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L’uomo e la terra
nella Bibbia
di Jean Casanave



 


Il mondo rurale combattuto tra timore e speranza. Nei dintorni delle città la società rurale "periferica" è soddisfatta dell’attrazione esercitata su una popolazione cittadina che apprezza la sua calma e il suo fascino. Ma questa "schiarita" sotto il punto demografico, comporta dei rischi. L’identità propria degli abitanti tradizionali della campagna, ormai in minoranza, sta forse per soccombere sotto la pressione di nuove culture. D’altra parte questo mondo oscilla tra contrazioni e rancori: colpite dal decremento di una demografia in fase di invecchiamento, le regioni che fanno parte di questo mondo, si avviano ad essere considerate, nel territorio nazionale, puramente un eco-museo. Non è la loro identità che rischia di sparire, ma la loro stessa esistenza, esse soffrono della mancanza del riconoscimento della loro utilità sociale.


Dalla terra conquistata alla terra acquisita


Quando gli Ebrei, dopo aver errato nel deserto, hanno raggiunto con Giosuè il paese di Canaan, l’attrattiva di una terra più ospitale, ha dato loro il coraggio di affrontare guerrieri più numerosi e meglio armati (Gios.1) la stessa sete di conquista, ha poi spinto Debora e i Giudici a stabilirsi nelle contrade del nord (Giu 4-5).


È il tempo della terra conquistata che ha permesso al popolo della Bibbia di fare l’esperienza inedita di un dio, conosciuto come Altro, che non entrava nel novero degli idoli della fecondità domestica, legati ai culti agricoli dei nemici. Un Dio che combatteva con i poveri e che abbatteva le potenze costituite, si distingueva nel paesaggio religioso dell’epoca. Questo Dio li avrebbe colmati di una terra "ove scorrono latte e miele" (Es 3,8; Lev 20,24; Nr 13,27) che avrebbe presto assunto i colori del paradiso.


Il periodo dell’Esodo e della conquista è stato lungo e indeciso, frequenti i ritorni all’indietro. Gli Ebrei si stancavano di essere sempre sul chi vive, avendo come sola garanzia una fede fragile in un Dio spesso imprevedibile e sempre invisibile. Si sono dati un re che ha sollevato un esercito, ha costruito un palazzo, poi un Tempio, e ha dotato le tribù riunite di un’amministrazione. Cominciava a questo punto, il tempo della terra conquistata.


Una terra bramata, sottomessa e lacerata


La dominazione militare e la prosperità materiale, non sono sopravvissute ai fasti di Salomone. Le guerre civili e la cupidigia degli altri popoli, hanno diviso l’impero del grande re e il paese è diventato una terra bramata. Ci fu allora un regno del nord e un altro del Sud. Per sopravvivere i loro re conclusero delle alleanze infedeli al loro Dio: la difesa del suolo li spinse ad adottare culti idolatri.


Ed è allora che è sorto un profeta di fuoco, il grande Elia. Ha eliminato i sacerdoti di Baal, dio della fecondità, e ha fatto riconoscere al suo posto il Dio di Israele, signore delle stagioni, del vento e della pioggia benefica. Da quel momento in poi la natura, avrebbe obbedito ai comandi di Dio. Fu il tempo della terra sottomessa.


I segni straordinari compiuti da Elia, non convinsero i suoi contemporanei. Il nemico approfittò così delle divisioni del popolo e i profeti, custodi della santità nella storia, non poterono far nulla contro una prima invasione che provocò la deportazione di una grande parte dei notabili e dei quadri dirigenti. La terra fu allora lacerata.


La promessa di una terra


Messo in guardia dai profeti del nord, Amos e Osea, Giosuè, il pio e grande re riformatore, tentò di centralizzare il culto proibendo il ritorno ai culti antichi. Fu il promotore di una nuova concezione del rapporto tra Dio e gli uomini, che prese nome di "Alleanza". Essa fu oggetto di una seconda Legge, consegnata, in particolare nel Deuteronomio.


Dio, la terra e l’uomo, entrarono così in un rapporto di scambio e di responsabilità reciproca. Ecco il tempo della terra responsabile. Essa doveva nutrire tutti i suoi figli: affinché la vedova e l’orfano potessero venire a spigolare, non si mietevano gli ultimi filari del campo; ogni cinquant’anni, in occasione del giubileo veniva restituita la terra ai suoi antichi proprietari. Ogni tre anni si metteva la terra a maggese, e a riposo ogni sette anni. Tutti i sabati il bue e l’asino venivano messi a riposo. La terra non era più oggetto di idolatria, né il fratello era più sfruttato impudentemente.


Il re che rendeva giustizia ai poveri del paese, morì nel distretto di Meggido e il regno del sud subì a sua volta la deportazione. Non più terra, né re né Tempio.Giorni di lutto e di lamentazioni. Ecco tornata, ancora una volta, la prova della mancanza e dell’assenza: l’esperienza della terra straniera, terra di lacrime e di sangue.


E fu paradossalmente nel profondo di questo abbandono, che la fede del popolo divenne più profonda, facendo un passo in avanti. Malgrado le apparenze che gridavano l’assenza di Dio, un profeta, chiamato "secondo Isaia", comprese che, se Dio è Dio, egli è l’unico. E questa l’affermazione del monoteismo e dell’inizio dell’universalismo della fede di Israele. Dio era il solo Dio di tutta la terra e del cielo.


Durante l’esilio, questo popolo senza avvenire, si ripiegò sul suo passato, ritrovando la storia degli antichi Patriarchi e risalendo fino al padre dei credenti, Abramo. Costui aveva lasciato le terre fertili della Mesopotamia e il culto della Luna, dea della fecondità, per penetrare nelle terre aride alla ricerca del suo Dio. Uomo di fede senza terra e senza figli, ricevette la duplice promessa della paternità e della proprietà. Nasceva così il concetto della Terra promessa che avrebbe segnato per sempre la memoria dei credenti.


Dal padre della fede si arrivava così a concepire un padre di tutti gli uomini e una origine del mondo. Due tradizioni erano riunite e si immaginò la terra originale come un giardino. L’Eden non è un luogo di delizie inventato per compensare le frustrazioni degli uomini, ma una terra messa da Dio a disposizione dell’uomo, affinché "la conservi e la coltivi" (Gen 1,28-29) avendo cura della parte dovuta al Creatore: "Non mangerai tutto, salvaguarderai così l’avvenire della creazione".


Dio fa nuove tutte le cose


Dopo la grande prova, ecco che si è dovuto tornare al paese. Ma il ritrovarsi, non fu certo dei più calorosi: gli assenti hanno sempre il torto di voler recuperare i loro beni. Aiutati dai Persiani, gli Ebrei vollero restaurare la grandezza passata del loro paese. Il governatore Neemia innalzò nuovamente le mura e lo scriba Esdra ripubblicò la Legge. In mancanza di profeti, furono il Tempio e la Legge a prevalere. La stretta osservanza del puro e dell’impuro permisero di sostenere la coabitazione con gli empi occupanti. "I saggi esercitavano il compromesso" secondo l’espressione dell’esegeta Jacques Bernard: bisognava aprirsi alle nuove correnti culturali, continuando però a salvaguardare l’essenziale della fede. Insozzata, la terra era impura; purificata, essa diveniva una terra santificata.


Una corrente spirituale, scampata all’Esilio e chiamata più tardi "apocalittica" rifiutava di dimenticare che l’unico Dio aveva tratto gli Ebrei dal nulla e che avrebbe potuto non rimettere in sesto questo popolo, ma ricrearlo: "Ecco, faccio nuovo l’Universo" (Ap 21,5). L’idea di cieli nuovi e di una terra nuova, confortava la speranza dei poveri. Un inviato da Dio, a immagine di Elia, sarebbe venuto alla fine dei tempi a far ascoltare una voce nuova , venuta dai cieli.


E' a questa categoria di credenti che appartenevano sicuramente Giovanni il Battista, Gesù di Nazareth e i loro amici. L’uno preconizzava la fine imminente dei tempi, l’altro veniva ad inaugurare il Regno, questi cieli nuovi e questa terra nuova. Con Gesù, Dio era in mezzo a noi, non era il signore del regno, non aveva luogo ove "posare il capo" (Mt 8,20). La "terra nuova" e i "cieli nuovi" erano offerti in eredità a coloro che sapevano leggere i segni del cielo, ma erano inaccessibili a coloro che non pensavano altro che ingrandire i loro granai.


(da Fêtes et Saisons n. 562)

Sabato, 19 Giugno 2004 02:15

La Pasqua di Cristo e della Chiesa

APPENDICE II
La chiesa delle origini

Pasqua ebraica
e Pasqua Cristiana
di Don Filippo Morlacchi


 


La Pasqua di Cristo e della Chiesa


Tutto ciò che fu prefigurato nell’AT, trovò il suo compimento nel NT. Le diverse sfumature di significato a proposito della pasqua si ritrovano anche qui: la stessa etimologia (pasqua = "pàscho" "patire": è una etimologia sbagliata, ma ricorrente nei padri greci) farebbe pensare che la pasqua è la "passione" del Signore. Ma pasqua significa anche passaggio, e dunque passaggio dalla morte alla vita nuova à pasqua è la "risurrezione" del Signore. Inoltre si crea ben presto il legame fortissimo tra pasqua e battesimo.


Inoltre la pasqua di Cristo diventa l’inizio della nuova creazione e apre il futuro definitivo dell’uomo, nell’attesa del ritorno glorioso del Signore: legame fortissimo con la teologia della notte pasquale rabbinica (prima e quarta notte).


Il legame è poi inscindibile con la celebrazione eucaristica, in cui si riassumono la liturgia sinagogale (soprattutto nella liturgia della parola) e la liturgia pasquale, nella duplice dimensione di immolazione (presso il tempio à eucaristia come sacrificio) e di comunione (in famiglia: eucaristia come banchetto).


(Questa appendice è una rapidissima sintesi di: R. Cantalamessa, La pasqua della nostra salvezza, Marietti 20005).

Sabato, 19 Giugno 2004 02:15

Pasqua dei giudei

APPENDICE II
La chiesa delle origini

Pasqua ebraica
e Pasqua Cristiana
di Don Filippo Morlacchi


 


Pasqua dei giudei


Col passar del tempo la Pasqua inizia significare non tanto il passaggio di Yhwh, quanto quello del popolo attraverso il Mar Rosso: "Dio ci ha condotti fuori dall’Egitto…" (Dt 26,8). La Pasqua è il passaggio di Dio che salva o del popolo che è salvato? Questa ambivalenza accompagnerà sempre la pasqua.


Questa è la situazione della pasqua quando Gesù pratica questi riti. Si era stabilito un compromesso tra pasqua primitiva (incentrata sulla famiglia) e pasqua deuteronomica (che faceva perno sul culto al tempio: questa dimensione verrà meno solo con la distruzione del tempio, avvenuta proprio durante le festività pasquali del 70 d.C., portando la celebrazione della pasqua al rituale oggi in uso, in cui si celebra ovunque la "pasqua senza tempio"). L’immolazione della vittima avveniva nel tempio sotto la supervisione dei sacerdoti: ogni israelita andava al tempio nel pomeriggio del 14 nisan (mese lunare ebraico corrispondente a marzo-aprile), uccideva il proprio agnello, e i sacerdoti aspergevano con il sangue l’altare del tempio. Poi aveva luogo la liturgia familiare, in cui il capofamiglia recuperava alcune prerogative sacerdotali che si erano perse con l’istituzione del sacerdozio levitico. La cena rituale era scandita in quattro sezioni da quattro coppe diverse. Le preghiere di benedizione (berakah, pl. berakôt) sono quasi identiche a quelle della Messa: "Benedetto sei tu Signore, Dio nostro, Re dell’universo, che hai creato questo frutto della vite. Tu ci hai eletto tra tutti i popoli…".


Il racconto (haggadàh) della pasqua spiega cosa rende "speciale" quella notte: "noi fummo schiavi in Egitto e di là ci fece uscire il Signore Dio nostro, con mano potente e braccio teso". "NOI", non "i nostri padri", secondo un detto di rabbi Gamaliele (il maestro di S. Paolo): "in ogni generazione ciascuno è tenuto a considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto, perché il Santo – benedetto Egli sia – non liberò solo i nostri padri, ma noi pure liberò con loro". La liturgia rende contemporanei agli eventi celebrati. Di evidente importanza l’applicazione alla Pasqua cristiana…


Tutta questa teologia è riassunta in un famoso testo rabbinico detto Poema delle quattro notti, in cui si riassume:



  • La prima notte fu quella in cui Yhwh si manifestò al mondo per crearlo: la parola di Dio era luce. La seconda notte fu quando Yhwh si manifestò ad Abramo all’età di cento anni e a Sara sua moglie, promettendogli un figlio. La terza notte fu quando Yhwh si manifestò contro gli egiziani nel mezzo della notte: la sua mano uccideva i primogeniti egli egiziani e proteggeva i figli di Israele. La quarta notte sarà quando il mondo, giunto alla sua fine sarà dissolto.

  • In sintesi: Dio salva rivelandosi (si manifestò…). Si accostano pasqua e creazione, pasqua e salvezza, pasqua e consumazione del mondo.

    Sabato, 19 Giugno 2004 02:15

    Pasqua di Jhwh e Pasqua dei Giudei

    APPENDICE II
    La chiesa delle origini

    Pasqua ebraica
    e Pasqua Cristiana
    di Don Filippo Morlacchi


     


    Pasqua di Jhwh e Pasqua dei Giudei


    Due testi ne parlano. Es 12,1-14 e Dt 16,1-8. Non mancano le differenze. Ad es., in Es si può celebrare in ogni luogo, mentre secondo Dt è possibile solo da parte dei sacerdoti nel tempio di Gerusalemme; la vittima è un agnello in Es, anche bovini e altre bestie in Dt; infine secondo Es la Pasqua è una festa a sé stante, mentre Dt la lega a quella degli Azzimi (di origine agricola). Il motivo è evidente: il testo di Dt fa riferimento alla situazione del popolo ormai insediatosi in Canaan. Le origini della festa vanno dunque trovate nel testo dell’Esodo, anche se pare che la sua redazione finale sua successiva a quella del testo del Dt..


    Ne emerge una festa non agricola, ma di pastori: si immola una primizia del gregge prima della transumanza primaverile (vedi il modo di cuocere la vittima, gli ingredienti di contorno, la posizione in piedi e con le vesti tirate su…). Il sangue sulle porte sembra un’aggiunta successiva (porte = ingresso della tenda?). Ciò che più conta è la consumazione del pasto sacro in comune, prima della separazione del clan (solidarietà, comunione di sangue).


    Ma poi, tra il 1250 e il 1230 a.C. (pare) a questo rito si aggiunge un nuovo significato: il popolo voleva andare nel deserto a compiere questa cena rituale (cfr Es 5,1); di fronte al ripetuto diniego del Faraone, Dio agisce. Nella notte dell’attesa il popolo compie in anticipo il rito, ma misteriosamente il Signore passa e compie un giudizio, colpendo gli egiziani e risparmiando gli ebrei. Di questo evento, la pasqua diventa memoriale: la pasqua non è più una festa legata al ciclo cosmico, ma alla storia della salvezza.

    Sabato, 19 Giugno 2004 02:14

    Le quattro stagioni della Pasqua

    APPENDICE II
    La chiesa delle origini

    Pasqua ebraica
    e Pasqua Cristiana
    di Don Filippo Morlacchi


     


    Le quattro stagioni della Pasqua


    Non poche trattazioni distinguono tre Pasque: quella dell’AT, quella di Cristo e quella della Chiesa. Mi in realtà occorre distinguere 4 pasque diverse, due reali e due simbolico-sacramentali:



    1. la Pasqua di Yhwh: cioè il passaggio salvifico di Yhwh nella notte dell’uscita dall’Egitto;


    2. la Pasqua dei Giudei: cioè la celebrazione liturgica annuale di questa pasqua, attraverso la rievocazione di tutti gli eventi della storia della salvezza, culminata in quella notte;


    3. la Pasqua di Cristo: cioè la sua immolazione come vittima di salvezza, il suo "passaggio da questo mondo al Padre" (Gv 13,1);


    4. la Pasqua della Chiesa: la celebrazione annuale (ma anche settimanale e quotidiana) della Pasqua di Cristo fino al giorno del suo ritorno nella gloria.

    Questa suddivisione non deve far perdere di vista l’unità del mistero pasquale: unica è la pasqua dell’Antico e del Nuovo Testamento, nella sua dimensione storica (pasqua 1 e 3) e in quella liturgico-simbolica (pasqua 2 e 4). La Pasqua è infatti stesso Cristo (1Cor 5,7), presente in modo diverso in tutta la storia della salvezza e in tutta l’economia sacramentale.


    Ne deriva una continuità essenziale e vitale tra pasqua ebraica e pasqua cristiana, secondo una logica di inveramento e non di sostituzione. Dunque è assolutamente impossibile comprendere il valore della Pasqua cristiana se la si espunge dal suo alveo nativo.


    Ecco allora uno schema sintetico:



















     

    Antico Testamento


    Nuovo Testamento

     

    Prefigurazione simbolica: la cena


    Prefigurazione liturgica: l’ultima cena


    Storia

    la Pasqua di Yhwh

    La Pasqua di Cristo


    Liturgia

    la Pasqua dei Giudei

    la Pasqua della Chiesa

    Sabato, 19 Giugno 2004 02:14

    La bibbia ebraica

    APPENDICE
    La chiesa delle origini


    Lettura ebraica e cristiana
    dell’Antico Testamento
    di Don Filippo Morlacchi


    La bibbia ebraica












    Torah scritta (TaNaK)


    Torah orale


    Torah


    Neviîm


    Ketuvîm


    Mishnàh [II sec.] + Ghemaràh = Talmud ("studio")


    I midrashîm (midrash da darash = ricercare) sono commenti alla scrittura (il NT è "un midrash dell’AT").

    Sabato, 19 Giugno 2004 02:13

    Interpretazione tipologica

    APPENDICE
    La chiesa delle origini


    Lettura ebraica e cristiana
    dell’Antico Testamento
    di Don Filippo Morlacchi


    Interpretazione tipologica


    La maggiore discrepanza è l’uso della tipologia. Se l’AT acquista il suo pieno significato come "prefigurazione" del NT, come valutare questa esegesi tipologica, tanto importante nei padri? Ecco le indicazioni della Commissione per i rapporti religiosi con l'Ebraismo, che il 24 giugno 1986 ha pubblicato i Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell'Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa Cattolica. (Il documento è reperibile integralmente su internet all’indirizzo: http://www.nostreradici.it/sussidi.htm, purtroppo con alcuni errori tipografici).



    1. …nell'uso della tipologia, il cui insegnamento e la cui pratica ci derivano dalla Liturgia e dai Padri della Chiesa, occorre evitare ogni passaggio tra Antico e Nuovo Testamento che fosse esclusivamente considerato come una rottura. La Chiesa, nella spontaneità dello Spirito che la anima, ha vigorosamente condannato l'atteggiamento di Marcione e si è sempre opposta al suo dualismo.
    2. È importante anche sottolineare che l'interpretazione tipologica consiste nel leggere l'Antico Testamento come presentazione e, sotto certi aspetto, come il primo delinearsi e come l'annuncio del Nuovo (cf. per es. Eb5,5-10, ecc.). Cristo è ormai il riferimento chiave delle Scritture: "quella roccia era il Cristo" (1Cor 10,4).
    3. È dunque vero ed è bene sottolinearlo, che la Chiesa e i cristiani leggono l'Antico Testamento alla luce dell'avvenimento del Cristo morto e risorto e che, a questo titolo, esiste una lettura cristiana dell'Antico Testamento che non coincide necessariamente con la lettura ebraica. Identità cristiana e identità ebraica devono pertanto essere accuratamente distinte nella loro rispettiva lettura della Bibbia. Ciò che, tuttavia, nulla sottrae al valore dell'Antico Testamento nella Chiesa e non vieta che i cristiani possano a loro volta utilizzare con discernimento le tradizioni di lettura ebraica.
    4. La lettura tipologica non fa altro che manifestare le insondabili ricchezze dell'Antico Testamento, il suo contenuto inesauribile, il mistero che lo pervade, ed essa non deve far dimenticare che l'Antico Testamento mantiene il proprio valore di Rivelazione, che spesso il Nuovo Testamento non farà che riprendere (cf. Mc 12,29-31). Del resto, lo stesso Nuovo Testamento esige parimenti di essere letto alla luce dell'Antico. La catechesi cristiana primitiva vi farà costantemente ricorso (cf. ad es. 1Cor 5,6-8; 10,1-11)
    5. La tipologia significa inoltre proiezione verso il compimento del piano divino, quando "Dio sarà tutto in tutti" (1Cor 15,28). Questo fatto vale anche per la Chiesa che, già realizzata in Cristo, non di meno attende la sua perfezione definitiva come Corpo di Cristo. Il fatto che il Corpo di Cristo tenda ancora verso la sua statura perfetta (cf. Ef 4,12-13), nulla sottrae al valore dell'essere cristiano. Così la vocazione dei Patriarchi e l'esodo dall'Egitto non perdono la loro importanza e il loro valore proprio nel piano di Dio per il fatto che esse sono al tempo stesso delle tappe intermedie ( cf, per es., Nostra Aetate n. 4).


    • Ma allora riconoscere la legittima diversità di interpretazione significa dire che cristiani ed ebrei, pur leggendo la stessa Bibbia, non leggiamo lo stesso libro? No, perché "la chiesa delle origini, la quale compose il NT, pretese che questo, lungi dal proporsi come un’interpretazione aliena dalle Scritture di Israele, ne rappresenti l’ultima e definitiva rilettura, dunque indubitabilmente ebraica (At 26,22-23: "Null'altro io affermo se non quello che i profeti e Mosè dichiararono che doveva accadere, che cioè il Cristo sarebbe morto, e che, primo tra i risorti da morte, avrebbe annunziato la luce al popolo e ai pagani": discorso di Paolo davanti ad Agrippa)" (F. Rossi de Gasperis, Cominciando da Gerusalemme, Piemme 1997, p. 384).


    • L’esegesi tipologica è infatti nota già all’interno dello stesso AT. Come ricorda il n. 9 dei citati Sussidi, l’esodo egiziano è stato riletto dai profeti come paradigma per descrivere il ritorno dagli esili e la liberazione escatologica stessa: basti pensare al Seder di Pesah (la liturgia pasquale). Ma c’è una tipologia cristiana che si distacca da questa modalità: è quella che "si interessa agli eventi e alle persone del Primo Testamento unicamente come "figure" e "tipi" da attraversale in fretta per giungere alle "realtà" (= antitipi) della Nuova Alleanza" (ivi, p. 390). È la tipologia della "frattura tra i due testamenti", secondo la quale il Figlio con la sua incarnazione non avrebbe portato a compimento la rivelazione veterotestamentaria, ma la avrebbe totalmente rinnovata.

    • Occorre invece una lettura di pacificante continuità tra i due testamenti. La novità cristiana non indica frattura con l’antico, ma definitività della rivelazione in Cristo. "Per quanto concerne il Testamentum (= l’economia, distinta dall’Instrumentum, = gli scritti), mentre il NT può essere definito come l’ultima rilettura dell’Antico, esso stesso non può andare soggetto a una ulteriore allegoria, senza che venga distrutta la realtà della stessa fede cristiana" (ivi p. 403). Il NT è l’"ultima allegoria" dell’AT, rimanendo aperto solo all’anagogia escatologica (il compimento finale, quando "Dio sarà tutto in tutti": 1Cor 15,28). D’altro canto la novità cristiana può essere rinvenuta nel fatto che nessun ebreo è giunto alla fede in Cristo solo per aver letto le scritture: è necessario l’incontro con l’evento irripetibile della risurrezione (dunque il cristianesimo non è solo lo "sviluppo organico e naturale" dell’ebraismo).


    • "La lettura ebraica delle scritture, di per sé, rimane aperta a un futuro e a un’attesa escatologica indeterminata. […] La lettura cristiana crede di conoscere il nome preciso di questa incognita: Gesù di Nazaret" (ivi p. 422). L’evento di Cristo rimane la discrepanza di fondo nell’interpretazione di quello che noi chiamiamo AT: la prima venuta di Gesù non è riconosciuta dagli ebrei come chiave interpretativa della storia e della scrittura, mentre l’attesa escatologica della sua seconda venuta (la parusìa, quello che gli ebrei chiamano "il giorno di Yhwh") è ciò che ci accomuna.


    • "Leggendo l’AT, il cristiano […] è come il lettore di un libro giallo, che ne vada leggendo progressivamente il testo dopo essere stato preventivamente informato dello svelamento finale. […È così] molto più in grado di soppesare proporzionatamente l’importanza e il significato di quei particolari che, letti prima di conoscere la fine, possono apparire irrilevanti e casuali. […] Di per sé, però, l’ultima chiave della lettura cristiana della Bibbia non deve mortificare in nulla la consistenza dei capitoli precedenti, l’importanza di conoscere ogni loro pagina in se stessa e di soppesarne i contenuti e la struttura"" (ivi p. 423-425).
    Sabato, 19 Giugno 2004 02:11

    Antico Testamento?

    APPENDICE
    La chiesa delle origini


    Lettura ebraica e cristiana
    dell’Antico Testamento
    di Don Filippo Morlacchi


    Antico Testamento?



    • Come denominare quella parte della Bibbia che precede il "Nuovo Testamento"? Escludiamo l’espressione "Vecchio Testamento" (come se fosse una cosa obsoleta e da buttare); accettiamo "Antico testamento", cogliendo un sfumatura di venerazione per la sua anzianità, in quanto è l’espressione più diffusa; preferiamo "Primo Testamento" o "Prima Alleanza", perché esprime al meglio la continuità dell’unica storia della salvezza. Ma per tanti studiosi oggi è solo la "Bibbia Ebraica". (A dire il vero, non è del tutto corretto, perché nel canone cattolico sono inseriti dei libri che non sono inseriti nel Canone Ebraico: sono i 7 libri di Tb, Gdt, 1 e 2Mac Sap, Sir, Bar, nonché alcune sezioni di Est e Dan. Alcuni di questi scritti inoltre ci sono pervenuti solo in greco o aramaico).


    • "La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2Tm 3,16)" [Dei Verbum 11]. Contro l’eresia di Marcione (II sec.), l’AT è essenziale alla vita della Chiesa: "I cristiani venerano l’Antico Testamento come vera Parola di Dio. La Chiesa ha sempre energicamente respinto l’idea di rifiutare l’Antico Testamento con il pretesto che il Nuovo l’avrebbe reso sorpassato (Marcionismo)" (CCC 123).


    • "L’AT è il fondamento comune, la radice teologia e storica del giudaismo e del cristianesimo. […] La problematica della teologia cristiana dell’ebraismo si acuisce poi, allorché si comincia a intuire che il giudaismo prolunga e vive realmente – benché in maniera diversa dal cristianesimo – l’AT e il modo in cui lo fa. Israele non è riconducibile a un’entità biblica passata" (C. Thoma, Teologia cristiana del giudaismo, Marietti 1983, p. 17). Dunque c’è un valore permanente non solo dell’AT, ma anche dell’interpretazione che ne danno gli ebrei.


    • L’AT è parola di Dio; rivela dunque il mistero di Cristo; è "antico" in relazione al "nuovo". Ma ha anche una sua consistenza in sé: gli ebrei infatti considerano sacre ed ispirate le loro scritture, indipendentemente da qualunque riferimento alla persona di Gesù di Nazareth. L’ermeneutica [cioè "arte dell’interpretazione"] cristiana dell’AT/Bibbia ebraica è dunque diversa o addirittura incompatibile con quella ebraica?

    Da Gerusalemme a Roma
    di Don Filippo Morlacchi


    A Roma Paolo annuncia il Vangelo (28,16-30)


    Gli Atti si concludono con l’annuncio del vangelo a Roma. Paolo è in custodia militaris molto mite, e annuncia il Vangelo con grande libertà. Ma prima vuol chiarire la faccenda con la comunità giudaica (in fondo è per accuse giudaiche che lui è a Roma): anche a loro annuncia il vangelo. La conclusione è che alcuno credono e altri no: questa è LA scissione nell’ebraismo, tra coloro che credono in Gesù Messia e coloro che non ci credono, e la conseguente apertura ai pagani.

    Sabato, 19 Giugno 2004 02:10

    A Malta e poi Roma (28,1-15)

    Da Gerusalemme a Roma
    di Don Filippo Morlacchi


    A Malta e poi Roma (28,1-15)


    Ricevono una buona accoglienza (Paolo avrà fatto da interprete con la sua conoscenza dell’aramaico). L’episodio del serpente che non fa del male a Paolo ha richiami evangelici (Mc 16,18), come pure la capacità di imporre le mani e guarire il padre di Publio, che ospitò la comitiva per tre giorni. Ancora d’inverno (primi di febbraio 61 d.C.) salpano per Siracusa; poi Reggio; poi Pozzuoli, dove abbandonano la nave.

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