Vita nello Spirito

Venerdì, 26 Novembre 2010 20:47

La spiritualità paolina nella Regola di San Benedetto (Sr. Maria Cecilia La Mela OSBap)

Vota questo articolo
(3 Voti)

Vivere quest'anno all'insegna del messaggio paolino è, per noi monaci e monache, occasione preziosa per riaccostarci al testo della nostra Regola, interrogando san Benedetto circa la sua sintonia con il grande san Paolo che è, per lui, l'Apostolo per antonomasia.

Vivere quest'anno all'insegna del messaggio paolina è, per noi monaci e monache, occasione preziosa per riaccostarci al testo della nostra Regola, interrogando san Benedetto circa la sua sintonia con il grande san Paolo che è, per lui, l'Apostolo per antonomasia. Se è vero che tutta la Regola è impregnata di Sacra Scrittura, non può non balzare subito agli occhi la massiccia presenza di citazioni, implicite ed esplicite, tratte dalle lettere di Paolo di Tarso. San Benedetto chiama spesso in causa l'Apostolo delle genti lasciando spazio alla sua autorevolezza per avvalorare quei concetti che vorrebbe imprimere con forza nei suoi monaci; non è un caso che i riferimenti paolini sono più abbondanti proprio nel Prologo e in quei capitoli che più sembrano stare a cuore al nostro Legislatore. Molte delle citazioni tratte dalle lettere di san Paolo rimandano, a loro volta, ad altre citazioni dell'Antico e del Nuovo Testamento, specie dei salmi e del Vangelo, ma circoscriviamo la nostra lectio divina limitandoci ai rapporti strettamente paolino-benedettini.

Diverse tematiche ricorrenti negli scritti paolini fanno da sottofondo a tutta la Regola, quasi attraversandola e strutturandola in un tutto organico e ben definito. Uno dei temi più sviluppati è quello della corsa e sul quale sono stati fatti autorevoli studi. Un altro è quello del combattimento, della milizia, dell'esercizio ginnico, della gara per cui il monaco, come il cristiano, si configura come lottatore, come soldato, come atleta, come agonista. Entrambi questi aspetti interpretativi dell'impegno del cristiano nel mondo e nella Chiesa sono pervasi da quella tensione escatologica che è tipica di san Paolo e di san Benedetto e che pone il cristiano, il monaco, il consacrato, quale segno vivente del destino ultimo per cui siamo stati creati. C'è poi tutta la cura pastorale che san Benedetto mutua dalle due lettere a Timoteo e da quella a Tito, attribuendo all'abate le prerogative e le responsabilità che san Paolo richiede al vescovo. E l'elenco potrebbe continuare ancora.

Tra i tanti sviluppi che si potrebbero approfondire in questo anno paolino, ad esempio quello dell'umiltà come "annientamento" (Fil 2,8), dell'obbedienza pronta e generosa "perché Dio ama chi dona con gioia" (2 Cor 9,7), del lavoro come processo di umanizzazione (1 Cor 4,12) e tanti altri; mi soffermo sul tema della carità lasciandomi orientare dall'invito di san Paolo rivolto a tutti noi: "Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole" (Rm 13,8). Per questo parto da quel meraviglioso capitoletto che è la sintesi e il cuore della Regola benedettina, il 72°, dello zelo buono che devono avere i monaci. Leggiamolo insieme: «Come vi è un maligno zelo di amarezza che allontana da Dio e conduce all'inferno, così vi è uno zelo buono, che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna». E, di seguito, san Benedetto, con chiari riferimenti all'insegnamento del Vangelo e alla teologia di San Paolo, esplicita i sentimenti e le azioni che devono animare il monaco in questa ascesa della carità. È necessario prima di tutto esercitarsi con "ardentissimo amore". Attenzione ai superlativi: san Benedetto non è cristiano di mezze misure! Un amore, dunque, non fiacco, non tiepido, non part time, ma un amore ardente, che brucia, che non dà tregua, che ci sollecita, ci vuole tutti coinvolti in questa difficile, ma meravigliosa avventura della nostra vita cristiana e della nostra vocazione benedettina. E chi più "focoso" del belligerante Paolo di Tarso? Dalla sua magnifica penna è uscito quell'inno alla carità che ha sottolineato con forza la grandezza del cristianesimo! Tra l'altro, va detto che le lettere paoline più gettonate sono le due ai Corinzi e nella prima (1 Cor 13,1-13) vi è propriamente l'inno alla carità. Ed un inno alla carità può essere considerato, appunto, il capitoletto dello zelo buono.

Alcuni verbi vorrei trarre da questo crescendo "benedettino" dell'amore e consegnarli a me stessa, e a chi legge, come particolare impegno per questo anno di comunione e condivisione che il Signore ci dona di vivere all'insegna del fare memoria dell'Apostolo Paolo e della sua eredità spirituale: prevenire, sopportare, prestare, cercare, volere bene, temere, non anteporre.

"Si prevengano cioè l'un l'altro nel rendersi onore", ovvero la stima sia alla base dei nostri rapporti fraterni che si concretizzano anche in quelle basilari norme di buona educazione che sottolineano la preziosità dell'altro, il rispetto per la dignità umana: un onore, un rispetto, un'attenzione che sia reciproca, condivisa, che unisca sempre più i cuori e le menti. Così scrive san Paolo ai Romani (12,10): «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda». La carità è ardentissima, non ammette cioè tiepidezze... spinge a correre, a gareggiare pur di arrivare primi, ma mai da soli ... i primi, non il primo, cioè non io ma noi...

Con l'invito «sopportino con somma pazienza a vicenda le loro infermità fisiche e morali», che fa eco a quello paolino «sopportandovi a vicenda con amore» (Ef 4,2), il nostro Santo Padre Benedetto ci esorta a non scandalizzarci della fragilità degli altri, a non giudicarla, a non condannarla, ma a farci carico della debolezza altrui, ricordando che è una eredità comune, che nessuno è esente dal poter sbagliare, ... coprire amorevolmente, scusare la fragilità degli altri, valorizzare le loro qualità, le potenzialità umane, così come vorremmo sia fatto a noi. Anzi, secondo l'esortazione del capitolo 7° Dell'umiltà, bisogna salire il settimo gradino che «è quello del monaco che non solo con la lingua si professa più indegno e spregevole di tutti, ma ne è convinto anche nell'intimo del cuore»; infatti così ci esorta Paolo: «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso» (Fil 2,3). E ancora san Benedetto nel cap. 63 Dell'ordine della comunità: «Dovunque i fratelli s'incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano; quando passa un anziano, il più giovane si alzi e gli offra da sedere; né ardisca sedersi con lui se l'anziano non glielo permetta perchè si avveri ciò che è scritto: "Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore" (Rm 12,10». Non cerchiamo di imporre sempre il nostro parere ma ascoltiamo tutti, sempre pronti a far felici i fratelli accontentandoli se, quello che ci chiedono, è un bene per loro e per noi. Sempre, comunque, non lasciamo mai nessuno nell'amarezza per causa nostra. E quest'urgenza inderogabile di non rattristare nessuno non è proprio una delicatezza meravigliosa di carità? (Cfr RB capp. 27 e 31). Infatti, l'indicazione di san Paolo, fatta propria da san Benedetto, pone come orientamento pedagogico (la sollecitudine dell'abate verso gli scomunicati) e relazionale (il lavoro del cellerario e, in un certo senso, la cura dei propri uffici da parte di tutti i monaci) quello di «far prevalere la carità» (2 Cor 2,8).

Ma torniamo al nostro zelo buono: «Si prestino a gara obbedienza reciproca»: dialoghiamo con serenità confrontandoci per crescere, gareggiamo per fare del monastero veramente la casa di Dio e «nessuno cerchi l'utilità propria, ma piuttosto l'altrui»; ecco le citazioni paoline implicite nel testo della Regola: «Nessuno cerchi l'utile proprio, ma quello altrui» (1 Cor 10,24) «Senza cercare il proprio interesse ma anche quello degli altri» (Fil 2,4).

«Si voglia bene a tutti i fratelli con casta dilezione», ossia il nostro voler bene agli altri sia limpido, rifletta la carità evangelica, sia capace di cedere pur di costruire sempre il dialogo, la condivisione, la pace. E cerchiamo di volere bene a tutti, senza distinzioni. Così San Paolo ai Tessalonicesi (4,9): «Riguardo all'amore fraterno, non avete bisogno che ve ne scriva; voi stessi infatti avete imparato da Dio ad amarvi gli uni gli altri». E di rimando San Benedetto: «Temano Dio nell'amore}», un timore che non è paura, ma riverente confidenza, un timore che ci aiuta a vivere costantemente alla presenza di Dio mediata dall'abate: «Amino il loro abate con sincera ed umile carità». E, infine, «nulla assolutamente antepongano a Cristo, il quale ci conduca tutti alla vita eterna». Tutti insieme: è il "pallino" di San Benedetto, il suo chiodo fisso ... è l'ansia, l'urgenza di Cristo che, come nella sua ultima cena terrena, continua a raccomandare l'amore vicendevole, l'inderogabile e suprema priorità dell'amore. Non per nulla la vita e l'opera di San Paolo, così come di San Benedetto, sono eminentemente cristologici.

Velocemente mi soffermo su alcuni inviti alla carità con i quali San Benedetto costella diversi capitoli della Regola in sinossi con le relative citazioni paoline. Per prima cosa l'elenco degli strumenti delle buone opere (cap. 4°) che esordisce proprio con i due precetti evangelici della carità: «Anzitutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze; quindi il prossimo come se stesso». I 74 strumenti delle buone opere sono quasi tutti avvalorati da citazioni bibliche, tuttavia, quelli inerenti all'amore verso il prossimo sono per lo più presi da San Paolo che così scrive ai Romani (13,9): «Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso». E con voce unanime, Paolo e Benedetto, ci invitano a consolare gli afflitti così come siamo consolati noi stessi da Dio (2 Cor 1,3-4), a non lasciarci trascinare dall'ira e ritornare in pace prima del tramonto (Ef 4,26), a non rendere male per male ma cercare sempre il bene con tutti (l Tess 5,15), a subire l'ingiustizia piuttosto che infliggerla agli altri (l Cor 6,7-8) ... perché, come è detto nel 4° gradino dell'umiltà, «per dimostrare che il servo fedele deve per il Signore tollerare anche qualche contrarietà, dice ancora la Scrittura nella persona di quelli che soffrono: "Per te siamo ridotti ogni giorno alla morte, siamo considerati come pecore da macello"(Rm 8,36) e sicuri per la speranza della ricompensa di Dio, proseguono con gioia e dicono: "Ma in tutto ciò noi vinciamo per Colui che ci ha amati"» (8,37) « [ ... ] e con l'Apostolo Paolo tollerano i falsi fratelli (2 Cor 11,26) e benedicono chi li maledice (1 Cor 4,12».

Questo amore lo troviamo "incarnato" nell'Eucaristia: alimentati dal "pane dei forti", avremo energie e coraggio per esercitarci in questo zelo buono, ossia la carità; questo amore lo dobbiamo incarnare nei fratelli «poiché dunque ne abbiamo l'occasione, operiamo il bene verso tutti, soprattutto verso i fratelli nella fede» (Gal 6, 10), cioè «a tutti si renda il conveniente onore» (RB 53) certi che tutto passa, tutto delude, solo Dio e il bene che ci vogliamo rimangono in eterno. E dopo due mila anni dalla sua opera di evangelizzazione ce lo continua a dire "ardentissimamente" San Paolo e, perché non lo dimentichiamo, c'è San Benedetto a ricordarcelo continuamente nella nostra Regola.

Sr. Maria Cecilia La Mela OSBap

(da Il Sacro Speco di San Benedetto, n. 2, 2009)

 


Le condizioni che san Benedetto esige perché un monaco possa essere suo discepolo, il fine al quale il monaco deve aspirare, le linee maestre del metodo pedagogico che caratterizza la scuola benedettina, sono fatti non soggetti ai mutamenti dei tempi e, per ciò stesso, validi attuali anche a distanza di quattordici secoli. Per riuscire nel suo proposito, san Benedetto organizzò il monastero nella maniera che credette più adatta per gli uomini del suo tempo. Se ancora oggi i monasteri sparsi nei cinque continenti devono essere scuola di formazione, perché i monaci possano raggiungere quel fine, è del tutto comprensibile che si vedano obbligati ad adattare il metodo pedagogico della Regola e l'organizzazione del monastero alle esigenze di tempi, luoghi e culture tanto diverse da quelli nei quali visse san Benedetto; a condizione, naturalmente, che le nuove forme non distruggano, ma anzi favoriscano la coerenza interna della Regola (Gabiele M. Brasò, Lettere ai monaci, Praglia 1980).

Letto 6288 volte Ultima modifica il Domenica, 12 Maggio 2019 16:46
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search