato il primo scisma, quello che un esegeta (Claude Tesmontant) ha chiamato «il prototipo degli scismi» dentro il corpo unico della famiglia di Dio? Perché, gli uni e gli altri, siamo i soli a poter annunciare la Parola divina rivolta a tutti gli uomini, siamo anche sospesi insieme alla stessa Parola e testimoni di una stessa promessa per l'umanità intera.

In questo senso, anche il futuro del movimento ecumenico fra le diverse Chiese cristiane è legato alla consapevolezza che il legame con l'ebraismo è il test della fedeltà del cristianesimo allo stesso Dio. F. Lovsky, nell'ultimo capitolo del suo bel libro, parla dell'incontro ebraico-cristiano nell'intercessione. E constata che le nostre preghiere - quando pensiamo gli uni agli altri - sono le preghiere delle nostre sofferenze comuni e dei nostri risentimenti reciproci, ma deplora che non siano anche le preghiere delle nostre vocazioni complementari. Per quanto diverse siano le nostre preghiere, sono apparentate e devono diventare sorelle.

Per parte mia, non cesso di pregare in vista del giorno in cui Dio sarà «tutto in tutti»(1 Cor. 15,28), ebrei e non ebrei. Tale è la Gerusalemme celeste di cui la nostra preghiera deve affrettare la venuta, la preghiera di noi che siamo in esilio ovunque nel mondo…anche io a Roma! Oh! Gerusalemme, preferita da Dio, di te ognuno può dire: «Ecco mia madre, in te ogni uomo è nato» (Sal. 97), e le nazioni salgono verso la luce. Oh, Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh Gerusalemme, «Città salda e compatta» dove si riuniscono tutti i figli di Abramo e in cui si concentra la preghiera per la pace (Sal. 122). Oh Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh! Gerusalemme, le cui colline piangono di desolazione e danzano di speranza, monte Moriah e Golgota, muro del Tempio e memoriale Yad Vashem, sepolcro vuoto dove l'angelo invita a non cercare fra i morti Colui che è Vivente (Lc. 24,5). Oh! Gerusalemme, io cammino verso di te. Oh! Nuova Gerusalemme, tu che discendi dal cielo vestita come una sposa nel giorno delle nozze, tu che non hai più tempio, perché il tuo tempio «è il Signore, il Dio onnipotente e l'Agnello» (cf. Ap. 21)! Oh Gerusalemme del cielo, noi camminiamo verso di te.

Al di là di ogni forma di testimonianza personale, resto convinto che la mia fede cristiana per essere fedele a se stessa ha bisogno della fede ebraica. Lungi da ogni teologia cristianizzante del giudaismo e da ogni teologia giudaizzante del cristianesimo, ho cercato di testimoniare ciò che Martin Buber ha espresso così bene: è l'Alleanza dello stesso Dio vivente che ci fa esistere, ebrei e cristiani, e che crea una comunità oltre la rottura. «L'ebraismo e il cristianesimo - scriveva al professor Karl Thieme - sono entrambi escatologici, ma allo stesso tempo hanno un posto nel disegno di Dio. Di qui derivano le differenze che separano ebrei e cristiani e la relazione che li unisce».

Se l'altro è «un mistero e una sfida», la differenza è l'essenza stessa del nostro incontro, ed è anche la possibilità di ascolto reciproco e di mutuo arricchimento. Lungi dall'allontanarci gli uni dagli altri, non cessiamo di incrociarci attorno al Messia. Edmond Fleg ce lo insegna in Ascolta Israele:

«Ed ora entrambi siete in attesa
Tu che Egli venga e tu che Egli ritorni;
Ma a Lui domandate la stessa pace
E le vostre mani, che Egli venga o che Egli ritorni,
a Lui tendete nello stesso amore! E dunque cosa importa?
Dall'una e dall'altra riva
Fate che Egli arrivi
Fate che Egli arrivi!»

Fate che Egli arrivi! Lo stesso Edmond Fleg, in un altro libro (Gesù raccontato dall'ebreo errante), stimola tutti, ebrei e cristiani: «Perché il Messia arrivi, grida con me: felici coloro che getteranno via le armi, perché partoriranno il Messia».

Letto 2646 volte Ultima modifica il Venerdì, 06 Maggio 2011 23:18
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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