In ricordo di P. Franco

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Se vogliamo che il Verbo di Dio nasca in noi dobbiamo saper scendere silenzio in questo profondo, in questa oscurità totale.

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 LA POLITICA: POTERE FORTE O STRUMENTO DEI POTERI FORTI?

di Lino Duilio
da Rivista Servire/gennaio-marzo 2006

La questione del rapporto tra potere politico e potere economico è questione nuova eppure antica, nel senso che la loro è una relazione problematica, che esiste da sempre e che risulta ancora più specifica a partire dalla nascita dell’epoca moderna, quando economia e politica si costituirono, insieme alla scienza, al diritto e ad altre sfere dell’agire umano, come sfere dotate di una propria autonomia, svincolate da un preciso riferimento ad un fondamento morale di origine trascendente.

La complessità di quel rapporto viene dunque da lontano e, per le caratteristiche quantitative e qualitative che gli intrecci sono andati assumendo nel tempo, affonda le sue radici, oltre che nelle dinamiche proprie del mondo degli affari e del fallibile comportamento umano, nei caratteri peculiari della scienza economica moderna.

Le continue, reciproche interferenze tra potere economico e potere politico si realizzano, in modo aperto o in modo subdolo, su un terreno che ha assunto progressivamente una dimensione di valore che va ben al di là della funzione specifica che ne aveva segnato l’origine: stiamo parlando del “mercato” o del “sistema di mercato”. Il quale oggi detta legge, fornisce orientamenti, indirizza previsioni, costruisce “visioni”: il suo funzionamento, in nome della cosiddetta “sovranità del consumatore”, evoca continui e nobili richiami a questioni eminenti come la libertà, la giustizia, la distribuzione della ricchezza, l’equità.

Ma a ben vedere, con lo sviluppo sempre più sofisticato del modello capitalistico di produzione, il sistema di mercato mostra alcuni limiti e, se non adeguatamente regolamentato, produce eventi che ripropongono la domanda di quale debba essere lo spazio di autonomia assegnato all’economia nel più complessivo equilibrio sociale e nei riguardi del potere politico.

La domanda appare giustificata da alcune palesi “contraddizioni” che risultano comprensibili ad ogni normale intelligenza.

Per un verso infatti, con il passare del tempo,assistiamo al plateale rovesciamento di alcune di quelle che erano considerate tradizionali “virtù”: i comportamenti speculativi ad esempio, più che essere condannati, tendono progressivamente ad essere apprezzati come opera dell’ingegno; il mercato stesso viene sempre più idealizzato e percepito come unico e sicuro rimedio a tutti i mali del mondo; la stessa guerra comincia ad essere vissuta come strumento utile all’affermazione della democrazia. Sul piano più fattuale, per altro verso, le distorsioni emergono dallo spettacolo presente quotidianamente sotto i nostri occhi, sia a livello di sviluppo economico del pianeta che di più specifiche dinamiche interne ai cosiddetti paesi sviluppati. Fame, miseria, differenze abissali di status tra i cittadini del mondo, forme estreme di benessere e di povertà, sovralimentazione e sottoalimentazione, rapporti commerciali non proprio paritari tra stati, questi ed altri sono gli elementi di conoscenza offerti dalla concreta situazione del mondo. E se si volge lo sguardo ai contesti a noi più familiari, non vi è chi non veda come forme di capitalismo “selvaggio” e di familismo amorale, intreccio tra politica ed affari, assenza di regole nella trama dei rapporti economici siano all’ordine del giorno.


Il sopravvento dell’economia

Provando a guardare dietro la facciata, sembra emergere la realtà di un potere che è molto più visibile ma molto meno effettivo nella sfera politica, mentre è molto meno apparente ma molto più sostanziale nella sfera economica. Con la conseguenza di un connubio tra politica ed affari vissuto come antidoto o come convenienza, con la politica che finisce comunque nelle braccia dell’economia e della finanza, e con la sostituzione, a scapito dell’interesse generale, delle corporazioni di interesse, di natura economica, industriale e finanziaria, sulle istituzioni, da sempre concepite come presidio di tutela del bene comune per tutti i cittadini.

In definitiva, la realtà empirica è lì a dimostrare che un mercato evoluto non rappresenta lo spontaneo prodotto dell’azione umana ma il tutto di regole e di principi che sono andati progressivamente affinandosi, anche a seguito dei numerosi fallimenti che si sono verificati nel tempo.

In assenza di tutto questo, non disponendo di una propria autosufficienza sul piano etico, l’economia sembra sviluppare una genetica inclinazione al disordine ed alla sopraffazione, sedimentando distorsioni che si rivelano dannose per lo stesso processo di crescita della libertà. Del resto, che essa fosse incline a prendere il sopravvento su tutto il resto era ben chiaro già nella fase della nascita dell’economia politica come scienza. Lo ricorda Ernst F. Schumacher, un economista tedesco di nascita ma angloamericano di formazione, in un aureo libretto pubblicato a Londra nel 1973, dal titolo “Piccolo è bello”. Dove si legge che “Tornando insieme nella storia possiamo ricordare che quando si discuteva a Oxford 150 anni fa sull’opportunità di istituire una cattedra di economia politica erano in molti a non essere lieti di questa prospettiva. Edward Copleston, il grande Rettore dell’Oriel College non voleva ammettere nel curriculum dell’Università una scienza “così incline a usurpare tutto il resto” anche Henry Drummond di Albury Park, che aveva sovvenzionato la cattedra nel 1825, sentì la necessità di chiarire che si aspettava che l’Università tenesse al proprio posto la nuova scienza”.

E la politica? Come ha reagito la politica dinanzi ad una tale inclinazione?

La politica ha teso ad instaurare un rapporto con l’economia all’insegna di un condizionamento possibile ai fini della tutela dell’interesse generale. In ciò assumendo la tesi che l’economia in sé tutela interessi parziali, e che è necessario introdurre regole di comportamento che non favoriscano prevaricazione ed ingiustizia. Questa preoccupazione è diventata a volte eccessiva ed invadente, come nel caso dei sistemi ad economia pianificata. Con risultati, come è unanimemente riconosciuto, del tutto fallimentari.

Il problema del rapporto problematico tra economia e politica, però, resta tuttora aperto. Ed oggi ancora più intricato per lo scarto che esiste, nella cosiddetta “società globale”, tra il luogo delle decisioni, sempre più sovranazionale, e gli effetti di queste decisioni, che ricadono tuttora all’interno degli stati nazionali.

Per il ritorno della politica

Come si può uscire da questa situazione? Come è possibile affrontare i problemi inediti che emergono in questa società postindustriale? Come è evitabile la sudditanza, anche culturale, della politica nei riguardi dell’economia?

Per contrastare efficacemente la piega che le cose stanno prendendo, credo che occorra innanzitutto reagire al disincanto ed allo scetticismo che pervadono i nostri comportamenti, e riaffermare con convinzione il primato della politica sull’economia. Un primato che definirei “debole” più che forte, nel senso che sia capace di mettersi sempre in discussione, ad evitare l’eccesso di una politica che imbrigli la libertà economica dentro pastoie che costituirebbero il classico rimedio peggiore del male.

Per ottenere un tale risultato, è necessario pensare all’introduzione di regole in grado di favorire una vera concorrenza tra gli attori economici, evitando che, in modo aperto o malcelato, si formino concentrazioni in grado di dettare esse le regole del gioco. Perché regole vere possano essere pensate è necessario agire per “un più di politica” rispetto alla situazione attuale, intendendo per politica evidentemente quella con la “P” maiuscola, che punta all’interesse generale ed esalta il ruolo delle istituzioni, da intendere come “luogo” che preserva lo spazio delle libertà.

Fondamentale per un simile obiettivo è la crescita della coscienza civica e la conseguente possibilità di avere una pubblica opinione non facilmente condizionabile da messaggi lesivi delle fondamentali regole in materia di bene comune e di trasparenza dei comportamenti pubblici e privati. È questione - quest’ultima - oggi ancor più rilevante se si pensa che di frequente il potere economico e finanziario si trasforma in potere mediatico, in grado di condizionare pesantemente la formazione dei consenso sociale e dunque la libertà del cittadino.

Volendo concludere, il rischio della società moderna, e della società italiana ancor più in particolare, è che la politica, anziché essere un potere autorevole e forte, nel senso spiegato, diventi essa stessa uno strumento dei poteri forti. È un rischio del quale essere consapevoli e che occorre assolutamente contrastare. Non si tratta, evidentemente, di un compito facile, anche perché man mano che si procede verso una società della conoscenza a livello globale risulta ancora poco chiaro qual è lo spazio delle decisioni rilevanti che restano assegnate alle politica: a questo fine, mancano istituzioni adeguate, difettano le procedure, tardano a venire le necessarie riforme nei rapporti tra stati.

In ogni caso, anche se molto cammino resta ancora da fare, una cosa sembra sempre più chiara: in futuro, se si vorrà costruire una prospettiva possibile di libertà, di giustizia e di pace, avremo bisogno di una politica più forte, che sia in grado di ridimensionare questa pretesa onnivora dell’economia, che si manifesta sia a livello culturale che di pratiche individuali e di performance più complessive.

Perché uno scenario di tal fatta divenga probabile, è necessario ricreare le condizioni, ai diversi livelli, perché le istituzioni recuperino la loro intrinseca dimensione etica, grazie a nuove regole che andranno introdotte ed alla formazione di libere coscienze di uomini e donne di fortissima tempra spirituale che, con buona volontà, si ridedichino alla politica con passione e con rigore.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 11 Ottobre 2006 19:58

Etica e politica: divorzio inevitabile (Franco Monaco)

Il problema del matrimonio, piuttosto che del divorzio, con l’etica si pone per ogni sfera dell’ attività umana: famiglia, scuola, lavoro, cultura, politica. Chi non indulge a una visione meccanicistica o deterministica della vita e della storia, chi cioè le interpreta come poste sotto il segno della libertà (e della responsabilità), non può non porsi il problema di orientare giudizi, scelte e comportamenti alla verità e al bene.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Venerdì, 15 Settembre 2006 02:12

I primi e gli ultimi (Giovanni Vannucci)

I primi e gli ultimi
di Giovanni Vannucci

La parabola riportata in Mt 20, 1-16, per certi particolari, e per il contenuto di fondo, si ricollega a quelle del figlio prodigo e del pastore che, lasciando le novantanove pecorelle, va in cerca di quella smarrita. Il figlio maggiore, le novantanove pecorelle, rimasti sempre nella casa paterna e nell'ovile, non hanno conosciuto le angosce, le umiliazioni, gli avvilimenti del prodigo e della pecorella smarrita; così gli operai della prima ora patteggiano liberamente il prezzo, ignorano la pena di veder passare le ore senza essere ricercati, di veder arrivare la sera e la notte senza aver lavorato; gli altri non sanno come verranno pagati, accettano il lavoro, felici di poter guadagnare qualcosa.

Gli operai dell'undicesima ora avevano atteso tutto il giorno che qualcuno li cercasse; se i primi avevano durato la fatica e il gran caldo, gli altri avevano conosciuto l'avvilimento e l'angoscia dell'inutile attesa. Giustamente agisce il padrone della vigna, giustamente rimprovera gli insoddisfatti: «Vedi tu di malocchio ch'io sia buono? Non mi è lecito di fare del mio quello che voglio?».

Tutta l'idea dell'annuncio cristiano è contenuta in questa affermazione. Cristo è venuto non per i giusti e i sani, ma per i peccatori e gli ammalati; non per le pecorelle sicure nell'ovile, ma per quelle smarrite; non per i vignaioli che possono contrattare il prezzo del loro lavoro, ma per quelli che accettano il lavoro senza domandarsi quale ricompensa verrà data loro. Come il malato e non il sano abbisogna del medico, il peccatore e non il giusto ha necessità del Redentore, così colui che a lungo è stato disoccupato necessita di occupazione e di lavoro, egli non discute di ricompense, è solo pago di lavorare.

L'operaio dell'undicesima ora non è soltanto, come comunemente s'intende, il peccatore che si converte all'ultima ora. Ordinariamente è l'uomo buono, intelligente, spesso colto, spiritualmente disoccupato; l'uomo cioè privo di idealità, non perché ne sia incapace ma perché sino ad allora nessun vero ideale gli si è presentato. E di questi uomini ne esistono in tutte le razze e in tutte le religioni. Spesso si vive un'intera vita senza interessarsi ai massimi problemi del nostro essere. Blandamente, con indifferenza, si seguono le leggi del proprio paese e i riti della propria religione, senza preoccuparsi di approfondire gli uni e gli altri. Più che vivere si è vissuti, più che pensare si è pensati e, come gli operai della parabola, si aspetta qualcuno che ci cerchi, qualcuno che ci faccia lavorare, finché qualcuno giunga; talora il padrone che ci manda alla sua vigna può chiamarsi sventura, malattia, miseria, dolore! Giungerà colui che ci domanderà: «Perché ve ne state ancora inoperosi?»; risponderemo: «Nessuno ci ha presi a giornata ed è già l'ultima ora del giorno». Ed egli ci dirà: «Andate anche voi nella vigna».

Spesso, dopo una vita inutile e vuota, con un richiamo improvviso, come un bagliore sopra gli occhi chiusi, comincia il lavoro dello spirito. Che esso duri molto o poco non importa, importa che esso ci sia, importa che tutta la giornata terrena non sia conclusa nell'ozio. Così vediamo persone anziane, vissute fino ad allora tranquille, che di colpo, come obbedendo a un richiamo, si gettano in attività, si dedicano a studi cui mai avevano pensato, si interessano appassionatamente al mondo che le circonda, e, con uno slancio in cui è contenuta una vera gratitudine, lavorano nella vigna del Signore.

L'operaio dell'undicesima ora è stato chiamato e ha risposto, avrebbe risposto prima se prima fosse stato cercato. L'operaio dell'undicesima ora non dice mai «è tardi», ma risponde sempre «eccomi!». Il premio degli ultimi sarà giustamente uguale a quello dei primi, poiché attendere di essere chiamati e mantenersi liberi con l'animo di aderire al richiamo, è già lavorare.

La ricompensa dei primi come degli ultimi è unica. La ricompensa è l'indiamento, il possesso beato della pienezza della vita; vi è solo una vita divina, la quale non può darsi ai suoi fedeli se non nell'identica maniera. I brontolamenti, le proteste dei figli rimasti sempre nella casa paterna, degli operai della prima ora, attireranno solo lo sdegno del padre e la dura risposta del padrone, che testimoniano un'infinita comprensione in un infinito amore. «Tu sei sempre stato con me», dice al figlio maggiore il padre del figlio prodigo. «Amico, non ti fo alcun torto, non hai convenuto con me per un denaro?», risponde il padrone della vigna.

La parabola termina con un aforisma che ci deve far pensare: «Gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi». Perché questa predilezione divina verso gli ultimi? Spesso mi chiedo: verso chi andavano le preferenze di Gesù morente sulla croce, al buon ladrone o all'altro che accetta fino in fondo le conseguenze della sua vita delittuosa? Il primo, in qualche maniera, approfitta di Cristo: «Ricordati di me quando sarai nel tuo Regno»; il secondo vive fino all'estremo la sua scelta di libertà.

E non è una domanda retorica questa, facciamocela e forse riusciremo a spogliarci di tutte le nostre albagie di figli buoni e di operai della prima ora!

Spesso lo stato d'animo dei figli prodighi, degli operai dell'ultima ora corrisponde a quello che Ornar Khayam descrive in un suo poema: «Ho visto un uomo solitario in un luogo arido. Non era ne eretico, ne ortodosso. Non aveva né ricchezze, né religione, né Dio, né Verità, né Legge, né certezze. Chi in questo mondo è capace di tanto coraggio?». Quando questi uomini entrano nella vigna, vi portano il loro coraggio, la loro forza, la loro dedizione che hanno raggiunto in una solitudine libera e spoglia. Allora «gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi».

Gli ultimi non porteranno nel Regno le meschinerie, le rivalità, le ambizioni dei primi!

(Da Giovanni Vannucci, «I primi e gli ultimi» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 25a del tempo ordinario, Anno A; pp. 165-167).

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Pubblicato in Maestri Contemporanei
Martedì, 25 Luglio 2006 02:06

Il vero miracolo (Giovanni Vannucci)

Il vero miracolo
di Giovanni Vannucci



Leggendo il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14, 13-21), vengono alla mente due spontanee domande: perché questo prodigio è stato riportato dall’evangelista Matteo? Esiste in esso un significato recondito? Alla prima domanda le risposte sono varie, da quella dell’apologetica più trita che Gesù avrebbe compiuto il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci per far toccare con le mani agli uomini presenti e futuri la sua natura divina, a quelle più sottili che vi vedono indicata l’essenza della nuova èra iniziata con Cristo: l’èra dell’amore assoluto i cui simboli sono il pane e il pesce.

Se dovessimo credere al mistero di Gesù Cristo per i miracoli che ha compiuto, dovremmo credere a tutti quelli che prima e dopo Cristo hanno compiuto, in buona o cattiva fede, dei miracoli. Sarebbe la logica conseguenza dell’assioma apologetico: chi si mostra Signore delle leggi della natura (il miracolo è per lo meno una sospensione del normale corso delle leggi che regolano l’universo) possiede una divina natura. E di miracoli l’umanità ne ricorda miliardi; anche tenendo conto che un buon numero sono il prodotto di ciurmatori, ne rimane una notevole quantità di compiuti in buona fede, e vediamo illogica l’equivalenza tra miracolo e natura divina di chi lo compie.

Forse i prodigi di Cristo sono riportati dagli evangelisti per ben altre motivazioni, che dovranno essere scoperte caso per caso. L’impressione che si ricava dalla lettura attenta delle relazioni sui miracoli di Cristo è che non li compiva volentieri: è sufficiente notare la sua riluttanza al miracolo delle nozze di Cana, per esserne persuasi. Egli compì miracoli forzato e costretto dalle preghiere e gli affetti di chi lo circondava, e quando si arrese una grande tristezza lo invase, dovendo constatare come l’intelligenza dell’uomo preferisse essere abbagliata che non convinta. Dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, Gesù con tristezza dice ai dodici: «Voi non avete ancora capito» (Mc 8, 21).

Egli ardeva di comunicare agli uomini mortali la loro immortalità, ardeva di portare la loro mente negli spazi eterni, ove Iddio si rivela nella luce e nella vita e si manifesta come Padre e Padre amoroso. E Gesù era triste nel compimento dei miracoli, i suoi e gli altri si fermavano sull’aspetto clamoroso del prodigio e non volevano imparare ciò che con infinita pazienza stava insegnando. Ogni giorno, per colui che sa vedere, è denso di miracoli. Se ponessimo mente al perenne miracolo della vita, saremmo in continua adorazione dell’immensa e amorosa Mente che ci avvolge; in essa troveremmo di continuo la soluzione a ogni problema della nostra vita.

Se imparassimo a liberarci dall’interesse egoistico, a superare le difficoltà in un atto di confidente amore, se volessimo, scuotendo la nostra pigra ignoranza, protenderci nella nostra vera dimensione che è la divina realtà, sapremmo come chiedere a Dio ciò che Dio stesso brama di volerci dare: la compiuta sua somiglianza, la perfetta sua libertà, l’infinito suo operante amore! Ma abbiamo paura di ciò che veramente ci libera, vogliamo ciò che ci imprigiona, vogliamo la guarigione della carne che abbiamo resa inferma con i nostri disordini; vogliamo il trionfo delle nostre verità personalistiche che imprigionano lo spirito; vogliamo le ricchezze terrene che rendono quasi impossibile la salvezza eterna: questi miracoli domandiamo continuamente.

Nella narrazione del miracolo della moltiplicazione dei pani c’è un particolare sul quale dobbiamo fermare l’attenzione: Cristo dice ai discepoli, preoccupati dell’ora tarda e della fame della folla: «Datele voi da mangiare. Risposero: non abbiamo che cinque pani e due pesci. Ed egli disse: portateli a me». I discepoli, con assoluta fede e altruismo totale, donano ciò che hanno, e aprono la via all’evento miracoloso. I discepoli presentano cinque pani, cinque forme di pane che sono la maturazione del grano trasformato in farina e questa, attraverso la panificazione, in un nutrimento perfetto e completo. Li presentano a Cristo senza chiedersi cosa ne avrebbe fatto, senza domandarsi come avrebbero saziato la loro propria fame, offrono con un atto di dedizione incondizionata quanto hanno, tutto quello che in quel momento avevano, e il miracolo ricopre la vallata ove erano i cinquemila uomini.

Il miracolo vero è quello che in quell’istante si è compiuto nella trasformazione del cuore dei discepoli: hanno dimenticato la loro fame, il loro diritto a possedere il proprio pane, hanno abolito il prefisso «mio»; il loro pane non è più loro, ma lo ripongono nelle mani di Cristo; in quell’istante di perfetta maturità essi stessi non sono più di se stessi, ma di tutti.

Noi crediamo che Gesù abbia fatto dei miracoli, ma non per i miracoli noi crediamo a Lui. Il vero miracolo che ci avvicina e ci fa credere è il rinnovamento dei tempi, la grandezza della sua rivelazione, la potenza del suo insegnamento. L’autentico suo miracolo è il discorso della Montagna, la novità e vastità del suo amore, la sua capacità di redimerci dall’interno. Crediamo in Gesù Cristo Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, non a motivo dei suoi miracoli, ma a cagione di Lui stesso. Per questo respingiamo i falsi profeti insieme ai loro prodigi apparenti o reali, come respingiamo le seduzioni di chiunque creda di farci sognare un sogno e crede a una visione.

Cristo è la verità, la verità è oltre le apparenze, è la verità che solo lo spirito può contemplare in silenziosa solitudine, e il miracolo è che ogni uomo può vivere questa verità quando ha raggiunto la totale dimenticanza di se stesso divenendo offerta pura e totale.


(Giovanni Vannucci, «Il vero miracolo», 18a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 141-143).
Pubblicato in Maestri Contemporanei
Venerdì, 07 Luglio 2006 00:45

I piccoli (Giovanni Vannucci)

I piccoli
di Giovanni Vannucci


La commovente pagina di Mt 11, 25-30 è preceduta da una serie di parole di condanna che Gesù rivolge al suo popolo, indifferente ai richiami austeri di Giovanni Battista, e a quelli più umani da lui rivoltigli: «È venuto Giovanni, non mangiava e non beveva ed è stato considerato come indemoniato; sono venuto io che mangio e bevo e mi dite che sono un mangione e un ebbro, l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Allora prese a maledire le città dove aveva compiuto prodigi e non si erano convertite».

Le città incredule, che suscitarono lo sdegno di Cristo, fanno da sfondo oscuro a una nuova società che avanza e che si raccoglie intorno a Lui: i piccoli, gli affaticati, gli oppressi, ai quali rivela le cose nascoste ai saggi e agli intellettuali. Chi sono i piccoli, i fanciulli alla cui statura i discepoli sono chiamati ad adeguarsi?

Il piccolo è l’umile, l’uomo pronto ad amare e a credere, l’uomo che ha il cuore aperto allo stupore di ogni fiaba, di ogni vera rivelazione, che, nelle manifestazioni della vita, scorge la presenza del sogno e della poesia, dell’armonia e della meraviglia, che di fronte all’erba verde non pensa alla clorofilla, ma alla mano invisibile che l’ha resa bella di quel colore. Il piccolo è il meraviglioso costruttore del Regno dei cieli. Ai piccoli Gesù dice: «Venite a me».

Per avere la vita è sufficiente andare a Cristo, ma per andare bisogna voler andare! La volontà umana, la capacità di rispondere a un appello, è l’arbitra del cammino verso Cristo. Per credere a Cristo bisogna voler credere, per andare a Cristo bisogna volerci andare. Cristo non ci vuole per forza, non ci lusinga con facili ricompense, non ci violenta, non ci salva nostro malgrado. Ognuno deve avere il suo piccolo e indiscutibile merito; ognuno deve, rispondendo alla chiamata, dimostrare di avere un nome e di non essere un bruto incosciente che attende un maestro qualsiasi pronto a iniziarlo.

«Venite a me che sono mite e umile di cuore». Cristo sintetizza la sua persona in queste due qualità: dolcezza e umiltà.

Non confondiamo la dolcezza con l’untuosità e la smanceria ritenute, ordinariamente, le note che qualificano la persona devota! Quando un frutto è dolce? Quando è maturo, quando tutto in lui ha raggiunto il grado della perfezione. L’umiltà non è la sottomissione ai potenti, ai dotti, ai superuomini, ma l’estrema libertà del cuore che si è scrollato da tutte le prigioni costruite da mano umana e che può dire, in piena verità, «non conosco uomo», sono solo davanti al mistero divino.

La dolcezza di Cristo è bontà aggressiva, combattiva, è la bontà del Buon Pastore che va a cercare la pecorella smarrita, ma è anche il pastore che spacca la testa al lupo, e nella lotta al principe di questo mondo è senza debolezza, lo aggredisce ovunque lo trovi. È umile, la sua indipendenza dai potenti è assoluta fino alla morte di croce per obbedire al suo mandato.

A ben considerare, la dolcissima pagina del vangelo di Matteo si appoggia su una realtà di tensione profonda tra la violenza dei potenti e la mitezza dei piccoli, tra la forza brutale degli integrati nel regno di questo mondo e gli oppressi che conservano intatto nel cuore il sogno di un Regno diverso e sono sensibili alla poesia delle cose. Noi siamo perpetuamente nel mezzo di questa tensione, siamo dei poveri cuori minacciati dalla sclerosi, ci è necessaria una continua vigilanza sugli egoismi sempre risorgenti, per superarli conservando lo stupore, l’attesa del miracolo, dell’incontro con Cristo. Attesa che accende in noi una luce certa e pura che di niente si inquieta, che è in se stessa slancio, offerta, dono.

Abituandoci a muoverci in questa luce, l’universo lentamente cambierà di senso e di aspetto, avremo la sapienza dei semplici, non quella dei dotti e degli intelligenti! Incontreremo la dolcezza, maturità piena, di Cristo, l’umiltà , donazione al più assoluto ideale, del Maestro. Orienteremo in maniera corretta le nostre energie vitali per raggiungere la maturazione del nostro personale io, la più totale offerta di noi stessi alle energie divine. Evitando di far decadere, come fanno i dotti e gli intelligenti, la pienezza di vita, che ci viene comunicata, in oggetto di speculazioni, di ideologie, di parole, di precetti. Schivando quella degradazione della fede ai pregiudizi, agli interessi sodali volgari, alla manipolazione della psiche.

Le parole violente di Cristo contro i Farisei, che avevano miniaturizzato il mistero divino, contro i dottori della legge che avevano «fatto sparire le chiavi della conoscenza» (Lc 11, 52), contro le città che, chiuse nel loro benessere, avevano perduto l’attesa della rivelazione, conservano anche oggi il loro peso. L’umile non dice mai di no allo Spirito che lo muove e lo conduce al giogo dolce e leggero di Cristo, è il no che alimenta le fiamme dell’Inferno.

Ritrovare la pochezza dei piccoli, mi sembra l’urgente consegna del nostro tempo. Vi è fame e sete di conoscenza spirituale nel nostro mondo, ma ancora una volta i dottori della legge, gli intelligenti, avendo la chiave non la vogliono usare, e loro non entrano né lasciano entrare altri nel Regno, simili al cane che dorme nella mangiatoia, non mangia il fieno e impedisce ai buoi di mangiarlo! Eppure il seme divino germoglia e le messi biondeggiano, ma non sono gli operai del padrone quelli che mietono, e non è nei granai del regno di Dio che il grano viene raccolto!

Una divina sete d’amore è seduta sul parapetto del pozzo umano e supplichevole chiede: «Dammi da bere, dammi l’acqua deperibile della tua natura umana, in cambio ti darò quella viva della mia natura divina!».

«Ti benedico, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli!».



Giovanni Vannucci, «I piccoli», 14a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 128-130.
Pubblicato in Maestri Contemporanei
Venerdì, 02 Giugno 2006 21:09

La missione dell’uomo (Giovanni Vannucci)

La missione dell’uomo
di Giovanni Vannucci


Il mistero che oggi celebriamo, la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, è il fondamento eterno della nostra esperienza religiosa cristiana, della nostra esperienza della Chiesa. E vorrei in parole semplici potervi dire quello che penso sulla discesa dello Spirito Santo, sulla trasformazione operata in quegli uomini dallo Spirito Santo. Una delle prime cose che voglio dirvi è questa: nel Cenacolo dove erano i discepoli, secondo la narrazione degli Atti degli Apostoli, lo Spirito Santo discende sopra di loro a forma di fiammelle e discende su ciascuno dei presenti. Questo è un fatto, è un’immagine della prima trasmissione del mistero cristiano. E l’eterna trasmissione del mistero cristiano è sempre fatta attraverso immagini davanti alle quali noi dobbiamo sostare in silenzio per poterne comprendere l’insegnamento che ci viene dato dalla figura, dal simbolo, che costituisce l’immagine.

Così in questo primo pensiero sul mistero della Pentecoste, lo Spirito Santo discende non come globo di fuoco su tutti i discepoli e neppure discende come una fiammella sul primo discepolo, fondamento della Chiesa, Pietro, ma su tutti. E discende in fiammelle distinte l’una dall’altra. Questa è una verità che dobbiamo cercare di vivere, perché lo Spirito Santo nella sua pienezza, nella sua intensità di vita, viene comunicato a tutti. Nella diversità poi delle sue fiammelle, di quei quantum di luce e di calore che lo costituiscono, viene dato a ciascuno dei dodici. Non ce l’ha più il prete e meno i laici, non ce l’ha più il Papa e meno i vescovi, meno i preti e meno ancora i laici.

Ma come e a chi è concesso lo Spirito Santo? In una forma personale, in una forma distinta, in una forma differente da quella che viene concessa ad altri. E questo costituisce l’aspetto profondo: anche se non siamo riusciti a realizzare sempre, per un continuo affermarsi di potenza dell’uomo, questa realtà della Chiesa, tuttavia rimane l’essenza della Chiesa, l’aspetto divino della Chiesa, l’aspetto profondo della Chiesa, lo Spirito che viene consegnato da Gesù. A ciascuno è concesso lo Spirito e la pienezza dello Spirito noi la raggiungiamo mettendo insieme le piccole fiammelle, e allora riusciremo a comprendere quell’intensità di luce, di calore, di illuminazione, di verità, che viene concessa a tutta la Chiesa quando è in questo stato di perfetta umiltà e di perfetta attenzione agli altri. E questa è una realtà che dobbiamo pazientemente e faticosamente recuperare se vogliamo che la nostra Chiesa sia “una Chiesa”, cioè una comunione di soggetti, non una realtà sociale con un capo e dei sudditi. Quindi abbiamo la responsabilità di quella fiammella, di quel dono dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto.

Però vorrei portare la vostra attenzione su altri elementi della festa della Pentecoste. Ricorre il numero sette. Se voi aprite un qualunque manuale di storia delle religioni e andate all’indice, dove si parla dei numeri sacri, e prendete il numero sette, voi troverete che il numero sette ricorre in tutte le esperienze religiose dell’uomo: anche in quelle che noi chiamiamo esperienze religiose dei primitivi, per esempio gli sciamani della Siberia - è un fenomeno che viene studiato molto attentamente, perché contiene delle grandi verità... -. Lo sciamano, quando sale sul suo albero - l’albero ha sette tacche, sette segni incisi -, quando giunge al settimo segno riceve la rivelazione della divinità, riceve le risposte che si attende da questa sua ascesa verso l’alto. Poi abbiamo i sette doni dello Spirito Santo. Il numero sette è il numero della completezza, che non viene raggiunta astrattamente per una combinazione di concetti, ma attraverso l’esperienza dell’uomo la nostra coscienza scopre che la realtà è costituita dal sette. E’ il numero della pienezza divina e umana.

L’invisibile non manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità; il divino manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità che si manifesta. Tre più tre fa sei, più uno... E chi è quest’uno? E’ l’uomo, che nel mondo del visibile è il punto in cui tutta la realtà invisibile si compendia e si esprime. Ed è l’uomo che deve - attraverso la sua attività di coscienza, di pensiero, di meditazione, attraverso il suo impegno religioso - scoprire e il visibile e l’invisibile. Questa è la missione dell’uomo.

L’aspetto non manifesto della divinità lo possiamo esprimere molto vagamente con dei vocaboli umani. L’aspetto manifesto è costituito dal tre, cioè dalla potenza: quando diciamo e chiamiamo Iddio onnipotente. Poi è costituito dall’amore, poi è costituito da una volontà che è libertà. Stamattina noi leggevamo qui un bellissimo testo di Gioacchino da Fiore : il succedersi di varie ere. L’era del Padre, che è il Vecchio Testamento, l’era del Figlio, che è l’era dell’amore. Nel Nuovo Testamento l’umanità - secondo questo grande uomo, Gioacchino da Fiore - si sta dischiudendo verso un’altra rivelazione, un’altra manifestazione del divino che è la volontà per la libertà. Quindi, il Padre è il Padre onnipotente, il legislatore, il sovrano, il re; il Figlio è il portatore dell’amore, della misericordia, della compassione; e lo Spirito Santo è colui che completa l’opera del Padre e del Figlio nell’apertura della nostra coscienza a una libertà, la libertà dei figli di Dio, dove l’amore trova la sua completezza e supera tutti i suoi limiti, dove la potenza paterna trova la sua piena manifestazione nel rispetto verso tutte le infinite creature che appaiono all’esistenza. E noi uomini, la nostra coscienza, siamo quell’uno che riceve questa rivelazione, la vive e la manifesta. E allora si ha la completezza della manifestazione religiosa e divina e spirituale nella storia degli uomini.

Ma parliamo dei sette doni. Noi, in Occidente, abbiamo perduto molte conoscenze. Per gli antichi l’uomo era composto di sette corpi; noi abbiamo molto semplificato. Cos’è l’uomo? E’ un animale che cammina eretto. E Cartesio ha detto: l’uomo è una macchina abitata dall’anima. Abbiamo la macchina, che è il nostro fisico, e il motore interno, che è l’anima. L’uomo è composto di anima e di corpo e noi abbiamo talmente generalizzato questo termine “anima” che non sappiamo più che cosa sia. Poi lo Spirito è cantato dal nostro linguaggio ... Quindi l’uomo è composto di due realtà, anima e corpo. Per gli antichi era composto di sette corpi ; era come una specie di corteo dove ci sono sette personaggi. C’è un personaggio, il vagabondo, che passa da un’osteria all’altra; se non è tenuto d’occhio, con facilità cade nel fosso, si smarrisce, oppure compie dei gesti irresponsabili. Poi c’è un’altra presenza in noi che si potrebbe chiamare il lavoratore, quello che fa, quello che compie delle azioni con grande passione; poi c’è un altro personaggio, che è lo studente, che si interessa, va a scuola, cerca di imparare, cerca di capire le cose della vita; poi c’è la madre, che accompagna questo corteo; poi c’è il magistrato, un giurista, un guerriero; poi c’è l’artista, un intellettuale, uno scultore, un poeta, un musicista; e infine c’è il prete.

Ecco, questi sono i sette corpi della nostra realtà umana: in noi c’è un corpo che è un po’ il briaco della compagnia, il vagabondo. Quante volte ci prende la mano il corpo! Si vorrebbe fare, intraprendere, poi viene la stanchezza; oppure se devo passare una bella giornata alle Stinche, questo signore, il corpo, reagisce al polline e comincia a starnutire, è la febbre del fieno: non si può mai disporre pienamente del nostro corpo. Poi c’è la nostra intelligenza che ci fa conoscere le cose, vogliamo sapere il perché dell’esistenza dell’uomo, il perché di una cosa, come è costruita una casa, come si fa un’operazione matematica, come si chiamano le stelle del cielo. Tutte queste cose le vogliamo sapere: è la parte della nostra ragione che non crede, della ragione che vuol sapere le cose, capire le cose. Poi c’è anche una parte di noi che nel corteo, ho detto, è la madre, la misericordia, l’amore, la protezione della vita, la parte del nostro essere che ci porta a guardare con grande affetto e simpatia tutte le manifestazioni della vita, a difendere la vita, a proteggere la vita, a sostenere la vita. E, infine, ci sono altri tre personaggi: uno, vi ho detto, può essere il magistrato, l’uomo di legge, oppure un militare, un guerriero, ed è la parte del nostro essere che ci porta a organizzare, a dare una gerarchia alle nostre attività, un ordine alle attività del corpo, alle attività della mente, alle nostre attività emotive. E poi c’è un’altra parte del nostro essere che, vi ho detto, è l’artista: è la parte del nostro essere che capisce, per un movimento incomprensibile e inspiegabile, il senso delle cose, oppure che, improvvisamente, sente la bellezza di un tramonto, di un’alba, di un fiore, e le esprime in forme di arte perfetta; cioè in noi c’è l’artista, è la parte più mutevole del nostro essere perché può essere perduta, repressa. E infine in noi c’è il prete, il sacerdote, che è la parte del nostro essere che capisce il significato profondo dell’esistenza. Al termine dei sette doni c’è la sapienza, alla base c’è Dio. Tutto questo ci deve rendere stupefatti e deve dare alla nostra vita un senso di responsabilità di fronte a tutta l’esistenza, alla nostra esistenza personale e all’esistenza di tutti gli altri esseri. Ascendendo questa scala di sette gradini si riesce a comprendere il senso dell’esistenza, perché il significato del nostro esistere è il significato dell’esistere di tutti gli altri esseri.

Io mi sono domandato molte volte: che cos’è avvenuto di tutte queste cose? Nelle cerimonie del battesimo, per esempio (ieri abbiamo battezzato un bambino), vengono toccati dei punti del corpo: tre punti, la nuca, la fronte, il cuore che, secondo tutta la tradizione e orientale e occidentale, sono i tre centri sottili che, quando si risvegliano, mettono l’uomo a contatto con delle forme di conoscenza differenti. Il cristianesimo si è sempre interessato soltanto di questi tre centri superiori. Non si è mai interessato dei centri inferiori. Per esempio, tutto l’induismo, nella sua pratica dello yoga, comincia dal centro più basso, poi mano a mano sale e giunge ai tre centri superiori. Il cristianesimo si è sempre interessato di sviluppare questi tre centri superiori; e si è pensato che sia questa una delle differenze per l’impostazione della meditazione cristiana in confronto alle altre meditazioni, perché quando si sviluppano i tre centri superiori gli altri seguono inevitabilmente l’ordine di armonia.

Ma io mi sono domandato: cosa è avvenuto nel Cenacolo in quegli uomini? Vi do una spiegazione che è mia, quindi non siete per niente obbligati a seguirla. Ma, cerco di indovinare perché, ordinariamente, davanti a questi misteri religiosi, a queste immagini meravigliose, ci abbandoniamo, così, a una contemplazione esteriore, oppure ci accontentiamo di spiegazioni tradizionali che non ci permettono di penetrare il mistero; non è che io voglia spiegare il mistero, ma voglio darvi delle indicazioni che, per me, sono abbastanza ragionevoli per poter capire quello che è avvenuto nella coscienza di quegli uomini nel Cenacolo. Ché prima della Pentecoste Pietro era un pavido, gli altri erano, anche loro, molto legati alla loro umanità. Improvvisamente da quegli uomini scaturisce l’annuncio della Parola e scende nel cuore degli uomini e trasforma tutto l’Occidente. Deve essere avvenuto qualcosa.

Io penso sia avvenuto questo: lo Spirito, discendendo dall’alto, ha preso possesso di quegli uomini nei tre centri. Cioè, del senso del sacro, e hanno raggiunto la sapienza, hanno capito il perché dell’esistenza e quindi hanno compreso con intensità di vita e di partecipazione - non di spiegazione, ma di partecipazione - quella realtà portata da Cristo sulla terra e che loro avevano vissuto, alla quale avevano partecipato, ma che non avevano ancora compreso. Hanno capito che Cristo iniziava una nuova era per la coscienza umana, l’era dell’amore. Poi di loro è stato preso possesso anche dell’altro centro, dell’intuizione, non più abbandonata a improvvisazioni di momenti di particolare emozione, ma diretta verso la comprensione di quel mistero che era stato rivelato e che essi avevano compreso con la loro esperienza. Poi quel personaggio che vi ho descritto come il portatore dell’organizzazione, della gerarchia, e nel lavoro nostro personale e nel lavoro di società (il magistrato, n.d.r.), anche questo è stato preso e trasformato con violenza dallo Spirito Santo, perché doveva nascere una nuova società, perché l’uomo non è mai riuscito a creare una società e anche dentro la Chiesa non siamo mai riusciti a creare quella nuova società che era annunciata da Cristo.

Era necessario un lavoro in serie, affidando a ciascun operaio la produzione di una determinata parte dell’opera e organizzandola entro tempi sufficientemente brevi. Questa è una capacità organizzativa che abbiamo noi uomini, che parte da noi uomini e che è un prolungamento della nostra ragione, della nostra intelligenza nella vita. Così, quando organizziamo la nostra vita, noi cerchiamo di prevedere tutto ciò che ci può capitare durante la giornata e incanaliamo in un certo ordine la nostra giornata. Quando poi viviamo in società, il responsabile della società ha una particolare immagine dell’uomo e vuole che gli uomini corrispondano ad essa nella vita sociale, imitino questo modello che lui ha dell’intelligenza dell’uomo: un militare, davanti a un esercito, ha una particolare visione del soldato e vuole che il soldato imiti questa idea che lui ha del soldato.

Nel cristianesimo le cose non sono così: non è l’uomo che crea la società, ma è lo Spirito Santo che crea la società. E la Chiesa non è creata dagli uomini, ma è creata, alimentata e fecondata dallo Spirito Santo. Quando Cristo dice a Pietro: “Tu sei pietra e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa” - vi ho detto altre volte che chi edifica la Chiesa non è Pietro, né il Papa, ma il Cristo -, dicendo: tu sei pietra, Cristo prende un simbolo religioso che è antichissimo quanto è antica l’umanità; è forse il primo simbolo dell’umanità religiosa: la pietra . E la pietra cos’è? Cosa rappresenta? Rappresenta la Grande Madre. Quando i primi cristiani chiamarono la Chiesa “Madre”, si riferivano a questa esperienza profonda. Cioè la Chiesa è quella struttura duttile e malleabile come l’utero della donna quando porta avanti un germe, un germe che ha accolto. Questo organo femminile aumenta mano a mano che il germe si sviluppa. Quando poi il germe ha raggiunto, nei nove mesi, la sua piena maturazione, lo lascia. Questa è la struttura della Chiesa.

Mi direte, non è così. Non è così perché noi uomini faticosamente arriviamo a liberarci da noi stessi. Perché se Dio nella sua manifestazione visibile è il potere, è un potere differente dal potere di noi uomini. Confrontate l’onnipotenza di Dio con il concetto che noi abbiamo di onnipotenza. Non corrisponde. E’ un’impotenza. Ve lo accennavo per Natale, quando noi veneriamo nel Fanciullo la manifestazione suprema della divinità. In questa immagine, in questa realtà noi non facciamo altro che dire che l’onnipotenza di Dio di fronte alle nostre onnipotenze e potenze umane è una impotenza, una non potenza. Ma questo lo abbiamo dimenticato proprio nella nostra prassi religiosa, perché ci siamo abbandonati senza distinguere chiaramente quella che deve essere la realtà cristiana da quella che è la realtà umana.

Gli uomini sono portati a creare delle strutture mentre la Chiesa, essendo opera dello Spirito Santo, è come il seno di Maria santissima, che accoglie la parola di Dio e cresce mano a mano che questa Parola cresce nel suo grembo. E allora le strutture dure, nella Chiesa, sono assolutamente un’opera diabolica, un’opera antispirituale, un’opera che la cristianità viveva in un dato momento, che non è più aperta alla fecondazione dello Spirito, ma si abbandona a quelle forze che vengono dal basso; cioè l’uomo cattolico, l’uomo di un’altra Chiesa, non è più l’uomo cristiano, ma un uomo puramente umano e allora si hanno delle durezze, si hanno quelle strutture potenti e pesanti che abbiamo portato ad esempio e che ora sogniamo e aspiriamo a superare, se riusciamo ad accettare la realtà che in ognuno di noi c’è lo Spirito Santo in una forma particolare e differenziata da tutte le altre forme.

Questo volevo dirvi. E cos’è avvenuto negli apostoli? Dio ha preso possesso di queste capacità di uomo e ha dato loro una saggezza divina, agli apostoli ha dato un’intuizione divina e una capacità di organizzazione divina. Per noi la situazione è differente: noi dobbiamo raggiungere lo Spirito Santo attraverso un faticoso cammino, lungo la vita terrena; cammino di riordinamento di tutte quelle parti che compongono il nostro essere e, una volta raggiunto questo riordinamento, possiamo sperare che avvenga in noi quella folgorazione che, imprevista e inattesa, si è compiuta negli apostoli. E allora anche il numero sette, anche i nostri sette corpi saranno unificati da questa fiamma che discende sul nostro capo e che tutto unifica, tutto illumina, tutto trasforma. E saremo in mezzo agli uomini delle creature che portano il mistero totale, non solo il mistero divino ma anche il mistero dell’uomo, rivelandone la compostezza, la pace, la luce, la creatività, l’armonia, l’equilibrio, l’amore, la pietà, la saggezza, che non nascono dall’uomo ma da Dio. In noi nascono, vi dicevo, come conquista, conquista lenta, accanita, tenace, ardente, che ci accompagna per tutta la vita.

Anche noi siamo in cammino verso la nostra Pentecoste, verso la presa di possesso di quella fiammella che è discesa su di noi e che discende continuamente su di noi, che è lo Spirito Santo. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Allora - vedi Carolina - riusciamo a ordinare il corteo di quei sette personaggi... sanno dove vanno e, quando scopriranno dove sono diretti, capiranno che sono diretti verso la luce, cioè alla visione completa e illuminante di tutto il mistero e della loro vita e delle vite degli altri, e dell’esistenza attuale e dell’esistenza futura. Saremo delle persone che capiscono, che comprendono, e in conseguenza di questa comprensione e di questa saggezza raggiunta, ci comporteremo come creature illuminate e santificate dallo Spirito Santo.



1) Giovanni Vannucci, omelia pronunciata nell’eremo di S. Pietro alle Stinche, Greve in Chianti (FI), durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18, domenica 6 giugno 1976 (Domenica di Pentecoste), Anno B; registrata su nastro magnetico da Elena Berlanda e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata da Fraternità di Romena editrice, Pratovecchio (AR), 2005, in Nel cuore dell’essere, pg. 157-166.undefined
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Mercoledì, 17 Maggio 2006 03:01

La porta e la voce (Giovanni Vannucci)

La porta e la voce
di Giovanni Vannucci

Due espressioni, nella pagina del vangelo di Giovanni (10,1-10), colpiscono la nostra attenzione. La prima è la porta: «Io sono la porta»; la seconda è la voce: «Le pecore ascoltano la sua voce». La porta è l’apertura che segna il passaggio tra due spazi distinti; varcare una porta, anche della più umile casa, costituisce qualcosa di grave e di solenne per uno spirito sensibile: attraversando una soglia, abbandona il suo consueto ambiente ed entra in un altro differente.

Questa è la più elementare esperienza che sta alla base delle parole di Cristo, e di tutto il simbolismo della «porta». La porta separa e unisce due ambienti, due spazi, due gradualità dell’essere, due matrici, due mondi distinti da strutture fisiche, psicologiche, mentali. Il varcare la soglia costituisce il passaggio da un modo d’essere a un altro; nell’esperienza religiosa le varie iniziazioni, che accompagnano le tappe della crescita fisica e psicologica dei credenti, sono vissute come il varco da un modo d’essere a un altro; la soglia presenta quel carattere di angoscia, di timore sacro che segna la linea di demarcazione tra un mondo conosciuto e quello sconosciuto che si apre al di là del limite. Giacobbe, dopo l’esperienza della sacralità del luogo ove aveva avuto il sogno iniziatico, esclama: «Questo luogo è tremendo, qui c’è la dimora di Dio e la porta del cielo» (Gen 28,17). L’aspetto angoscioso della porta, come ingresso in uno spazio differente, viene manifestato nel grande portale che introduce negli edifici sacri attorniato da «guardiani della soglia», draghi, leoni, sfingi, personaggi divini o semi-divini.

Questi pochi accenni al simbolo della porta ci aiutano a comprendere il significato della parola di Gesù che leggiamo nel Vangelo: «Io sono la porta, il pastore vero passa per la porta, il prezzolato e il ladro entrano nell’ovile attraverso altre aperture».

«Io sono la porta», il punto di passaggio da uno stato di coscienza vecchio e conosciuto, a un altro nuovo e sperimentabile. Cerchiamo, avanti di aggiungere altro, di comprendere il contenuto dell’affermazione di Cristo: le porte dei templi, i riti di passaggio costruiti e ordinati dall’uomo sono dei simboli, palpabili e misurabili, di un altro itinerario che la coscienza compie dentro il gesto, l’immagine esteriore; itinerario che sfocia in una mutazione qualitativa dell’anima, dell’interiorità. Le porte e i riti sono dei segni di qualcosa che si compie nell’intimo della personalità che varca la soglia dello spazio nuovo. Le strutture architettoniche, le azioni rituali perdono ogni valore quando si viene a vivere il contenuto qualitativo del nuovo spazio.

La frase: «Io sono la porta» può venire interpretata: Io sono la soglia che separa la vecchia coscienza dalla nuova, il significato di tutte le iniziazioni che altro non sono se non riti, cerimonie, costruzioni, dita puntate verso la novità, segni di un significato da scoprire. Io invece sono il significante e il significato, la forma e il contenuto, la materia e lo spirito. Le antiche porte sono tarlate, «quelli che sono venuti prima di me ormai sono ladri e briganti, la loro voce non risveglia le coscienze mature per la novità». Cristo è la porta e l’ovile; l’iniziazione e la nuova vita che essa trasmette; è il pane che dona la vita, non il cesto che lo contiene; è il pane ed è la vita; è la via che conduce alla verità ed è insieme la verità consegnata agli iniziati; è la luce del Santo dei Santi, che ha dilacerato ogni velame. Luce offerta senza interruzione, Luce che accoglie chiunque ne senta il richiamo e deliberatamente lo segua.

Questo rapporto diretto tra la singola coscienza e il Pastore è necessario venga vissuto con intensa generosità da ogni credente, se vogliamo che tutta la Chiesa ritrovi la vita, la Chiesa interiore e quella esteriore, se vogliamo che le porte iniziatiche, le parole di passo, i riti che introducono nella novità perdano la loro pesantezza e siano trasfigurati nella luce del vero e unico iniziatore.

Il passaggio dalla porta che è l’«Io sono» di Cristo fa fiorire Cristo nell’anima e fa ascendere l’anima, la personalità di ognuno, nel suo Io vero, che è Cristo, «non io vivo, ma Cristo vive», Cristo che è il vero Io di ognuno di noi, è il vero Io di tutti gli Io. Con l’«Io sono la porta» le antiche porte cadono, la verità liberatrice dilegua le corposità dei moralismi dogmatici, la ricerca personale della luce mette in seconda linea ogni preoccupazione pastorale e sociale; l’offerta di se stessi a Cristo perché ci unisca a sé ci rende fermi, senza timore di orgoglio, in questo pellegrinaggio verso la nostra deificazione, che ci renderà certi della nostra nascita nella nuova coscienza di Cristo e nella quale sperimenteremo che Cristo è Dio per noi e noi per Dio.

Fino alla novità sbocciata con l’Incarnazione, morte e risurrezione della Parola eterna, i templi erano i depositari dei segreti e delle verità nascoste sotto i simboli, il velo copriva il Santo dei Santi, solo agli iniziati veniva, dopo opportuna ascesi, dischiuso. Con la venuta di Cristo la verità diventa il pane e il vino di tutta l’umanità, è data a tutti perché tutti ne traggano il necessario alimento alla loro ascesa personale. Il velo è squarciato. Dio entra nel cuore degli uomini, lo Spirito discende nella carne degli uomini. E ciascun uomo è capace di prender coscienza di essere stato pensato ed espresso da una parola irripetibile e singolare, parola pronunciata dal Verbo nell’eternità, parola che il Verbo incarnato ripete nel tempo entro il cuore di ogni pecorella: «Le pecore riconoscono la sua voce». Parola che rende la persona umana più grande delle stelle del cielo, più gloriosa di tutte le leggi unificatrici e ordinatrici del cosmo.

Prendere coscienza del nostro Io divino, dell’Io divino di ogni nostro fratello, significa varcare la porta iniziatica che è Cristo, essere assunti dalla sua grazia trasfiguratrice, rispondere personalmente al nome col quale da tutta l’eternità ci chiama, nascere la seconda volta. Il motivo della nostra tragedia, della nostra disarmonia, è il non volerci riconoscere in Lui, il seguire la voce della nostra personalità separata, invece di quella del Buon Pastore che passa per la «porta» che è Cristo.

(Giovanni Vannucci, «La porta e la voce», 4a domenica di Pasqua, Anno A; in Risveglio della coscienza,  Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 72-74).
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Mercoledì, 19 Aprile 2006 23:21

Il dono dello spirito (Giovanni Vannucci)

Il dono dello spirito
di Giovanni Vannucci



I discepoli erano chiusi nella loro casa per timore dei Giudei. Gesù venne in mezzo a loro e disse: «Pace a voi. Come il Padre inviò me, così io mando voi». Alitò su di loro, dicendo: «Prendete lo Spirito Santo, a chi toglierete le colpe saranno tolte; a chi non le toglierete saranno trattenute» (Gv 20,21-23).

Prima di passare a considerazioni di commento, fermiamoci su un aspetto importante di questo episodio che ne costituisce la chiave. Esso descrive il primo incontro del Risorto con i discepoli: questi avevano tutti, eccetto Giovanni, tradito e abbandonato il Maestro alla sua tragica sorte. Nell’incontro non una parola di rimprovero, di condanna del loro operato, ma solo l’offerta di un nuovo dono di vita: lo Spirito Santo, che li avrebbe resi portatori della misericordia divina a tutti gli uomini. Ed è bene sottolineare l’aspetto di questo dono: non è il potere di discriminazione tra i giusti e i non giusti che viene loro concesso, ma l’onere gioioso di trasmettere il perdono dello Spirito; esso attraverso di loro si diffonderà nel cuore degli uomini: i cuori disposti ad accoglierlo troveranno una più intensa vita, i cuori non disposti ne rimarranno esclusi. Chi l’accoglierà avrà la pace di Cristo, della nuova vita; chi lo rifiuterà vivrà fuori dall’onda di pace. Gesù conferisce ai discepoli lo Spirito Santo, la forza vitale della nuova creazione, e lo fa alitando sul loro viso, come fece l’Eterno quando rese anima vivente il primo uomo di creta.

Comunicando loro lo Spirito Santo, congiungendoli mediante lo Spirito Santo col Padre, li rende apostoli, inviati dallo Spirito che in loro è disceso. Portatori e irradiatori della nuova vita, come lo specchio che riflette la luce del sole e ne è insieme portatore e irradiatore, portatori di una vita che è in loro ma non è loro, la vivono e la manifestano, non la manipolano, ne sono il supporto, lo strumento, nient’altro, la loro fondamentale preoccupazione sarà di vivere la nuova vita, di illuminarsi della nuova vita. La luce e la vita si comunicheranno a chi è pronto ad accoglierle, lasceranno nella non vita e nella tenebra chi non vuole risvegliarsi.

In altre parole, gli inviati dello Spirito Santo non hanno ricevuto l’investitura di erigere dei tribunali, ma la responsabilità di illuminarsi della luce dello Spirito per irradiarla, come dono di pace, a tutte le creature. Essi sono mandati nel mondo non per giudicarlo, ma per comunicargli il nuovo soffio vitale della misericordia e della pace. Chi accoglierà lo Spirito sarà liberato dal peccato della separazione, della discordia, dell’opposizione; chi non l’accoglierà rimarrà nella sua condizione di creatura distaccata da Dio e dalla redenzione. È lo Spirito che toglie o trattiene i peccati, che lava o macchia ancora di più a seconda che uno l’accolga oppure no.

«Prendete lo Spirito Santo, a chi toglierete le colpe saranno tolte; a chi non le toglierete saranno trattenute»: sono parole che additano un mandato, un impegno affidato agli uomini nei quali lo Spirito nuovo di Cristo è presente. Spirito che, simile al respiro, domanda di venir accolto e vissuto, non teorizzato, ma respirato perché discenda e ravvivi totalmente chi l’accoglie. Dal modo di vivere il dono dello Spirito dipende la remissione o la non remissione dei peccati. Chi l’accetta con fede, chi immette nel dono dello Spirito la parte migliore di se stesso e, rinnegando tutte le separazioni egoistiche, assurge alla novità della vita insufflata da Cristo, diviene luminosa realtà spirituale, l’arioso tempio eretto nello Spirito. Per chi non ha questa fede, per chi questa fede non sente, per chi non è pronto a morire per questa fede, il dono dello Spirito non ha significato alcuno.

Noi che abbiamo vissuto il dramma della morte-risurrezione di Cristo e aneliamo a una realizzazione spirituale, dobbiamo, scendendo nel profondo del nostro essere, domandarci: crediamo nello Spirito? La risposta è impegnativa, perché credere nello Spirito vuol dire attuare la nuova vita del Risorto, respirare il suo respiro, rinnovarci nel suo alito creatore. Non si può vivere la vita di Cristo senza morire al vecchio uomo, all’uomo plasmato di inerte creta. Alla nuova vita si giunge attraverso la morte a tutte le vetustà, a tutte le opposizioni che sono in noi, per immetterci nella nuova realtà della vita portata da Cristo che ci forma e ci rende una sola cosa, attraverso l’ardore dello Spirito, con il Figlio e con il Padre. Allora l’uomo apprende ciò che è: nato di terra, terra; nato di spirito, spirito, e, puntando tutta la sua energia nella sua terribile natura, raggiunge la conoscenza della sostanziale realtà di essere spirito immortale, spirito eterno. Figlio del Padre, l’uomo di creta si trasforma in uomo dello Spirito.

Non giudicherà le opere degli uomini, ma tutti esorterà a raggiungere la nuova vita dello Spirito insufflata dal Risorto nei suoi discepoli. Come lo Spirito Santo irradierà pace, perdono, fiducia nella vita. Avrà in mano la chiave di tutte le chiavi, la conoscenza di tutte le conoscenze perché conoscerà nel proprio mistero il mistero che tortura l’anima del fratello che gli sta accanto; farà del tormento del proprio fratello il proprio tormento, farà della gioia altrui la propria felicità. Il peccato verrà annullato, la luminosa realtà dello Spirito irradierà le anime. Non vi sarà più né giudizio, né assoluzioni; né padrone, né servo; né medico, né ammalato; né oppresso, né oppressore; non vi sarà più il male, essendo uno solo il male: quello che soffre l’altro e che nessuno, per alcuna cosa al mondo, vorrà causare all’altro.

Lo Spirito Santo non avrà preso possesso di tutti finché ci sarà una coscienza da illuminare, una miseria da riscattare, un dolore da consolare, un peccato da comprendere. Fino a quando l’uomo non riconosca nell’uomo un fratello suo e, come tale, l’abbracci, lo difenda e lo onori; fino a quando l’uomo sarà separato dall’uomo dalla fazione, dalla parte, dal pregiudizio, dal preconcetto, dalla setta; fino a quando l’uomo non identificherà il suo dolore nel dolore che piange al suo fianco. Illuminare le coscienze, riscattare le miserie, comprendere il peccato, liberare l’uomo da tutte le divisioni e separazioni, significa ritrovare lo Spirito Santo oltre i rituali e le dotte interpretazioni e insufflarlo nella vita perché abbia finalmente la pace di Cristo.

Giovanni Vannucci, «Il dono dello Spirito», Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 66-68.

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Martedì, 28 Marzo 2006 02:04

L’illuminatore (Giovanni Vannucci)

L’illuminatore
di Giovanni Vannucci


L’illuminazione del cieco nato ci rivela il drammatico cammino che la Luce vera - Cristo luce che illumina ogni uomo (Gv 1, 9) - compie per aprire la vista interiore nella coscienza. La chiave per comprendere questo episodio, storico e metastorico insieme, è nell’identificare noi stessi col cieco nato, nel sentirci partecipi della vicenda esemplare della sua illuminazione, narrata dall’evangelista Giovanni (Gv 9, 1-41).

Consideriamo i punti salienti della narrazione. Gesù, dopo aver detto di se stesso: «Io sono la luce del mondo» (Gv 8, 12), incontra un cieco fin dalla nascita; ai discepoli che l’interrogano se quella sciagura fosse la conseguenza dei peccati del cieco o di quelli dei suoi genitori risponde: «No, quest’uomo è cieco perché sia illuminato, e la luce divina splendendo in lui riveli l’azione creatrice di Dio». Così, avvertiti i discepoli del significato di ciò che stava per compiere, della duplice luce fisica e spirituale che avrebbe dato al cieco, fa con la saliva e la polvere un po’ di fango e lo applica agli occhi del cieco; quindi lo invia a lavarsi in una vasca dal nome simbolico «l’Inviato da Dio». Il cieco va e, dopo essersi lavato gli occhi, comincia a vedere. Il miracolo è compiuto senza la minima partecipazione del soggetto, egli collabora con la semplice obbedienza.

La luce che si è accesa improvvisamente in quegli occhi si rivela luce che acceca gli altri, in particolare gli avversari di Cristo. I vicini di casa non sanno se egli sia o no lo stesso uomo che, seduto, domandava l’elemosina; egli afferma di esserlo: «Cosa è avvenuto che non ci vedevi e ora ci vedi?». Racconta il fatto nei suoi particolari; udito il nome di Gesù, i vicini lo conducono dai Farisei; il giorno in cui Gesù aveva ridato la vista a quegli occhi spenti era di Sabato, il racconto del cieco illuminato non può essere negato, i Farisei affermano che, essendo stato compiuto di Sabato, costituiva un’offesa dei comandamenti di Dio, chi l’aveva attuato non poteva che essere un riprovato da Dio. Il miracolato risponde: «Se egli sia reprobo o no, io non posso dirlo, una cosa è certa: prima ero cieco e ora vedo... Non si è mai sentito dire che alcuno abbia aperto gli occhi a un cieco; se non fosse amico di Dio, non avrebbe potuto far nulla». Risposero i Farisei: «Sei nato nei peccati e ci vuoi ammaestrare?». E lo cacciarono fuori. Essi, nella loro proterva chiusura, temono che la luce esteriore non si traduca in quella luce così temibile che è la luce di Dio accesa in lui, e lo cacciarono fuori dalla sinagoga, lo scomunicarono. Allora Gesù gli si rivolge: «Credi nel Figlio di Dio, nella luce di Dio in me incarnata?». Il miracolato, che aveva in sé sentita confusamente, nella luce fisica, quella spirituale, sperimenta ora l’apertura dell’occhio interiore, riconosce la presenza della luce divina in Gesù e gli s’inginocchia davanti.

Così si compie l’illuminazione del cieco: sperimenta che la luce fisica non è che simbolo e stimolo della luce spirituale. Gesù rivela il significato dell’illuminazione del cieco: la sua luce divina illumina chi a essa si offre in umiltà, acceca chi è chiuso nel proprio orgoglio di vedente. Acceca chi vede, chi non sa e crede di sapere; illumina chi è cieco, chi non sa e non riconosce la sua ignoranza; questa è la giustizia, il giudizio che compie la luce nell’uomo: «Son venuto nel mondo perché i vedenti non vedano, e i non vedenti vedano». I Farisei presenti a queste parole gli chiedono: «Forse anche noi siamo ciechi?». «Non lo sareste, risponde Gesù, se riusciste a vedere la vostra cecità. Non la vedete perché la scambiate per luce, per questo respingete la luce. La vostra cecità più si fa cieca, quanto più si crede luce».

Questo è il giudizio nel mondo della Luce divina: suscita e assume quella luce creata che a lei si arrende; rende più ottenebrata quella luce creata che stima se stessa assoluta e divina; respinge le tenebre nelle tenebre. Ognuno di noi nasce dalla luce, quando nasce sulla terra è l’estrema densificazione, nella carne, della luce iniziale, da sé nulla vede. La Luce divina ci è offerta e ognuno può scegliere: o accettarla fondendosi nel suo ritmo di ascesa; o rifiutarla ottenebrandosi in un proprio ritmo chiuso e incomunicabile. Nel primo caso si ha l’assunzione, nel secondo la distruzione dell’uomo.

Nell’alto, nel mondo di Dio, si ha la vibrazione massima della Luce divina, nel basso si ha la densificazione massima della stessa luce. La coscienza che diviene consapevole della densità della sua tenebra e comincia ad aspirare alla luce vera, inizia quel processo di ascesa che la farà incontrare con la sorgente della luce e della vita. Si libererà dall’esistenza, entrerà nel luminoso mondo dell’essenza, dell’Essere. Il punto della massima densificazione della luce ha una doppia possibilità, quella di accettare la densificazione come luce, quella di iniziare un movimento contrario di ascesa. Nell’ascesa sarà sorretto dalle forze fecondatrici della Parola eterna che discende e ascende, che aggrega la materia e la trasfigura nello spirito.

Queste affermazioni sottintendono l’inutilità di sapere solo intellettualmente che la Luce, la Parola creatrice sono in noi, e insieme la necessità di permettere alla Luce e alla Parola divine di compiere in noi la loro opera di vita e di trasfigurazione. I Farisei pensavano in termini di ideologia, di continuità di interpretazioni, di dogmi e di riti; il cieco illuminato, nel suo cedersi alla Luce vera, non poteva che essere oggetto di scandalo e di rifiuto. Per i primi la Rivelazione era una ripetizione di formule e di consuetudini, di credenze; per l’Illuminatore la Rivelazione è, ed è attiva e operosa in ogni istante, purché l’anima riconosca le sue tenebre, e sappia morire continuamente ad ogni idea, ad ogni definizione, ad ogni rapporto immaginario con un Dio di sua proiezione. La Luce non può illuminarci che nel silenzio di una mente profondamente seria.

in Giovanni Vannucci, «L’Illuminatore», 4° domenica di Quaresima, Anno A; in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 54-56.

Pubblicato in Maestri Contemporanei

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