Vita nello Spirito

Lunedì, 22 Luglio 2013 21:46

Umiltà e libertà (Paul Aymard o.s.b.)

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Per la maggior parte degli uomini, la libertà è «lo stato di colui che non subisce costrizione». Niente costrizione, libertà d'azione, fare quello che si vuole, non dipendere da nessuno! Ma basta un secondo per comprendere che una tale prospettiva non è che pura utopia. La vita, e in primo luogo la vita biologica, non è in effetti che una rete di dipendenze...

 

In riferimento alla Regola di S. Benedetto cap. 7

La Regola di S. Benedetto contiene un certo numero di pensieri celebri sull' obbedienza, sul silenzio, sull'umiltà, sul governo dell'Abate, sullo zelo nella vita fraterna, sulla necessità di osservare questa stessa Regola; e pure alla lettura di queste pagine, da un' analisi molto fine, si ha l'impressione che vi manchi qualcosa di essenziale; non si tratta mai di libertà. Ora la libertà non è in primo luogo un valore repubblicano, messo in auge nella rivoluzione francese, ma proprio un dato evangelico: « Voi siete stati chiamati alla libertà» scrive Paolo ai Galati (5,13). E ai discepoli di Corinto, egli assicura: «Là dove ce lo Spirito del Signore, là c'è libertà» (2 Cor 3,17). ( ... ) E davanti ai Galati egli ricorda «la libertà che noi abbiamo acquisito in Cristo» (2,4). L’apostolo Giacomo da parte sua menziona «la legge perfetta della libertà che è la nostra» (cfr. 1,25). ( ... ) Infine Gesù stesso ci garantisce che «la verità ci renderà liberi» (Gv 8,32). Ed egli darà la testimonianza assoluta della sua propria libertà dichiarando: «La mia vita, nessuno me la toglie, io la dò quando voglio e la riprendo quando voglio. Tale è il comandamento che ho ricevuto dal Padre mio» (cfr. Gv 10,18). Il volere di Dio su Gesù è che Egli si manifesti come un uomo libero.
Il monaco è lui stesso questo uomo libero?
Come la Regola ne parla, e dove? Bisogna rispondere che essa ne parla effettivamente e, per quanto sia paradossale, essa lo fa al capitolo sull'umiltà.
È per questo che si potrebbe intitolare questo famoso capitolo 7: «Della libertà del monaco». Ma prima di proseguire, bisogna naturalmente mettersi d'accordo sul significato della parola «libertà». Forse, anche, chiedersi quello che può essere il suo contrario!
Per la maggior parte degli uomini, la libertà è «lo stato di colui che non subisce costrizione». Niente costrizione, libertà d'azione, fare quello che si vuole, non dipendere da nessuno! Ma basta un secondo per comprendere che una tale prospettiva non è che pura utopia. La vita, e in primo luogo la vita biologica, non è in effetti che una rete di dipendenze. Un polmone respira liberamente se esso acconsente all'aria, e non la rifiuta. E il migliore mezzo di dominare un'arte o una tecnica è prima di tutto di sottomettersi alle regole che la comandano.

Dopo questo preambolo, noi siamo pronti per entrare nel capitolo sull'umiltà e scoprire ciò che può essere la libertà per il monaco.
L’umiltà è comunione, l'umiltà è realismo; essa è la posizione dell'uomo che ha i piedi sulla terra, ben posto nell' humus; e anche la libertà deve esserlo. Si sa la parabola di Gesù a colui che prende il primo posto e deve retrocedere: «Colui che si esalta sarà umiliato; colui che si umilia sarà esaltato» (Lc 14, 11). L’uomo aveva preso volontariamente il primo posto, ma egli aveva dimenticato che egli non è solo al mondo, e ne paga le conseguenze.
Il capitolo 7 della Regola di S. Benedetto ha un'immagine molto felice per dire qual'è lo stato dell'uomo che non è umile: egli è come un bambino svezzato dal seno di sua madre. Il bambino poppava, egli beveva a sazietà; egli non vedeva là che il suo diritto, tutto gli apparteneva. Eppure un giorno sua madre lo svezza, e d'un colpo tutto gli manca. La differenza è che la madre svezza il suo bambino quando ella lo vuole, mentre colui che si atteggia a solitario, senza tener conto degli altri, si stacca lui stesso, si taglia dagli altri; egli non ha più che da pagarne le conseguenze. La Regola non si oppone a questo, che il monaco cerchi la sua esaltazione, desideri ciò che è grande e finalmente cerchi di affermarsi; ma egli non deve mai farlo da se stesso. Il monaco non ha da «farsi avanti», come si dice con buona grazia; un altro se ne incarica, ed è Dio. È Dio che esalta il monaco quando Egli lo vuole, come Egli lo vuole. E Benedetto si augura ardentemente che ogni fratello vi arrivi. Egli scrive: «Bisogna arrivare prontamente a questa esaltazione celeste; bisogna innalzare, per salirla con le nostre azioni, questa scala che apparve in sogno a Giacobbe e sulla quale egli vedeva degli angeli scendere e salire».
Reclamando dal monaco l'umiltà, Benedetto non pensa minimamente a distruggerlo, ad abbassarlo; ma al contrario, egli desidera condurlo a questa suprema esaltazione. Ma la grandezza di questa è tale che essa non può provenire, ripetiamolo, che dall' azione dello Spirito Santo e mai dalla nostra. Quindi, la sola cosa che importa è di lasciarsi condurre da Lui; ed è per questo che Benedetto insegna l'umiltà. Tutta la nostra libertà sarà di acconsentirvi, di accettare questo annientamento di se stessi, affinché la nostra esaltazione venga unicamente da Dio e che Lui solo sia glorificato. Questa è la chiave che ci permette di comprendere i dodici gradi di umiltà che ci propone la Regola.
Ognuno lo sa, è la più elementare regola di buona educazione ascoltare una persona che vi parla, più ancora quando si tratta di un amico; che dire allora di Dio? Niente di sorprendente quindi la Regola in primo luogo prescrive:

«Il primo grado di umiltà è di mettersi davanti agli occhi il timore di Dio e di ricordarsi sempre quello che Egli ci prescrive».

Chi, infatti, disprezza questa parola sarà degno della geenna, questo luogo del puro silenzio di Dio; mentre colui che ascolta entra già nella vita eterna. Poiché la vita eterna, «è che egli conosca Te Padre, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3).
Il testo prosegue: «Guardandosi in qualsiasi momento dai peccati e dai vizi, l'uomo penserà che, dall'alto del cielo, Dio l'osserva continuamente». La prova ne è la parola del profeta che ci dice: «Dio scruta i cuori e le reni» (cfr. Sal 7,10). E ancora: «Il Signore conosce i pensieri dell'uomo» (Sal 9 3, 11). E anche: «Tu hai compreso da lontano i miei pensieri» (cfr. Sal 138,3). L’immagine sembra un po' superficiale e dunque insufficiente; Dio non può essere un uomo che, dall'alto, sorveglia ciò che si svolge nella valle. Tutto avviene per Lui, non davanti, ma in Lui, secondo la parola di Paolo: «In Lui, noi abbiamo la vita, il movimento e l'essere» (At 17,28). Mai noi saremo Dio, naturalmente, pure mai noi saremo fuori di Lui; noi siamo in Lui. In Lui, non «altrove», poiché per Dio, non potrebbe esserci un «altrove»! Quindi, è nella sua libertà che noi poniamo i nostri propri liberi atti, tutto come è nel suo essere che noi possiamo esistere, e nel suo amore che noi possiamo amare.
Dunque non c'è identità; e pure non c'è nemmeno distanza. Prendere coscienza è ciò che fonda precisamente l'umiltà del monaco e giustifica il capitolo 7 della Regola. Il guaio, poiché ce n'è uno, è che il più delle volte noi non abbiamo questa coscienza e noi viviamo nell'illusione della nostra propria indipendenza. Dio in effetti ci lascia talmente liberi che Egli non dice niente; ma prosegue Benedetto, un giorno verrà in cui Egli noterà «Ecco ciò che tu hai fatto, e io ho taciuto» (cfr. Sal 49, 21). Ed è per questo che il nostro legislatore aggiunge ancora: «Occorre, Fratelli miei, vigilare in ogni momento, per paura che Dio non ci veda diventare buoni a niente». (cfr. Sal 13,3)
Il secondo grado di umiltà si collega al primo esigendo dal monaco che egli non agisca secondo la propria volontà e che egli non ceda ai suoi desideri, secondo la parola di Gesù: «Io non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato» (Gv 6,38). Il Figlio che vive con il Padre, per il Padre, nel Padre, non può far niente contro la sua volontà. Egli non può avere volontà che per acconsentire a ciò che vuole il Padre. Naturalmente questo non gli impedisce di avere una volontà personale, ma questa volontà è di aderire coscientemente, liberamente, profondamente, a quella del Padre. Tutto questo semplicemente perché Egli lo ama; e se Egli lo ama, sa che Lui stesso è amato, ricevendo tutto dal Padre!
Che cosa significa essere libero allora, se non acconsentire a tutto ciò che noi siamo, nel senso profondo del nostro essere, evitando il più possibile di credersi autonomo. «Che cosa hai tu che tu non abbia ricevuto? », dice san Paolo.
Non si è se stessi che per mezzo di un altro; rifiutarlo è dunque distruggersi. Quindi noi non possiamo che dire al seguito di Gesù: «Io non sono venuto a fare la mia volontà, ma la tua» (cfr. Gv 6,38), coscienti che questo volere è quello del nostro stato profondo, quello di figlio di Dio per adozione.
Il terzo grado di umiltà deve essere a sua volta un nuovo grado di libertà. Esso si manifesta, ci dice S. Benedetto, «quando ci si sottomette in tutta obbedienza al superiore per amore di Dio, imitando Cristo di cui l'Apostolo ci dice: "Egli si è fatto obbediente fino alla morte" (Fil 2,8)». L’idea di dovere sottomettersi, per essere meglio in se stesso, appare dapprima come una contraddizione.
Proprio dell'adulto nella sua libertà è infatti di poter decidere da se stesso, di condurre la sua vita da se stesso. Ma la Regola non si ottiene al livello delle sole norme umane; essa dice infatti di sottomettersi a un superiore, non per stare in uno stato di soggezione, ma «per amore di Dio». Così il monaco non obbedisce al suo abate per fargli piacere, ancora meno per farsi benvolere da lui, ma perché in lui egli scopre la voce e il volto stesso del Padre del Cielo. Il superiore non è più allora che il mezzo, il segno, la mediazione necessaria per pervenirvi.
L’atto di libertà sarà di sbarazzarsi dell'idea che questo «altro» non è che un uomo che, dopotutto, noi valorizziamo bene, ma di riconoscervi il dito di Dio. Così il più grande atto di umiltà sarà vissuto, non da colui che si sottomette, ma da colui che comanda, poiché egli sa che egli è divenuto per i suoi Fratelli il segno stesso di Dio, compito che non è mai facile da assumere.
Il quarto grado è altrettanto una pratica di libertà. Esso ci mette sotto gli occhi un Fratello che incontra nell' obbedienza, cioè nei casi e nei rischi della vita, delle circostanze dure e ripugnanti, addirittura delle ingiustizie offensive, e questo Fratello, dice il testo «accetta con pazienza e spirito sereno e persevera senza stancarsi né tirarsi indietro, poiché, la Scrittura ce l'assicura, "colui che persevererà fino alla fine sarà salvato" (Mt 10,22; 24,13)».
Qui è facile vedere qual è l'uomo più libero: quello che inciampa negli ostacoli, che cade, capitola e ritorna sui suoi passi, (io non ce la faccio più, dunque io me ne vado)? oppure colui che, senza turbarsi, malgrado la burrasca, prosegue il suo cammino con perseveranza, non stringendo i denti, ma dice la Regola «con lo spirito pacifico, conservando la pazienza»? È chiaro che questo uomo mostra una forza d'animo straordinaria e che la sua libertà è immensa, poiché niente può farlo capitolare. In un gioco, al mare, in montagna, molto semplicemente nel lavoro, non si tratta di fuggire l'ostacolo, ma di affrontarlo e di dominarlo. E giustamente, per provare la gioia di vincere!
E così in alta montagna, dopo aver scalato una cima dal suo lato più difficile in estate, l'uomo audace ricomincerà in inverno per aumentare la difficoltà e dunque anche la sua gioia di vincere. Si chiama questa una «ascensione invernale»...
Ma la Regola non ci conduce a delle prodezze sportive per amore della gloria, ma a vivere il Vangelo. Effettivamente, questo non ci chiede altro che di lasciare la tunica, se vi si prende il mantello, e di tendere la guancia sinistra se vi si percuote la destra. Tale è dunque l'attitudine della vera libertà interiore, possibile anche in prigione.
Qui non si può che pensare a un Massimiliano Kolbe; la sua libertà estrema gli fa prendere il posto di un uomo condannato a morire di fame e di sete.
Il quinto grado di umiltà è di non avere niente da nascondere, in primo luogo al proprio abate, ma anche a ogni Fratello. Naturalmente, non si tratta di fare dell'esibizionismo, che è una malattia affettiva, ma di vivere nella verità di sé e del Vangelo. Perché non riconoscere che si può avere torto, poiché inevitabilmente, come tutti, si hanno i propri limiti e le proprie debolezze? Ma prima di essere il segno di una vera libertà interiore, il passo che consiste nell'«aprire il proprio cuore» a un Fratello capace di comprenderlo è un elemento di sicurezza. Questa sicurezza ha il suo ruolo innanzi tutto in rapporto a se stessi, con questo sforzo di mettere in luce un mondo interiore sempre abbastanza vago, dove le immagini, le impressioni, gli impulsi, appaiono il più delle volte deformati, e dunque irreali, divenendo sorgente di scrupoli e di falsa colpevolezza. Ci sarà poi una sicurezza in rapporto alle nostre relazioni con gli altri; poiché se queste sono chiare, non ci sarà nessun problema per parlarne, se esse, non lo sono,forse allora vale la pena di chiarirle. Ci sarà infine sicurezza in rapporto allo Spirito Santo che non dona la sua luce che a colui che la desidera e fa di tutto per pervenirvi.
Certo, non è sempre facile vedere chiaro in sé, né facile trovare le parole giuste per dirlo; infine, ci si può imbattere in un "padre spirituale" che vi rassicura per il momento, ciò che non sistema mai le cose. Se ci si sforza di parlare di se stessi, ciò avviene naturalmente con il desiderio di essere compresi, ma senza dubbio non di essere rassicurati troppo in fretta.
A questo livello bisogna andare più lontano del significato letterale della Regola che cita le parole di un salmo: «lo ho detto: confesserò la mia cattiva condotta al Signore e tu, tu hai perdonato l'empietà del mio cuore» (Sal 31,5). Non si tratta solamente infatti di ricevere un perdono per un atto riprovevole, ma di pervenire alla più grande luce possibile, cioè di lasciare tutto il posto allo Spirito Santo.
Il sesto grado contiene pure esso una pratica di libertà: «Se il monaco, dice il testo, è contento di qualunque situazione, anche la più umile, e se egli si giudica un cattivo operaio». Se ci si fermasse là, questo invito sarebbe falso e distruttore per colui che si sottomettesse. Gesù nel Vangelo, non dice: "Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo; che le vostre opere buone risplendano davanti agli uomini? Ma se questo grado di umiltà resta vero e se esso contiene una pratica di libertà, ciò è a causa della finale: «lo non sono niente, non so niente, io sono come una bestia da soma davanti a te, ma io sono sempre con te» (Cfr. Sal 72, 22-23). Oppure, altra traduzione: «Tu, Tu sei sempre con me».
È chiaro infatti che se noi viviamo nella coscienza della presenza di Dio, della sua luce, della sua tenerezza e della sua pace, lungi dal1'essere distrutti dal niente che noi siamo e che noi possiamo manifestare al di fuori, lungi dal sentirci poveri e infelici, noi ci sentiremo al contrario ricchi, infinitamente ricchi e in pace. E lo Spirito Santo, come dice la Regola altrove, si incaricherà di manifestarlo.
Per il settimo grado che segue, è da fare un'osservazione simile, non vuole condurre il monaco a una distruzione di se stesso («Io sono un verme, non un uomo»), ma a una migliore conoscenza della Parola di Dio. Se esso può contenere una pratica di abbassamento, è ciò, il testo sottolinea, per meglio sapere qual è la verità della Legge e la luce che essa racchiude. Ora questa legge non è più un testo scritto. La nuova Legge, dice Tommaso d'Aquino, è lo Spirito Santo stesso. Il senso di questa pratica di umiltà sarà quindi di arrivare a conoscere meglio la potenza dello Spirito Santo che sa manifestarsi nelle situazioni più estreme. Che cosa è la croce di Cristo, se non questa manifestazione-limite, se lo si può dire, di questa potenza dello Spirito? Almeno, è ben così che lo intendono Luca e il quarto Vangelo: «Padre mio, nelle tue mani raccomando il mio Spirito» (Lc 23,46). E, nell'altro Vangelo: «Chinando il capo, Gesù rese lo Spirito» (Gv 19,30), il suo Spirito, lo Spirito Santo, dono che Egli fa liberamente; Gesù lo sottolinea espressamente in san Giovanni.
L'ottavo grado di umiltà si manifesta, dice S. Benedetto, quando un Fratello non fa niente altro che ciò che è prescritto dalla Regola del Monastero dagli esempi degli anziani. La vocazione del monaco non sarebbe essa allora che una funzione ripetitiva? Fare come tutti, e soprattutto non distinguersi dagli altri! Ma forse bisogna leggere questo testo alla luce del capitolo 12 della 1 lettera ai Corinti: «Non c'è che uno Spirito, ma c'è diversità di doni; non c'è che un Signore, ma ce diversità di ministeri; non c'è che un solo Dio che opera tutto in tutti, pure ce diversità di operazioni». E l'apostolo prosegue: «Ciascuno riceve da Dio un dono particolare per manifestare lo Spirito in vista del bene di tutti». È così che i Fratelli di un monastero vivono tutti sotto una stessa Regola, essi hanno tutti sotto gli occhi gli esempi degli anziani; ma ciascuno dovrà vivere secondo i doni particolari che gli sono concessi dallo Spirito Santo. Il ruolo dell' abate sarà precisamente di riconoscere questi doni in quelli che egli deve guidare, e di valorizzarli, per il bene dei Fratelli e al tempo stesso per quello della comunità, poiché nessuno ne è proprietario. E la libertà di cuore di ciascuno sarà precisamente di lasciare l'abate deciderne, non di farlo egli stesso. Allora tanto peggio per i doni musicali, artistici o sportivi che si potrebbero possedere! Nessuno entra in Monastero in primo luogo per valorizzarli. Ma questo non impedisce ad un Fratello di proporre all'abate ciò che egli crede buono da parte sua, sia per la comunità, sia per lui stesso. E il migliore degli abati sarà evidentemente colui che dirà: «Vieni, che se ne parla!», non quello che agirà da se stesso senza riguardi.
I tre gradi seguenti, 9, 10, 11, si raggruppano per rappresentarci qual è la libertà di un Fratello di fronte all'uso della parola e del riso, l'uso anche del silenzio e quello della comunicazione che può farsi sotto molte forme. Parlare per non dire niente, ridere per dei non nulla, credersi obbligato d'intervenire per un sì o un no, non è evidentemente il segno di un grande dominio di sé, né di una vera libertà. Invece, ci dice la Regola, «il saggio si riconosce dalle sue poche parole». Ora per sapere tacere e non parlare che con discernimento, la cosa migliore è ancora di sapere ascoltare. «Ascolta, figlio mio», era la prima parola, la parola più preziosa, di questa stessa Regola. Ascoltare dunque, ma forse anche guardare. Quanti uomini parlano senza guardare, segno che essi non parlano quasi che a se stessi e dunque non comunicano con nessuno.
Rimane ora l'ultimo grado di umiltà. Come vedervi una pratica di libertà? «In giardino, nei campi, il monaco terrà il capo chino, gli occhi fissi a terra, come uomo che in qualsiasi momento si sente colpevole dei suoi peccati; ripetendosi continuamente la parola del pubblicano del Vangelo: “io non son degno, come peccatore, di alzare gli occhi al cielo" (cfr. Lc 18,13)». Queste parole sono ben scritte nella Regola, prese dal resto, si sa, dal Vangelo. Allora, che dire? Ma forse bisogna guardare il comportamento di S. Benedetto, tale quale lo presenta papa Gregorio. Lo si vede in qualsiasi momento con gli occhi abbassati verso terra e rimuginando i suoi peccati? Non proprio! Benedetto alza molto bene gli occhi al cielo. Così fa egli quando prega di notte davanti alla sua finestra con una visione del mondo raccolto in un solo raggio di luce. Così fa egli più ancora al momento della sua morte, quando «appoggiando le sue membra indebolite sulle braccia dei suoi discepoli, egli si tiene in piedi, con le mani alzate al cielo, mormorando un'ultima preghiera» (Dial. cap. 37). E la Regola stessa ci invita all'azione di grazie: «Sette volte al giorno, io ripeto la tua lode»; (Sal 118,164) e ancora: «Io canterò a te alla presenza degli angeli».
La finale di questo stesso capitolo 7 evoca d'altro canto il fratello che, liberato dal timore, vive nella gioia dello Spirito Santo. Ora i frutti dello Spirito, se si crede a Paolo nella lettera ai Galati, sono amore, gioia, pace, dolcezza, ecc. Quindi, che dire? Che la libertà nello Spirito deve condurre a due atteggiamenti. Da una parte, quello dell'umiltà, della contrizione, del pentimento, quello di comprendere che, abbandonato alle sue sole forze, ciascuno di noi non può che allontanarsi da Dio e rendersi incapace di vivere nella comunione fraterna. Dall'altra parte, quella dell'azione di grazie e della gioia, scoprendo il dono di Dio che abita in noi e ci libera da noi stessi, precisamente per aprirci alla vera libertà di figli di Dio. Ed è precisamente alla fine di questo capitolo settimo sull'umiltà che Benedetto riconosce che «il Signore si degna di manifestarsi per mezzo dello Spirito Santo al suo operaio purificato dai suoi vizi e dai suoi pensieri»

Paul Aymard o.s.b.

 

Letto 5654 volte Ultima modifica il Martedì, 12 Novembre 2013 09:56
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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