Ortodossi Russi in Italia
Pane, fede e nostalgia
di Laura Facchi
Ogni domenica mattina, a Milano, la grande "Madre Russia" sembra rivive, almeno nella nostalgia di un gruppo di uomini e donne delle ex Repubbliche sovietiche, che si incontrano con la sensazione di appartenere a una stessa patria. Li unisce la fede ortodossa e il comune destino di emigrati in un Paese straniero, dove fatica, umiliazione e povertà sono il pane quotidiano da mandar giù. Succede accanto a una via del centro, via Dante. Dietro l'angolo, le luci delle vetrine abbagliano i passanti. Qui, in questa piccola chiesa, decine di persone si inchinano a terra, sfiorando il pavimento con le mani dopo essersele passate sulla fronte e sul cuore. E una piccola chiesa che porta il nome di tre santi - san Vincenzo, san Sergio e san Serafino -, dalle grandi vetrate smerigliate attraverso le quali si scorgono i fedeli in piedi, con il volto rivolto all'altare e a padre Dimitri, il sacerdote italiano che ha fondato questa comunità.
Dimitri è un uomo speciale, un ex dottore specializzato in dermatologia, che per anni ha ricercato la fede e dopo un viaggio compiuto attraverso la Chiesa cattolica prima e quella protestante poi, l'ha trovata in quella ortodossa. “La semplicità e l'umiltà sono le cose che più mi hanno colpito della Chiesa russa, soprattutto venendo da una istituzione cattolica dove avvertivo superbia e violenza psicologica”, racconta. “Qui mi sono trovato di fronte a una Chiesa dove si metteva in risalto la preghiera, l'umiltà, la bellezza delle icone, del culto e del canto, cose che producono nell'animo un’atmosfera positiva, piacevole, bella, esaltante”.
Padre Dimitri lavorava in un ospedale di Bergamo quando ha deciso di prendere l'abito monastico. “Nella Chiesa ortodossa tutti i vescovi sono monaci e questo ha un significato profondo, diversamente dalla Chiesa cattolica dove i monaci sono pochissimi tra i vescovi. I monaci hanno la regola della preghiera e dell'ascesi e questo li spinge a un'intensa vita spirituale. Una caratteristica del monaco è l'umiltà. Il vescovo che mi ha ordinato, quando gli ho chiesto: mandami in un monastero, lui mi ha detto, no, tu sei medico e il tuo monastero è l'ospedale, i tuoi fratelli sono i malati. Mi ha dato proprio l'indicazione di restare dov'ero ma con una intensità diversa, una prospettiva diversa e io così ho fatto”.
Nel 1985 padre Dimitri aprì una chiesa in un appartamento di piazza Napoli. Erano in 4 al principio, lui e tre parrocchiani. Non era ancora cominciata la grande emigrazione dai Paesi dell'Est e quando, piano piano, la comunità è andata ingrandendosi, si sono spostati qui. Prese in affitto questa chiesa con un contratto di comodato nel 1996 e negli anni successivi cominciarono ad arrivare a centinaia dalle ex Repubbliche sovietiche, in cerca di un lavoro: “Le persone qui hanno tantissimi problemi, di vario tipo, e il sacerdote non è quello che si fa mantenere ma quello che aiuta, come il padre in una famiglia”.
Quantificare i fedeli di questa comunità è praticamente impossibile: c'è un continuo via vai, chi trova lavoro in un'altra città lascia Milano e a malincuore dice addio ai suoi amici. Sì, perché la chiesa è diventata un luogo di incontro per amici: dopo la funzione della domenica, il sotterraneo della chiesa diventa un refettorio e grandi tavolate vengono imbandite con cibi preparati dalle donne. Cibi originari dei loro Paesi, sapori lontani che ricordano casa. Spesso c'è un compleanno da festeggiare o un matrimonio o un battesimo e la festa si fa ancora più bella. La domenica è il giorno in cui le angosce di una vita combattuta tra problemi pratici, economici e burocratici, vengono dimenticate per un istante.
La dignità di questi uomini e donne è sorprendente. Donne, in prevalenza, perché per loro è più facile trovare un impiego come badanti o baby sitter. Gli uomini ci sono e anche loro pregano e si genuflettono: ucraini, moldavi, russi, bielorussi; uomini di mare o dei Carpazi, donne laureate e contadine. Tutti accomunati dal medesimo destino: la ricerca di un lavoro per spedire soldi alla famiglia rimasta in patria. “Questa chiesa è la salvezza. Ogni domenica vengo qui ed è come essere a casa”, racconta Raissa, che proviene dall'Ucraina. “Lavoro tutta la settimana aspettando solo il momento di tornarci. Qui preghiamo per la salvezza della cristianità. La nostra politica comunista non ci permetteva di essere religiosi ma poi è arrivato Gorbaciov, che ha fatto riaprire le chiese. Nel mio paese, a Cernouz, la chiesa era rimasta chiusa per 45 anni e hanno dovuto restaurarla per farla tornare agibile”.
Raissa, come la grande maggioranza delle persone che frequentano la chiesa ortodossa del patriarcato russo a Milano, è qui in Italia per lavorare: “Era meglio prima, quando tutte le Repubbliche erano unite”, dice. Dopo l'indipendenza, tutto è andato a rotoli. Vorremmo tornare a essere uniti e io prego ogni giorno per questo. Lavoravo in una fabbrica di elettronica e da un giorno all'altro hanno chiuso. Via, tutti a casa! Le nostre donne vendono i loro bambini per salvare la casa o qualche altro figlio. È vero! Ho conosciuto una donna a Napoli che ha venduto due bambini per salvarne un altro. Questa è guerra! È una guerra senza bombe”.
Raissa apparecchia la lunga tavola che ingombra il sotterraneo della chiesa. Si mangia tra le chiacchiere in russo. “Assaggia questo formaggio, viene da casa. Me lo hanno mandato i miei figli”, dice Tatiana porgendo un piatto colmo di formaggio bianco. Ogni settimana un pulmino fa avanti e in dietro da Cernouz all'Italia. Porta cibi, lettere, pacchi e denaro ed è atteso come una manna. Cernouz si trova sul confine con la Romania e molti ucraini arrivati in Italia provengono da quella città o dai suoi dintorni. “Ogni città ha il suo pulmino, quello è il nostro e io l'ho preso per venire qui”, spiega Sveta.
La Chiesa si autofinanzia, tutti danno quel poco che possono offrire, i soldi sono stati separati in diversi fondi di amministrazione e uno di questi è il fondo per il sostentamento di chi ha più bisogno di aiuto. Per molte di queste persone, venire in Italia ha significato lasciare la famiglia. “Non vedo mio figlio da un anno”, racconta Ludmila. “Ho fatto tutte le pratiche per essere messa in regola. Ho pagato tutto io, perché la signora dove lavoro ha detto di non avere i soldi. Lei non ha soldi e quindi figuriamoci io. Comunque... se me ne andassi farei molta fatica a rientrare perché non è semplice avere un visto. Ci sono agenzie che si fanno pagare molto denaro per procurare i visti”.
Sergio ha 29 anni ed è in Italia già da due: “Avevo un lavoro in Moldavia ma non mi pagavano abbastanza, con quei soldi non potevo vivere. I prezzi delle case sono più o meno come quelli di Milano ma gli stipendi no, quelli sono molto più bassi. Ho due figli piccoli e una moglie alla quale mando il denaro che guadagno. Appena arrivato in Italia, mi sono messo a cercare una chiesa come questa e alla fine sono approdato qui. Questa chiesa è come una barca. Dove può andare uno straniero qui a Milano? In Stazione centrale forse? Se crediamo in un'anima, dobbiamo anche nutrirla, e qui trovo cibo per lo spirito. Tanta gente in difficoltà come me ha cominciato a credere”.
La storia di Sergio è uguale a quella di tanti altri. Arrivato a Milano, ha trovato lavoro in un cantiere e quel cantiere è diventato anche la sua casa. Una laurea in tasca che gli permetteva di essere chiamato dottore in Moldavia e qui l'unico lavoro che si riesce a trovare è quello di muratore, che a malapena permette di vivere a chi non ha i documenti in regola. “Me ne sono andato dal cantiere dove lavoravo perché non mi pagavano da tre mesi. Sono stati anni duri. Dopo aver dormito in cantiere ho trovato un appartamento nel quale abitavamo in 24 per 170 euro a testa. Denunciarlo? No, no, io in quel modo avevo un posto caldo dove stare. Anche se dormivo sul pavimento non ero in mezzo alla strada e c'era un bagno. Bisognava fare un po' di coda ma potevamo lavarci. Per me è stata una salvezza. Tutte queste esperienze mettono alla prova il carattere e sono certo che se Dio ha voluto questo, una ragione deve esserci”.
Il giovedì sera si fanno le prove del coro: la liturgia ortodossa è un bellissimo canto dall'inizio alla fine della funzione religiosa, ma la chiesa è aperta sempre, tutti i giorni perché in tanti avvertono il bisogno di pregare o di chiedere un consiglio a padre Dimitri: “I miei parrocchiani”, dice, “provengono quasi sempre dal mondo contadino, ho sentito raccontare storie allucinanti, molti vengono trattati come schiavi e altri parroci che prestano servizio nei centri di aiuto mi hanno raccontato storie altrettanto drammatiche. Facciamo quello che possiamo, qui ci mancano un sacco di cose ma tutti insieme riusciamo a fare molto. Ogni anno andiamo a Bari per celebrare san Nicola, un santo molto importante per i russi e sono momenti indimenticabili. Vengono scattate foto da spedire alla famiglia e tutti ridono e stanno bene”.
Il tempo per le lacrime, però, spesso prevale. Durante la funzione della domenica mattina i volti delle donne dal capo coperto da un fazzoletto colorato, sono spesso rigati di pianto. Nel pomeriggio tutti tornano a casa, una capatina nel bagno del McDonald's di via Dante e poi di corsa verso autobus o treni per tornare a casa, in un centro di accoglienza o dalla signora anziana che ha bisogno di essere accudita. Si è consumata un'altra giornata speciale, che servirà da carburante per tutte quelle a seguire.
(da Jesus, giugno 2004)