Alcuni appunti
sulla visione di Dio nel Salterio
di Sr. Germana Strola o.c.s.o.
L’incipit della RB («Obsculta, o fili») caratterizza fin dalle prime parole la vita monastica benedettina secondo l’angolatura dell’ascolto obbedienziale. Questa dimensione costitutiva della spiritualità biblica traspare da tutte le sue pagine, in quanto essenziale e determinante nella relazione con Dio, secondo il Padre del Monachesimo occidentale così come per i suoi predecessori orientali. È interessante tuttavia mettere a fuoco, per quanto è possibile in queste brevi considerazioni, un’altra prospettiva, frequentemente trascurata nella lettura sia del testo sacro sia in quella della Regola: la Scrittura, e in particolare il Libro dei Salmi, attesta allo stesso tempo una spiritualità della visione di Dio 1 e soprattutto una correlazione tra il desiderio del suo Volto e l’esperienza della sua presenza nella realtà sacramentale del Tempio e in particolare nella Liturgia.
Le modalità espressive che nel salterio evocano la preghiera - rendendo così vicina ad ogni uomo e ad ogni generazione l’esperienza dell’orante biblico - assumono da un lato tutte le forme antropologiche e universali che in ogni tempo e in ogni cultura descrivono la dimensione religiosa, ma dall’altro riflettono inevitabilmente le formule linguistiche che nell’ambiente dell’antico vicino Oriente danno voce alla relazione con Dio.
Il pellegrinaggio al Tempio o la visita al Santuario venivano indicati comunemente, nelle lingue sia dell’Antica Mezzaluna fertile come in terra di Canaan, ma anche in Egitto, mediante l’espressione «vedere il volto dì Dio». Si intendeva alludere in tal modo non a una esperienza religiosa particolarmente intensa o una percezione mistica del divino ispirata dalla bellezza e dalla sacralità degli edifici sacri, ma, semplicemente e concretamente, la venerazione dell’effigie delle rispettive divinità rappresentate nelle immagini sacre. La stessa locuzione, quasi stereotipa, è attestata anche nella Bibbia, con il medesimo significato liturgico-cultuale, anche se dal Decalogo non è permessa rappresentazione alcuna dell’unico Dio: l’andare a «vedere il Volto di Dio» non è da intendersi, neanche in questo caso, come una reale percezione corporea di «Colui che non si può vedere senza morire», ma l’essere ammessi per grazia - come avveniva secondo le regole del cerimoniale delle corti imperiali - là dove abita Colui che ha posto la Sua dimora nel Tempio, in mezzo al suo popolo, Israele.
Secondo la Bibbia, infatti, l’incontro con Dio diviene, misteriosamente, oggetto di esperienza personale nel luogo dove è custodita l’Arca dell’Alleanza - con le tavole della Legge che essa contiene — perché YHWH sovrasta l’invisibile trono che si erge sulle ali dei Cherubini posti sopra il propiziatorio (Es 25,22; Sal 80 (79)2; 99 (98)1; si veda la formula: sgabello dei tuoi piedi, Sal 99 (98)5; 132 (131)7; Lam 2,1; cf. I Cr 28,2)2. Si dà quindi una correlazione diretta, come attestano vari salmi, tra il desiderio del volto di Dio, la nostalgia del Tempio, la ricerca della sua presenza o dell’incontro con Lui nel culto liturgico, che ne conserva e attualizza la memoria (Es 20,24). Una veloce panoramica di alcuni salmi permetterà di constatare come nel linguaggio della preghiera, il senso concreto e diretto dei termini è in funzione soprattutto della realtà della relazione stessa con Dio, dove l’incontro spirituale non va inteso in dimensione fisica, ma nella sua profondità e verità esistenziale.
Desiderio di Dio e celebrazione liturgica
«Di te parla il mio cuore: cercate il mio volto. Il tuo volto, Signore, io cerco, non nascondermi il tuo Volto» All’inizio della seconda parte del Sal 27 (26), questi versetti introducono una supplica (vv. 7-13) che segue l’iniziale confessione di fiducia (vv. 1-6): il desiderio del volto di Dio viene modulato concretamente in riferimento al Tempio e al culto (vv. 4.5.6). La ricerca dell’incontro personale con il Signore risponde in parallelo alla richiesta di poter dimorare per sempre nella casa di Dio «per gustare la dolcezza del Signore e contemplare il suo santuario» (v. 4), offrendo «nella sua tenda sacrifici di esultanza, cantando e suonando per il Signore» (v. 5). L’afflato spirituale dell’aspirazione dell’orante è proteso verso Colui di cui implora il favore e la grazia saIvifica (vv. 9-13), per sperimentare nel corso della vita presente il suo volgersi misericordioso. Il volto è infatti simbolico della relazione, resa possibile dagli organi di senso (vista, udito, parola). L’incontro beatificante, che alcuni vedono qui annunciato per la vita nell’al di là, è in realtà, nella fede, una esperienza che regge, sostiene e dà senso alla vita nel tempo.
«Tu mi insegnerai il cammino della vita, mi colmerai di gioia alla tua presenza3 dolcezza senza fine alla tua destra». Questa conclusione sublime sigilla nel v. 11, come in un vertice teologico e spirituale, tutto il Sal 6 (15), che celebra la fedeltà e appartenenza al Signore di un sacerdote o un levita, forse al momento della sua consacrazione. L’adesione a Colui che è il proprio bene, la parte migliore e splendida dell’eredità che gli è toccata in sorte (vv. 2 e 5-6), va di pari passo con una professione di fede che rifiuta qualsiasi forma di idolatria (vv. 3-4). Dio è il maestro (lett. «consigliere») sempre presente, dinanzi e a fianco dell’orante, che di giorno e di notte lo guida e lo sostiene (vv. 7-8): sicurezza e gioia pervadono così tutte le dimensioni della persona, nella certezza che neppure nella morte potrà essere abbandonata da Lui. La comunione con Dio dilata gli orizzonti del tempo e dello spazio in una prospettiva di presenza reciproca che non potrà mai conoscere la corruzione4. Sarà il Nuovo Testamento, con la doppia citazione del salmo (vv. 8-11 in At 2,25-58; v. 11 in At 13,35; cf. 2,31) che inaugurerà la frequente lettura patristica in riferimento alla risurrezione di Cristo del cristiano (Origene, Didimo, ecc.): soltanto così verrà letta con pienezza di senso la pregnanza della intuizione poetico-spirituale dell’orante veterotestamentario.
«In Te è la sorgente della vita, nella tua luce vediamo la luce». Anche nel Sal. 36 (35) l’esperienza di Dio è direttamente connessa con il Tempio, dove la celebrazione cultuale conduce all’incontro con la sua presenza. Dopo una meditazione sulla dinamica dell’iniquità nell’intimo dei malvagi (vv. 2-5), il salmista eleva il suo sguardo verso il mistero di Dio, che evoca con la triplice menzione della formula «la tua bontà». Alla contemplazione dell’amore di Dio nella creazione (vv. 6-7), fa seguito l’esperienza di Lui vissuta nel Santuario (vv. 8-10), per poi concludere in chiave morale, sulla relazione tra favore di Dio e giustizia (v. 11). La conclusione (vv. 12- 13) riprende e risponde al tema iniziale. Nel v. 10, citato all’inizio del paragrafo, culmina il riferimento al Tempio: il desiderio dell’uomo - la sua fame e la sua sete - vengono saziati, nel culto, dal «torrente delle tue delizie». Il linguaggio descrive, al di là della sazietà di chi partecipa al banchetto di comunione, la gioia esistenziale caratteristica della Liturgia e la pienezza dell’incontro con Dio che essa media, sacramentalmente.
«L’anima mia ha sete di Dio, del Dio Vivente, quando vedrà il suo volto?». Il salmo dove per eccellenza il desiderio del volto di Dio si modula come anelito all’incontro con Lui nel Tempio, è senz’altro il Sal 42-43 (41-42). La lontananza fisica dal Monte Sion alimenta, secondo le dinamiche tipiche dell’assenza, la tensione verso il luogo in cui Dio abita [Sal 42 (41)3; 43 (42)3-4]: da Lui scaturisce infatti quell’acqua viva che non solo alimenta la vita spirituale e religiosa dell’orante, ma che, più radicalmente, rende possibile la sua stessa sussistenza fisica [è questo il significato esistenziale della simbologia della sete, 42 (41)2-3, del pane di lagrime, 42 (41),4, e dei flutti di morte che si sono abbattuti sull’orante, Sal 42 (41) 8]. Tuttavia, l’immagine stessa del pellegrinaggio al Tempio non è che rappresentazione simbolica dell’incontro con il Dio della gioia: nel perdurare della prova [SalI 42 (41), 6.12; 43 (42)5], nella volontà dell’orante di continuare a vivere e a lottare [Sal 42 (41)10-11; 43 (42)2], la speranza anticipa il compimento del desiderio, vivificando e dilatando il suo orizzonte spirituale, facendogli già pregustare l’allegrezza della reciproca appartenenza sperimentata nella celebrazione liturgica [Sal 43 (42)4].
«La tua grazia vale più della vita». Varie immagini evocano il desiderio di Dio nel Sal 63 (62), al pari delle sfaccettature luminose di un prisma: dalla veglia in attesa del sole (v. 2a), all’arsura della sete nel deserto (v. 2b), alla visione della gloria e della potenza di Dio nella Liturgia del Tempio (v. 3), fino alla sazietà inebriante del convito sacro (v. 6a) e al canto gioioso della lode liturgica (v. 4-5.6b): tutte le dimensioni fisico-corporee dell’orante, e non solo le sue intuizioni psicospirituali, vengono coinvolte nell’esperienza religiosa. Al versante diurno o luminoso della tensione verso Dio, risponde il tempo notturno, quando, nel silenzio e nella solitudine della veglia, ripercorrendo i contenuti della sua memoria, l’orante percepisce il Tu di Dio, che unifica la storia con tutta la sua rilevanza onnipotente e salvifica (vv. 7-8). La certezza di essere sostenuto da Lui costituisce il principio della forza e della gioia del salmista (vv. 8-9), ormai sicuro della sua prossima liberazione (10-11.1 2b). La tensione del desiderio ispira una ricerca di Dio che si incarna in tutto lo spessore umano in riferimento al Tempio, dove - letteralmente - la potenza e la gloria di Dio divengono oggetto di visione, di contemplazione (v. 3). Il testo non intende evocare esperienze mistiche straordinarie, ma l’incontro personale con la trascendenza divina, che diviene realtà nell’ambito della celebrazione del culto (Es 20,24)
Contemplazione del volto di Dio e integrità morale
Un ulteriore aspetto merita una particolare sottolineatura: alcuni salmi evidenziano che l’incontro con Dio sarà possibile, come dirà il Vangelo, solo per chi ha «il cuore puro» (Mt 5,8) o ha rivestito l’abito nuziale (Mt 22,12).
«Giusto è il Signore e ama la giustizia: i retti contempleranno il suo Volto»: anche l’orante del Sal 11(10) - con tutta probabilità un innocente ingiustamente perseguitato che si è rifugiato nel Tempio per godervi del diritto di asilo - conclude la sua preghiera nel v. 7 con una nota sublime. Delle voci esterne lo sfidano, citando forse un noto proverbio per suggerirgli, nel pericolo, di preferire alla fede in Dio tattiche di fuga più conformi alla prudenza umana («Fuggi come un passero verso il monte», v. 1). Di fronte alle ostilità degli empi, sembra prevalere nei giusti un senso di totale impotenza per la sovversione dei principi morali (vv. 2-3). Ma dall’alto della sua dimora, Dio scruta tutti e ciascuno: la sua giustizia li mette a prova per compiere il suo giudizio salvifico già all’interno della storia (vv. 4-5). Qui avviene tuttavia un rovesciamento totale e inaspettato: alla conoscenza che Dio ha del cuore dell’uomo, fa riscontro in parallelo la contemplazione del volto di Dio da parte dei giusti (cioè l’immediatezza di una relazione personale, grazie alla reciproca somiglianza, cf. I Gv 3,2). La comunione con Dio di coloro che sono in sintonia con Lui, a livello morale, diviene esperienza diretta della sua presenza, in una immanenza reciproca che assume fin d’ora uno spessore reale, nell’intimo della persona.
Lo stesso tema ritorna con alcune modulazioni nel Salmo 17 (16), che nel v. 15 culmina dicendo: «Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza». Di nuovo, un innocente si appella a Dio, mentre attende nel Tempio che al sorgere del sole venga pronunciata la sua liberazione. Il tema della giustizia, insieme a quello della presenza di Dio, abbraccia in inclusione tutto il salmo (vv. 1.15 / 2.15). L’invocazione al giudizio di Colui che scruta l’intimo del cuore poggia sulla coscienza della propria integrità morale (vv. 1-3a. 3b-5), nella fede di essere esaudito (v. 6), e si formula con l’uso degli imperativi: «mostrami i prodigi del tuo amore / custodiscimi come la pupilla dei tuoi occhi / proteggimi all’ombra delle tue ali» (vv. 6-9). Dopo l’invocazione all’intervento di Dio (vv. 13.14), l’orante esprime la sua certezza: la piena sintonia morale del simile col simile, Io condurrà alla contemplazione dell’immagine invisibile di Dio. Nel tempo o nel risveglio dalla morte? Nessun accenno nel salmo alla vita dell’al di là o a una prospettiva ultraterrena, ma solo alla prova della notte (v. 3), che l’orante trascorre all’ombra delle ali di Dio (v. 8)5. Se l’Altissimo si ritrae, per manifestare la sua repulsione dei malvagi (Os 5,15), contemplare il volto di Dio per essere saziato della sua presenza vivificante è la suprema ricompensa del giusto.
La correlazione diretta tra integrità morale e comunione con Dio ritorna nella conclusione del Sal 41 (40): «quanto a me, per la mia integrità tu mi sostieni, mi stabilisci per sempre davanti al tuo Volto» (v. 13). Il principio tradizionale della retribuzione (devianza morale = castigo: infermità e morte; innocenza = benedizione divina) anima lo sviluppo di tutto il salmo: al giacere senza potersi più rialzare, constatazione o malaugurio in cui termina l’ostilità degli amici I nemici del salmista (vv. 5-10, soprattutto v. 9) si contrappone direttamente il «permanere eretto davanti al Volto di Dio, per sempre», che simbolizza la guarigione (così, letteralmente, termina la certezza di essere esaudito, vv. 12-13). Nel contesto globale della composizione, lo stare in piedi davanti al Signore non solo è immagine di ristabilimento, ma soprattutto simbolo di una particolare relazione [di alleanza] con Lui (Dt 29,9-12; Es 34,2): non implica il possederlo per sempre nella visione beatifica dell’al di là, ma vivere fin d’ora in una particolare comunione reciproca, alla sua presenza, in forza della rettitudine morale (cf. Gn 17,1).
«Sì, i giusti renderanno grazie al tuo nome, abiteranno i retti alla tua presenza»: con la medesima immagine e un’identica concezione teologica si conclude il Sal 140 (139), nel v. 14. Si tratta di una lamentazione individuale in cui il salmista invoca l’aiuto di Dio sviluppando la sua preghiera in quattro parti [vv. 2-6 (A): appello e descrizione del pericolo; vv. 7-8 (B): professione di fiducia; vv 9-12 (A’): appello e petizione del castigo di Dio; vv. 13-14 (B’) professione di fiducia e certezza del giusto giudizio di Dio]. Al destino che attende i malvagi nello Sheol, fa riscontro l’intervento di Dio in questa vita a favore degli innocenti ingiustamente oppressi. Il loro «rendere grazie alla presenza di Dio» (lett. «davanti al tuo Volto») appartiene al linguaggio liturgico cultuale, ma viene qui applicato alla vita quotidiana del credente, considerata come un camminare «al cospetto del Signore, nella terra dei viventi» (Sal 27 (26),1 3: 116 (114)9; 142 (141)6; cf. 52 (51)7).
Il Re, mediatore di benedizione per il suo popolo
Quanto siamo venuti dicendo finora viene riferito emblematicamente in alcuni salmi alla figura del Re. Infatti, a lui viene concessa una particolare esperienza della presenza di Dio, diremmo in modo simbolico e paradigmatico, in quanto mediatore dell’alleanza del Signore verso il suo popolo. È questa l’affermazione innanzitutto di Sal 21 (20)7: «Lo fai oggetto di benedizione per sempre, lo colmi di gioia dinanzi al tuo Volto». Così viene sigillata la prima parte di questo salmo, che enumera i benefici di Dio concessi al Re (seguirà quindi l’intervento bellico di YHWH in suo favore, vv. 9-13). La figura del sovrano - mediazione della pienezza di vita a cui è chiamato tutto il popolo di Dio - è fonte di benedizione per i doni che si riversano su di lui, la cui espressione principale sta nel godere, in immediatezza di relazione, la percezione gioiosa della sua presenza. Il linguaggio non va inteso in senso fisico e materialistico - e nemmeno come assicurazione di una visione beatifica nell’al di là - ma nella sua pregnanza teologico-liturgica, in continuità con la promessa di Dio trasmessa a Davide dal profeta Natan (2 Sam 7,29).
«Sieda in trono per sempre davanti al Volto di Dio, la grazia e la fedeltà lo custodiscano per sempre»: sulla stessa onda simbolica si conclude il Sal 61(60), nei vv. 7-8. Al di là delle questioni che essa solleva al termine di una lamentazione individuale (odi un salmo misto, secondo alcuni; di un salmo regale, pronunciato dal Re, secondo altri), interessa sottolineare di nuovo la particolare relazione con Dio di cui gode il Re, indicata mediante la figura dell’essere seduto in trono (espressione di autorità e signoria) alla sua presenza. L’immagine potrebbe essere intesa come auspicio di una permanenza illimitata davanti a Dio della successione dinastica; il poeta tuttavia costruisce nel salmo una specie di crescendo perché dalla permanenza del Re davanti al volto di Dio, scaturisce la sua mediazione di alleanza e di salvezza per tutta la collettività e i singoli membri del popolo.
Secondo una lettura esegetica piana e fedele al testo, questi salmi non sono esplicitamente messianici: eppure permettono già di intravedere, come da lontano, quella pienezza di mediazione salvifica che caratterizzerà l’operato e la funzione del Re Messia (cf. Eb 7,25).
Concludendo
Il primato che la Parola assume nella rivelazione ebreo-cristiana - fondando l’atteggiamento basilare dell’accoglienza nell’ascolto e nell’obbedienza ai comandamenti - non è a discapito della dimensione altrettanto essenziale dell’incontro con Dio descritto metaforicamente con l’immagine della visione del Volto, l’esperienza della presenza, attestata anch’essa nei testi biblici (Gn 16,13; Es 24,10; Gdc 13,22; 1 Re 22,19; Is 6,1; Am 9,1; cf. Nm 12,8; 22,23.25.27.31; ecc.).
Il dono che Dio fa di se stesso fin dagli inizi della storia prepara e culmina nell’Incarnazione di Cristo, il Verbo fatto carne: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita - poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi - quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,1-4).
Note
- Cf. RB, Prologo, 21: «guidati dall’Evangelo camminiamo perle sue vie, per divenire degni di vedere Colui che ci chiamò al suo regno».
- Cf. l’uso della formula: «rifugiarsi all’ombra delle ali di Dio» che indica il rifugio nel Tempio: Sal 17(16)8; 36 (35)8; 57 (56)2; 61,4; 63 (62)8; 91 (90)4; ecc.
- Lett. “con il tuo Volto”, opp. “davanti a te”.
- Non ci addentriamo qui nella questione di una lettura propriamente escatologica: un’interpretazione esplicita in chiave di vita eterna, come è noto, è possibile nei testi veterotestamentari, letteralmente, solo in Dn 12,2; 2 Mac 7,9.
- Cf. n. 2.