Un chiarimento importante per definire l'obiettivo della formazione ci viene da un confronto con il passato, e con quello che un tempo era considerato senz'alcuna incertezza l'obiectivus ad quem d'un programma formativo e della vita consacrata e sacerdotale in genere: la perfezione.
Tale modello è giunto fino ai giorni nostri, se ancora la vita consacrata - in particolare - si chiama vita di perfezione e le congregazioni religiose sono considerate «Istituti di perfezione», ma attraverso rivisitazioni anche sostanziali del concetto e della logica a esso sottesa.
Vedi infatti quei modelli che si sono succeduti nell'evoluzione informale di questi ultimi decenni, in maniera più o meno informale, e che hanno lentamente modificato una certa idea di perfezione come fine del progetto formativo: il modello dell'osservanza comune, dell'autorealizzazione, dell'accettazione, e quello più attuale dell'integrazione.
1. Modello della perfezione
Il modello operativo del santo perfetto e di una formazione che tende alla perfezione è quello che potremmo definire della «canalizzazione», raffigurabile come una freccia che prende una direzione precisa verso un punto preciso, la perfezione, appunto, escludendo tutto il resto.
1.1.Pretesa (irrealistica) e rischio (reale)
La strategia della canalizzazione prevede che le energie istintuali dell'uomo, ambigue come sono, vengano assunte solo nella misura in cui assecondino un progetto elaborato dalla ragione.
Di conseguenza c'è il rischio, anche se non fatale, che alcune dimensioni che non rientrino subito negli schemi di ciò che chiamiamo (o che il singolo chiama) perfezione, vengano represse, negate e cancellate, almeno intenzionalmente. Ma la pretesa che l'energia pulsionale sia immediatamente conforme ai valori, pena la sua eliminazione, sembra irrealistica e finisce poi per impoverire la vita psichica dell'aspirante santo. Anche se, di fatto, le forze negate non scompaiono né cessano di esistere, semmai restano presenti come negate e non accettate. Detto in altro modo: la loro energia non è più una forza che l'individuo sfrutta e di cui si serve per vivere i suoi ideali, bensì è come una forza bruta che l'individuo combatte ma che vuoi emergere continuamente e imporsi a modo suo, rendendo drammatica la vita cosciente e mettendo sempre più in pericolo il conseguimento dello stesso ideale della perfezione. La vita così si complica pericolosamente e il modello originale rischia di trasformarsi in modello della lotta a oltranza e della tensione insopportabile a lungo andare. Col risultato, frequente nella nostra storia, che molti aspiranti verso questo tipo di perfezione a un certo punto non resistono più alla tensione e a volte passano addirittura all'estremo opposto o preferiscono lasciarsi andare a una vita mediocre.
1.2.Controllore perfetto (ed esausto)
Altra conseguenza o componente quasi inevitabile. Quanto maggiore è la forza soggettiva di controllo, tanto maggiore sarà la minaccia che l'eros e il pathos (i simboli dell'energia istintiva) fanno alla coscienza e che il soggetto stesso avvertirà con certa angoscia. Alle tentazioni, allora, l'individuo opporrà una resistenza frontale che pretende buttar via tutto, acqua sporca e bambino dentro ... Ha, infatti, diritto di esistere nella sua vita solo la dimensione di luce e di bontà, di purezza e di positività. Le altre dimensioni di ombra, che pure appartengono alla realtà umana, sono messe continuamente sotto accusa e sotto controllo. Il modello di questa idea di perfezione cristiana è il controllore perfetto di tutti i suoi istinti; è uno che persegue inflessibile un ideale massimale; castiga e reprime la passionalità che si oppone alla virtù, ma deve sempre ricorrere a un impegno gravoso della volontà, con dispendio notevole di energia psichica, quel dispendio che rende la persona «affaticata e oppressa»1. Quello che fa, il suo stesso ideale di perfezione con tutte le rinunce e penitenze che comporta, è più un obbligo che si è imposto o che si sente imposto come un giogo, che non esigenza e conseguenza d'un rapporto d'amore. Lo vuole con tutta la sua volontà, non importa se non lo ama; ciò che conta è che si decida a convertirsi, cioè a cambiare comportamenti, non che ci trovi gusto a lasciarsi attrarre dallo Spirito o che sperimenti la libertà dell'amore. In tutto questo c'è tantissima buona volontà e un'intenzione sincera di cui a nessuno è lecito dubitare, ma probabilmente c'è poca libertà interiore e ancor meno vera e propria trascendenza di sé (nonostante la tensione verso il superamento dell'io).
1.3.Senza passioni e senza passione
Vediamo alcune implicanze sul piano formativo di questo equivoco. Il giovane viene orientato lungo un percorso che si rivela impossibile: lo si spinge, infatti, a cancellare una parte del proprio io, quella considerata meno nobile o più umiliante, al punto d'illuderlo di poter riuscire nell'intento, eliminandola ed estirpandola alla radice col risultato che non si elimina un bel niente, se mai si relega tutto nell'inconscio, da dove l'istinto negato continua a disturbare - indisturbato - la vita cosciente del soggetto, infiltrandosi sottile come motivazione profonda di gesti apparentemente corretti ed evangelici, o come ragione ultima di sensazioni, reazioni, stati d'animo, crisi «inspiegabili».
Altra conseguenza molto negativa a livello formativo: si trasmette al giovane una idea contraddittoria di se stesso; vi sarebbe, infatti, nel suo io una zona irrimediabilmente negativa che va dominata o che è meglio ignorare, misterioso «buco nero». Da un lato, allora, si favorisce un certo senso di presunzione e di sufficienza (devi dominare e cancellare tutto il negativo), dall'altro si insinua una concezione negativa del proprio essere, che non tarderà a emergere come rabbia e senso di colpa quando il soggetto non riesce a vincere e dominare, o come depressione e smarrimento quando è costretto a constatare che non ha cancellato un bel niente. La risultante di questa confusione sarà che il soggetto non è aiutato a conoscersi né ad accettarsi; in una parola, sarà poco libero con se stesso e con gli altri, sui quali tenderà, difensivamente, a proiettare quanto gli fa problema e non accetta di sé. Infine, come già accennato, si impoverisce in generale la vita psichica: ogni passione, per quanto diabolica, contiene energia, e senza energia l'uomo non può realizzare nulla. Sarà o rischierà di essere un essere senza passioni, ma anche senza passione. Il vantaggio del modello della perfezione è l'estrema chiarezza del progetto proposto, dei valori da raggiungere e della disciplina da praticare, della distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male, dei percorsi metodologici e delle rinunce inevitabili. E non è poco. In ogni caso tale modello appartiene a un certo passato, anche se non proprio passato del tutto; qua e là sono ancora riconoscibili in certe odierne concezioni e prassi educative residui di questa mentalità. In tempi poi d'incertezza e disorientamento come i nostri, c'è chi ritiene che tutto si potrebbe risolvere tornando semplicemente a questo modello, con la chiarezza che lo contraddistingue e la disciplina che ne deriva.
Ma dobbiamo dire che di fatto tale modello crea seri problemi non solo a livello psicologico e formativo, come abbiamo visto, ma anche a livello di vita spirituale e d'interpretazione corretta del messaggio cristiano, offrendo il fianco al rischio del perfezionismo e del legalismo. Chi interpreta la tensione verso la perfezione in termini eccessivamente realisti e immediati, privilegiando subito i comportamenti, di fatto rischia di cadere in quella sindrome dell' osservanza formale, della legge per la legge, che Gesù stesso ha con particolare veemenza contestato e che Paolo continuerà con altrettanta passione ad attaccare; la pretesa, infatti, di costruirsi nella perfezione con le proprie mani e i propri muscoli rende vana la croce di Cristo. Non poteva dunque reggere tale modello al rinnovamento innescato dal Concilio Vaticano.
2.Il modello della «osservanza comune»
Questo modello è l'interpretazione del modello della perfezione ampliata a livello comunitario. C’è stato un tempo in cui era stata molto enfatizzata questa finalità della vita consacrata. L'osservanza comune e l'ideale della perfezione, trasferito dal singolo individuo alla comunità in quanto tale, ma praticamente sempre con la stessa logica. Ideale di perfezione con un respiro più ampio, non più concentrato e in qualche modo imposto al singolo, ma trasferito, con una certa forza, nel gruppo. Questo ha provocato alcune conseguenze abbastanza rilevanti dal punto di vista psicologico perché è chiaro che tutto ciò ha cambiato un po' il contenuto dell'idea di perfezione. Inevitabilmente, se l'ideale di perfezione è imposto al gruppo, sul gruppo c'è meno possibilità di intervenire a livello di motivazioni profonde. È già difficile scoprire la motivazione profonda nel singolo, figurarsi se si può portare a livello di gruppo, perché ognuno ha le proprie motivazioni. La conseguenza fatale del modello dell'osservanza comune ha portato a ritenere più importanti i comportamenti, cioè la condotta esteriore con tutto il rischio e il pericolo del formalismo, del comportamentismo, del moralismo e di un certo legalismo, per cui tutti fanno le stesse cose, agiscono nello stesso modo e allo stesso tempo.
È chiaro che tutto questo ha un suo valore, non intendo assolutamente sminuirlo, però il rischio è di far consistere la perfezione praticamente in questo ideale gruppale di comportamento e di ignorare o dare meno importanza a ciò che è proprio l'elemento strategico di un cammino formativo. Che cos'è l'elemento strategico? L'elemento strategico è che cambi il cuore, che il cuore sia capace di aprirsi all'amore.
La salvaguardia non consiste nei comportamenti, è il cuore che deve cambiare. È bello ciò che scrive Paolo nella lettera ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti del Figlio». Il documento «Vita Consecrata», adotta questo passaggio biblico per parlare del fine della vita consacrata. Afferma esplicitamente che l'obiettivo della vita consacrata è avere i sentimenti del Figlio e per avere questi sentimenti ci vuole un lavoro in profondità, non basta fare l'esame di coscienza a livello di comportamenti. Il problema non sono i comportamenti, il problema è il cuore.
Se si accontenta di guardare i comportamenti, non ci sarà nessun processo formativo. Occorre il «descensus ad inferos», occorre andare sempre più in fondo a sé stessi fino a scoprire i propri mostri, i propri fantasmi, i propri démoni. Questo implica un cammino che va dai comportamenti agli atteggiamenti, cioè dalle attitudini interiori, allo stile di vita. La coscienza giudica quello che è bene o quello che è male. Poi abbiamo i sentimenti e le motivazioni. È’ importante non solo interrogarsi su ciò che ho fatto (comportamenti), ma come l'ho fatto (atteggiamenti e sentimenti) e perché l'ho fatto o per chi l'ho fatto (motivazioni).
Questo è un esame di coscienza dignitoso, altrimenti sarebbe un esame di incoscienza. Molte volte le nostre confessioni, sono semplicemente un andare a raccontare la lista dei comportamenti, le trasgressioni comportamentali. Confessarsi ha senso se mettiamo davanti a Dio i démoni che abitano il nostro cuore; allora uno sente la necessità di gridare: Kyrie elèison, sente il bisogno di confessarsi perché da solo non ce la fa. Uno ha la coscienza penitenziale solo se ha imparato a fare questo descensos ad inferos e ogni giorno fa l'esame di coscienza, non quello di incoscienza che si accontenta di restare nei comportamenti e probabilmente non si sente così peccatore...
Credo che in certi ambiti, la psicologia potrebbe essere molto più severa della teologia morale perché costringe a guardarsi dentro con verità, a porsi queste domande ogni giorno, e non solo alla fine della giornata. Il religioso intelligente è quello che ha una coscienza vigile, che in tempo reale dice: in questo momento, con questa persona, con questo confratello, sento questo sentimento, che è segno di egoismo, di narcisismo, di egocentrismo. Questa è una coscienza penitenziale, qui c'è una verità di cammino formativo.
Il modello dell'osservanza comune, evidentemente, ponendo l'enfasi sul gruppo, non poteva fare tutti questi discorsi, ma enfatizzava soprattutto, inevitabilmente, la dimensione esterna della vita del monaco o del consacrato e questo è stato senz'altro un pericolo molto grave che abbiamo ereditato da questo modello. Ecco allora le comunità dell'osservanza, comunità tutte belline, compite, dove tutti all'orario stabilito fanno le cose stabilite. È esteticamente apprezzabile la faccenda, però dà meno rilievo a tutto quel lavoro che dovrebbe avvenire nelle profondità cardiache della persona.
La perfezione nei comportamenti è stato senz'altro un limite di cui credo, stiamo ancora pagando le conseguenze. È’ un altro equivoco che la comunità dell'osservanza ad un certo punto ha creato come una sorta di confusione, anche se abbiamo detto che c'è anche un aspetto positivo in questo modello, però attenzione a non far consistere tutto nella disciplina esteriore.
2.1. Disciplina e autodisciplina
È chiaro che la disciplina è importante, però è funzionale alla crescita nella misura in cui diventa una autodisciplina, ossia la persona scopre un suo limite, il suo equivoco di fondo che può anche non essere un peccato. Equivoco vuol dire una interpretazione errata di dove sta il bene. Ecco allora che il giovane ha identificato dove è debole, dove la sua vita è ancora confusa, dove è ancora dominato da questi equivoci, dove è ancora particolarmente vulnerabile o sensibile ad un certo tipo di fantasmi e di sirene e dunque si lavora lì.
È nella disciplina che il discepolo vuole crescere nella passione per il Maestro e allora si sceglie lui una disciplina per essere sempre più libero di appassionarsi e di innamorarsi del Maestro.
Una disciplina ci vuole, ma come autodisciplina, come conseguenza di un lavoro di educazione. «Educare», educere, tirar fuori, «educere veritate» tirar fuori la verità. Lavorarsi lì, proprio lì dove ho scoperto di essere particolarmente debole.
È’ molto importante la disciplina nella vita comune, però non nel senso del modello dell'osservanza comune, cioè la disciplina come una sorta di distintivo comunitario: tutti agiscono in quella maniera e tutti fanno le stesse cose, ma disciplina come autodisciplina, cioè come una scelta dettata dal desiderio di essere come il Maestro.
2.2. Senso di identità e senso di appartenenza
Altro equivoco è il non rispettare l'equilibrio tra senso di identità e senso di appartenenza, favorendo forme di conformismo e consentendo a persone dall'identità piuttosto debole, di sentirsi accettate dal gruppo. Nella misura in cui uno si adegua allo stile del gruppo, viene accettato dal gruppo, viene apprezzato, magari viene anche considerato un «modello» perché è obbediente, obbedientissimo, ma l'obbedienza è qualcosa d'altro, non è solo questo. Evidentemente anche questo è un equivoco che nuoce alla comprensione di quella che invece dovrebbe essere l'autentica finalità della vita consacrata.
Abbiamo visto il modello della perfezione e il modello dell'osservanza comune. Questi modelli li possiamo riconoscere nel passato, però non è per niente detto che siano del tutto estinti. In tempi di transizione come quelli che viviamo oggi, è molto facile la tentazione, l'illusione, di risolvere certi problemi di non chiarezza, tornando a questi modelli che, infatti, erano e sono molto chiari, molto precisi. Indicano con chiarezza ciò che si deve fare o non si deve fare e per questo credo sia utile parlarne anche perché un formatore deve rendersi conto che sta usando un modello. Non è positivo che un formatore adotti un modello senza rendersene conto. Deve capire che sta usando un modello e dunque ci saranno delle conseguenze anche se lui ora non le prevede e non le intende.
3.Modello dell'autorealizzazione
Tale modello, tipico degli anni immediatamente successivi al Vaticano II, va compreso contestualizzandolo esattamente nel periodo storico in cui è sorto, in maniera più o meno informale. Da un lato, infatti, esso è l'inevitabile conseguenza del modello della perfezione o reazione scontata a esso; dall'altro segna una rottura anche piuttosto accentuata nei suoi confronti.
In che consiste? Nel porre, anzitutto, l'identità personale nelle proprie doti e qualità (a livello fisico, psichico e morale), presumendo d'esser artefici di sé e delle proprie fortune (il tipo che s'è-fatto-da-sé), e nel perseguire la realizzazione dei propri talenti e capacità come scopo primario della vita e condizione e garanzia della stima di sé.
3.1.L'io all'inizio, al centro e al termine
Porre la propria autorealizzazione come obiettivo d'un percorso formativo religioso o sacerdotale significa, in realtà, trasferire nell’ambito psicologico quanto prima era riferito e applicato a quello spirituale. In tal senso e al di là dell'apparenza, autorealizzazione e tensione autoperfezionista non sono termini tra loro contrapposti, specie per via di quell'auto, simbolo del ripiegamento su di sé. Il primo, l'autorealizzazione, sottolinea l'aspetto psichico e del tutto immanente al soggetto; il secondo si muove nell'ambito trascendente e spirituale, ma spesso con la stessa logica e in vista del medesimo obiettivo: la logica dell'io-autore-di-sé, delle proprie prestazioni e successi, per giungere a una stima e realizzazione di sé costruita con le proprie mani e costituita di risultati visibili e più o meno esibiti. C'è sempre l'io, insomma, all'origine, al centro e pure al termine di tutto.
Nel caso della perfezione è un io che si nutre di contenuti spirituali e cammina verso obiettivi nobili; nel caso dell'autorealizzazione è un io molto preoccupato delle sue doti, qualità, talenti vari e della stima di sé, e che teorizza il primato della realizzazione di tutto ciò su tutto il resto (formazione spirituale compresa), o quanto meno pone tale realizzazione come condizione per la stima di sé e il senso d'appagamento personale, della propria felicità.
Cambiano i contenuti, dunque, ma resta identico lo stile o il dinamismo intrapsichico, come spesso stranamente succede quando da un estremo si va all'altro in quel movimento pendolare che ha sovente caratterizzato questi tempi di cambiamenti incerti e a volte peregrini.
3.2. Aspetti positivi
Nel campo poi della formazione sacerdotale e religiosa questa inversione di rotta, più o meno apparente, ha comunque determinato cambi anche repentini a livello di concezione teorica e di prassi operativa della pedagogia formativa. Anche di natura e segno positivo.
Vedi ad esempio, il recupero della centralità del soggetto a fronte di quella concezione un po' massivo-passiva e omologante del gruppo, che consentiva - a seconda dei casi - d'intrupparsi nel collettivo o imboscarsi per evitare certi appelli; oppure vedi il rapporto maggiormente equilibrato tra Grazia e natura, tra doni dello Spirito e doti individuali, un rapporto che vada oltre il semplice e ormai scontato «la Grazia suppone la natura»; o, ancora, l'attenzione a tematiche importanti sul piano psicologico ma con inevitabili riflessi su quello spirituale, come l'autoidentità, la stima di sé o la stessa realizzazione di sé; o, infine, la valorizzazione della propria umanità, d'un certo senso di appagamento personale, di gusto del vivere... erroneamente ritenuti, da certa concezione della vita spirituale, come estranei o addirittura contrari a una genuina vita nello Spirito.
In questo ha indubbiamente giovato l'ingresso delle scienze umane nel contesto dei nostri ambiti formativi.
Ma ci sono anche corsi rischi notevoli, rischi di errori di prospettiva, di enfatizzazioni eccessive, di squilibri valutativi, di unilateralismi esasperanti, con conseguenze anche d'un certo peso. Vediamone alcune, sempre sul piano formativo sacerdotale e religioso.
3.3. Aspetti contraddittori: il talento come limite
Quando la prospettiva è solo o soprattutto quella dell'autorealizzazione il talento personale viene caricato oltremodo d'importanza e tutto viene visto nella prospettiva di realizzarlo, come fosse la cosa più importante e l'aspetto più rilevante della propria identità. La scelta vocazionale, ad esempio, viene fatta a partire dai propri talenti. Il soggetto non potrà scegliere (e scegliersi) al di fuori di essi, né in seguito fare alcuna scelta o accettare alcuna proposta se non ha la certezza di poter riuscire perfettamente nella prestazione richiesta, senza più alcuna libertà di rischiare, di tentare cose nuove, di puntare in alto. E il talento diventa così, paradossalmente, come un limite alla propria realizzazione, mentre l'individuo che si voleva autorealizzare si condanna ad autoripetersi in una coazione (o... clonazione) a ripetere.
3.4. Dipendenza dal ruolo e dal risultato
Ancora, chi fa dell'autorealizzazione il traguardo esistenziale rischia, senza rendersene conto, di divenire dipendente da un bel po' di cose, situazioni, persone, ambienti... Anzitutto la sua stima dipende dal ruolo che ricopre e dal contesto ove può manifestare le sue doti. Staccato dall'uno e dall'altro non ritrova più se stesso e si sente una nullità; diverrà lui stesso sempre più bisognoso, all'eccesso, del risultato positivo e del consenso sociale, temendo l'insuccesso come un fallimento personale e curando con estrema attenzione la sua immagine sociale come ciò che gli dà identità, con tutto ciò che significa (carrierismo, protagonismo, competitività e rivalità nei rapporti, invidia e gelosia ... ). Ovviamente avrà grossi problemi nel riconoscere il proprio limite morale e nel vivere un'autentica coscienza di peccato, poiché butterebbe troppo giù la già debole stima di sé, con la conseguenza di non fare mai l'esperienza della misericordia dell'Eterno e dunque di divenire, in pratica, un essere antisociale.
3.5. Dall'autorealizzazione al complesso d'inferiorità
L'impressione di morire di sete. E così la tensione per la propria autorealizzazione, produce o rischia di produrre senso e complesso d'inferiorità.
È sufficiente un po' di sana psicologia per capire perché l'essere umano non si troverà mai cercandosi troppo, non soddisferà mai il suo bisogno di stima facendone lo scopo immediato e prioritario del proprio agire, tanto meno illudendosi che dall'esterno, dai risultati delle sue prestazioni o dalle promozioni ricevute sul campo possa venirgli la soluzione d'un problema interno, come quello dell'identità e della realizzazione d'essa. E tanto più se l'essere umano in questione ha scelto di consacrarsi a Dio, a immagine di colui che non ha cercato se stesso e la sua gloria, ma la salvezza degli uomini e la gloria del Padre, realizzando entrambe (e realizzandosi) quando fu elevato da terra, in quella croce che è il vertice misterioso d'ogni autentica realizzazione di sé!
Diciamo che il modello dell'autorealizzazione non s'è certamente «estinto» col periodo immediatamente successivo al Vaticano II, ma è tuttora in ... buone condizioni di salute. Ed è importante sottolineare che possiede un notevole potere d'attrazione seduttiva, sostenuto e promosso com'è, da una cultura che spinge sempre più nel senso del soggettivismo solipsista, come una tentazione che non risparmia nessuno e, come tutte le tentazioni genuine, è infida e ingannevole, e non si lascia riconoscere come tale ... I talenti personali non sono forse dono di Dio da sfruttare? Di fatto è molto sottile il confine tra uso dei doni personali per il Regno e appropriazione narcisista d'essi. L'equivoco dell'autorealizzazione continua ancora dunque a confondere mente e cuore di chi è chiamato a consacrarsi a Dio, come una strada senza via d'uscita o un sentiero interrotto. È fondamentale nel tempo della formazione iniziale un chiarimento circa il senso dell'identità e l'indicazione d'un cammino che conduca alla certezza d'una identità sostanzialmente e stabilmente positiva2.
4. Modello dell’autoaccettazione
Un modo senz'altro più obiettivo e realistico, rispetto ai modelli precedenti, di considerare il mondo interiore e intrapsichico è quello costituito dal modello che potremmo chiamare della accettazione. Il termine viene dall'ambito psicologico e psicoterapeutico, particolarmente dall'area della psicologia umanista, e sta a dire l'importanza di guardarsi con occhio benevolo, senza le autocondanne del modello della perfezione, che lentamente conducono a una bassa autostima o addirittura al rifiuto di sé, né le frenesie narcisiste del modello dell'autorealizzazione, che finiscono per esser devianti rispetto all'ideale sacerdotale-religioso. Ma la logica di fondo è ancora e sempre quella dell'io che resta dentro il suo mondo, dell'«auto».
4.1.Conoscere la propria realtà e negatività
Più in particolare secondo tale modello tutta la propria realtà interiore (l'io cosiddetto attuale) va anzitutto riconosciuta, dunque identificata anche e soprattutto nella sua componente negativa, quella che non è subito in linea con il corrispettivo io ideale. Riconoscerla vuol dire darle un nome preciso, capire ove si è particolarmente deboli, identificare le aree delle proprie schiavitù e vulnerabilità.
Per tale motivo è evidente l'importanza di questa fase in un cammino autenticamente educativo, ove la prima cosa da fare è, appunto, conoscere le inconsistenze, le aree della personalità particolarmente chiuse all'azione dello Spirito, a livello conscio e inconscio, e ove dunque si deve lavorare, e non limitarsi a... scomunicare e pretendere di distruggere, magari con l'illusione d'esserci riusciti. Ovvio che più precisa è l'identificazione delle proprie debolezze più efficace potrà poi essere il lavoro di purificazione e conversione.
È a questo punto che dovrebbe scattare la seconda fase, quella della accettazione vera e propria. Che forse è più chiara per ciò che non è rispetto a ciò che è.
4.2. Riconoscere la propria creaturalità.
Accettare e accettarsi vuoi dire anzitutto non pretendere di eliminare la propria componente negativa, non presumere di eliminarla con le proprie forze, da un punto di vista credente, e tanto meno ritenere di poter programmare tempi brevi per risolvere ogni problema, al punto di non avvertire più alcun richiamo o stimolo della propria tendenza immatura. Sarebbero tutte aspettative irrealistiche, che mai potrebbero avere riscontro nella realtà.
Il modello dell'accettazione sottolinea l'esigenza di riconoscere nei propri limiti il segno del limite esistenziale, della propria creaturalità, qualcosa che è destinato a rimanere per sempre e che non avrebbe senso combattere con l'intento e la certezza di sradicarlo.
Sul piano più propriamente credente il limite può addirittura essere visto come ciò che consente di recuperare la propria identità, come ciò attraverso cui passa il mistero del proprio io; ma è anche ciò che mi mette in ginocchio e mi «costringe» a supplicare Dio perché abbia pietà di me peccatore; infine il limite mi abilita a vivere e convivere coi limiti altrui, senza mai scandalizzarmi, senza ritenermi superiore a nessuno, senza irrigidirmi e fare il duro di fronte alla debolezza del fratello.
4.3. Rischi e contraddizioni: immobilità e mediocrità
Ma tale modello nasconde anche un rischio, legato fondamentalmente alla chiusura dell'io dentro di sé e a una lettura solo immanente della propria realtà: il rischio che l'accettazione di sé finisca per provocare una sorta di tacito e pratico assenso alla propria negatività, come un'autoassoluzione sempre più pacifica e tranquilla, o quella che la psicologia moderna chiama situazione di egosintonia, ovvero di progressiva autogiustificazione della propria situazione, con parallela perdita della coscienza penitenziale, o col pericolo di perdere senso di colpa e soprattutto coscienza di peccato (pur essendo diverso il limite psicologico da quello morale), con tutto ciò che tale coscienza significa: dolore, amarezza, pentimento, vergogna, proponimento ... D'altronde nessuno si nasconde che proprio questa è la cultura nella quale viviamo, una cultura sempre più appiattita sull'indifferenza etica, che irride addirittura chi in qualche modo si colpevolizza e non crede a chi si pente; (pseudo) cultura che non sa più distinguere il bene dal male né osa più chiedere rinunce e sacrifici per uscire da certe abitudini e correggersi.
Effetto nefasto di tale cultura accomodante e confusionaria sarebbe, infatti, assieme all'atteggiamento egosintonico nei confronti delle proprie debolezze, la perdita anche della motivazione a cambiare, a convertirsi, con conseguente situazione di stallo, di immobilità a livello psichico e spirituale. A che pro cambiare e convertirsi, infatti, se l'obiettivo più o meno implicitamente inteso è l'autoaccettazione, che è tanto più semplice e facile, se ci si sente dire e ripetere che il massimo della vita è «essere se stessi»? Anzi, a volte l'accettazione di sé innesca un processo mentale che va a condizionare persino la coscienza e i suoi giudizi, facendo ritenere lecito o comunque non così grave un certo comportamento.
Conseguenza tanto grave quanto inevitabile, ancorché raramente evidenziata, è la mediocrità. il modello dell'autoaccettazione rassicura e tranquillizza, non provoca né mette salutarmene in crisi; e se diventa punto d'arrivo o implicito modello formativo, in pratica chiude qualsiasi cammino in avanti, mette la persona in condizione d'accontentarsi di quel che è e del punto cui è arrivata, la illude di... esser «se stessa» e la convince che più di così non può, anzi, le fa intendere che sforzarsi potrebbe anche far male alla salute e risultare artificioso ...
È bene ricordare che ancora oggi l'accettazione di sé viene proposta e indicata, da certa psicologia, come la soluzione di tanti problemi, come punto d'arrivo conclusivo, sembra chissà quale scoperta innovativa e strategica; mentre a volte, sul versante spirituale, viene confusa con l'autentica umiltà, con l'abbandono e la consegna di sé nelle mani di Dio.
È importante saper distinguere nel cammino della formazione iniziale l'autentica accettazione di sé. È solo una tappa che apre al coraggio di cambiare e alla prosecuzione del cammino, è in funzione della crescita non della staticità immobile e passiva. E quanto all'umiltà cristiana non ha nulla a che vedere con l'inerzia e la mancanza d'intraprendenza: l'umile è creativo e ingegnoso, soprattutto perché sa in chi confida e su cui può contare.
Se, dunque, il modello della perfezione privilegia l'io ideale col rigore dei suoi obiettivi, mentre il modello dell'autorealizzazione riduce tutto sulla misura delle doti e qualità personali del soggetto, artefice di se stesso, il modello dell'autoaccettazione sembra enfatizzare oltremodo (e rassicurare) l'io attuale senz'alcuna tensione di crescita e conversione, e mostra dunque tutta la sua insufficienza e ambivalenza sul piano formativo.
5. Modello dell’integrazione
Un netto superamento del concetto e della prassi dell'autoaccettazione, come pure degli altri due modelli, è costituito dall'idea dell'integrazione. Da un lato tale concetto esprime l'ulteriore progresso delle scienze umane e della psicoterapia, in particolare, che scopre sempre più la funzione solo strumentale e non finale dell'accettazione di sé, dall'altro manifesta anche la sempre migliore intesa tra queste scienze e le discipline classiche della formazione spirituale, essendo tale idea teologica e psicologica assieme.
L'immagine che in qualche modo potrebbe render l'idea dell'integrazione è quella d'un cerchio o d'un movimento concentrico che ingloba e integra il reale attorno a un punto centrale. La strategia, dunque, dell'integrazione percorre tutt'altra strada rispetto alla perfezione, e va al tempo stesso ben oltre l'obiettivo sia dell'autorealizzazione che dell'autoaccettazione. È la strategia dell'enucleazione, che implica la presenza d'un centro capace di raccogliere attorno a sé la realtà circostante, attirandola e dandole senso, purificandola e arricchendola, dandole nuovo orientamento e valorizzandola al massimo. Integrare è fenomeno complesso che sta a dire una certa varietà di operazioni: completare e dare compimento, attirare, perfezionare, creare unità attorno a un centro, raccogliere o metter insieme, correggere e riorientare... , ma anche illuminare, significare, vitalizzare, riscaldare, rinforzare, cicatrizzare...
Nel caso di una persona in formazione tale nucleo centrale cerca di assumere tutta la complessità del logos, dell'eros e del pathos. La persona che cammina verso l'integrazione cerca di enucleare, partendo da un centro vivo, da un'intuizione di base, da un valore - in ultima analisi - nel quale riconosce il suo io e quel che è chiamata a essere. Non parte con l'idea di abolire niente della propria umanità, semmai si propone di far girare tutti gli impulsi della vita attorno a questo centro vivo come satelliti attorno a un pianeta.
Il suo sforzo, e di sforzo naturalmente si tratta, con la fatica e la rinuncia che implica, sta appunto nell'equilibrare tra loro questi impulsi e di orientarli, dosandoli sempre in vista dell'obiettivo centrale e finale, togliendo progressivamente da essi ciò che non è conforme a tale obiettivo. Non ha paura preconcetta delle passioni, le affronta, o impara ad affrontarle, con naturalezza, se possibile, come parte della sua natura. È come se egli lavorasse su due fronti, al centro e alla periferia: al centro per ritrovare sempre la propria identità in quel punto vitale che ha il potere di attrarre e dare significato a tutto, alla periferia per avvicinare sempre più ogni frammento del suo essere e del suo vivere a questo centro vitale.
Egli dunque non presume di cancellare nulla né s'illude di poterlo fare; anzi, ha motivo di sperare che un po' alla volta la negatività, così accolta e provocata, confrontata e filtrata, perda la sua virulenza e si comporti come una belva addomesticata. D'altro canto sa pure che non può lasciar le cose come stanno, accontentandosi di prendere atto di quel che è e dei propri mali. Egli lavora su di essi, in due fasi, una negativa e di purificazione, l'altra positiva e di scoperta del senso profondo.
5.1. Le due fasi
La prima fase, quella negativa, implica la fatica della rinuncia, del saper dire di no a certe pretese istintuali. Il soggetto deve imparare a contrastarle, perché le sente in rotta con la propria identità e verità interiore, con quello che vuole realizzare e diventare (le sente egoaliene non egosintoniche), le soffre e fa di tutto per mantenerle sotto controllo e non esserne dipendente. Non si riconosce in esse.
Al tempo stesso, o in una seconda fase positiva, coglie in questo contrasto un senso fondamentale della vita e del suo cammino formativo. Ovvero, se ne serve per riconoscere la propria povertà dinanzi a Dio e agli altri, per sperimentare quella misericordia che è all'origine della vita e d'ogni relazione, per non pensarsi migliore di nessuno e saper compatire le altrui infermità, per non prendersi troppo sul serio e liberarsi delle manie narcisiste.
E se nonostante i suoi sforzi ritrova e riconosce ancora dentro di sé la radice del suo male, non solo accetta la sua impotenza, ma vi coglie addirittura una misteriosa presenza della potenza della Grazia. La sua infatti, non è l'accettazione passiva e comoda di chi non conosce alcuna tensione interiore ed è tranquillo nella sua mediocrità, né la rabbia narcisista di chi - ahimé - s'è scoperto debole e povero, ma è l'esperienza grata e intensa di chi ha lottato soprattutto col suo egocentrismo e s'è progressivamente liberato dai suoi sogni (auto) perfezionisti, divenendo sempre più spazio libero per Dio, il tre volte santo finalmente abitabile da Colui che può far grandi cose in chi s'è svuotato del proprio io, il Dio che è onnipotente in chi ha sperimentato la propria impotenza!
A questo punto quella povertà sofferta e combattuta, ora abitata viene integrata, o viene scoperta ricca di senso, da non buttar via assolutamente. Anzi, essa diventa sempre più funzionale a un progetto formativo, ha un'enorme valenza liberante, diviene confronto ineludibile e prova attendibile dell'autenticità del cammino, è come una presenza costante che sta a ricordare qualcosa che non può mai in nessun modo esser dimenticato o messo tra parentesi. Quando quel giovane ora in formazione un domani sarà apostolo, annuncerà il vangelo della misericordia non come un dottore della legge, o un superman dello spirito che ha solo da insegnare agli altri, ma come un «guaritore ferito», con la consapevolezza piena e sofferta della sua debolezza, con la forza convincente di chi ha sperimentato su di sé la grandezza e abbondanza del perdono, segno d'un amore che lo ha preceduto e prediletto, e per fortuna non commisurato ai suoi meriti. Sarà come un'integrazione continua, in un processo di formazione permanente, il cui punto d'arrivo è l'atteggiamento di Paolo che si vanta delle proprie debolezze (cf. 2 Cor 12,10).
5.2. I due dinamismi
Ma non solo: l'energia accettata e progressivamente liberata rinforza il polo positivo, oggetto dell'intenzionalità conscia. È un movimento duplice: dal centro alla periferia e dalla periferia al centro. Grazie a questo reciproco dinamismo, l'ancoraggio al valore terminale e trascendente rende il soggetto libero di accogliere le altre dimensioni del suo essere, la vitalità che ne riceve diventa mezzo e strumento per vivere più intensamente la passione centrale della sua vita.
Il risultato è il profilo d'un santo, uomo integrato, padrone delle sue energie perché ha faticosamente imparato a tenerle in qualche modo tutte per le redini; capace di tenerezza e di gesti profondamente umani perché non è stato irrigidito dalla razionalità e dal controllo, né è stato deviato da sottili narcisismi e da quelle presunzioni di sufficienza perfezionistica che irridono tutto ciò che è emotivo; capace di desiderare il bene e di lasciarsi attrarre da esso perché non ha ucciso i suoi desideri e la sua capacità di voler bene, magari per la paura di non saper più abbastanza controllare la parte "inferiore" di sé; libero di dare e di ricevere, di amare e di essere amato, di scegliere e rinunciare; di mistica e di ascetica.
Per arrivare a questa integrazione, che non è data in dono a nessuno, né è frutto di una sintesi semplicemente teorica, bisogna saper riconoscere e esperimentare gli angeli e i demoni che convivono nella nostra vita. L'integrazione è il frutto di avanzate e ritirate, di ascese e di cadute, di rinunce e di recuperi, fino al punto di cristallizzarsi in un centro forte che tutto attrae e armonizza. Quando il santo si ritiene peccatore molto vile, indegno della salvezza e di Dio, dice la verità, perché parla della dimensione delle ombre, di quei meandri sinistri nei quali abitano incatenati i nostri demoni.
In un progetto di santità che tiene conto realisticamente di un certo modello antropologico, in cui l'uomo non è santo né peccatore (ma entrambe le cose), essi sono incatenati, ma non morti e bisogna continuamente integrarli perché la loro forza non sconvolga l'equilibrio di chi è in formazione, ma l'aiuti a crescere in direzione della terra promessa, e cioè della sua propria identità, come Dio lo vuole3.
5.3. La centralità polare della croce
L'elemento decisivo, in un progetto formativo che s'ispira al modello dell'integrazione, è costituito evidentemente dal polo centrale, da quel valore, idea, esperienza, convinzione che il soggetto ha interiorizzato e sta facendo sempre più suo e al quale, al tempo stesso, ispira la sua condotta e le sue aspirazioni, come fosse perno e fulcro della sua vita.
Da un lato è ciò che la sostiene e la fortifica, ma dall'altro è anche ciò che lo provoca come un costante punto di riferimento, un permanente criterio di discernimento, un denominatore comune che in qualche modo contiene ed esprime le varie dimensioni del vivere da presbitero o consacrato, ma che ha anche bisogno di ogni dimensione del vivere umano.
In concreto è la persona del Figlio, il suo mistero di morte e resurrezione, la sua pasqua, i suoi sentimenti, come abbiamo già indicato, il suo cuore di Servo e di Buon Pastore. Questo riferimento teologico-spirituale è anche il polo nevralgico che funziona da elemento integratore, e che dovrebbe essere il cuore stesso della vita sacerdotale e consacrata, il suo centro vitale, ciò che l'anima è ne costituisce l'identità e che è indispensabile non solo riscoprire e proporre con chiarezza nella formazione iniziale, ma anche articolare pedagogicamente come polo di attrazione e trazione psichica.
In altre parole, il processo d'integrazione psichica può realizzarsi solo attorno a quanto è già stato posto, almeno teoricamente, al centro della vita cristiana e dell'identità della vita consacrata e sacerdotale, che è appunto il Cristo, perché così è piaciuto al Padre-Dio, fare di Cristo «il cuore del mondo, il centro non solo del cosmo, ma della vita d'ogni vivente, perché in lui ci ha scelti, benedetti, predestinati, redenti, ricapitolando in lui tutte le cose, rappacificando ogni realtà col sangue della sua croce» (cf. Ef 1,3-10; Col 1 ,15-20); poiché il Verbo s'è incarnato non «per abolire, ma per dare compimento... », perché «tutto sia compiuto» (Mt 5,17-18).
A questa centralità teologica di Cristo deve corrispondere sempre più una centralità, per così dire, psicologica o psicopedagogica, che poi non è altro che quel processo di «ricapitolazione» e «rappacificazione» di cui parla Paolo, operazione complessa, che parte da lontano e che non può non durare tutta la vita, ma che può e deve necessariamente cominciare dalla formazione iniziale.
Si tratterà allora di porre davvero la croce al centro della vita del giovane, quasi di piantargliela in cuore, perché scopra progressivamente come solo la croce del Figlio, quale segno dell'amore più grande, innalzato da terra perché possa dare senso a tutto, davvero a tutto, al passato e al presente, al limite personale e alla debolezza, all'impotenza e al peccato, alla vita e alla morte, alla sofferenza e all'amore, alla sua scelta vocazionale e a ogni scelta di vita; poiché solo la pasqua del Signore può trasformare il male in bene, l'assurdo in sensato, l'offesa ricevuta in purificazione radicale, la malattia in partecipazione responsabile alla salvezza, la morte in vita.
Solo l'amore espresso dalla croce può giudicare la storia personale e orientare l'amore, formare la coscienza e illuminare gli occhi della mente, portare a galla ciò che è inconscio e inconfessato, ferire e sanare, scoprire l'autentico mistero della sessualità e darli ordine, dirne natura e ricchezza, svelare illusioni e trucchi, difese e reticenze dell'egoismo umano, rivelare che l'amore ha le stigmate e se non ce l'ha non è vero amore ... La croce è la verità della vita4.
Per questo attira («Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me», Gv 12,32, tutti e tutto), per questo ricompone e ricongiunge ciò che era diviso, arido e disperso e ogni frammento di vita e d'umanità (cf. Ez 37,1-15); «nulla si sottrae al suo calore» (Sal 18), poiché la croce è quel centro vivo e caldo attorno al quale il giovane deve progressivamente imparare a far girare la sua vita, impulsi, limiti, sentimenti, istinti, desideri, progetti, passioni, sogni, relazioni, ecc ..
Essa è quell'icona che lo sguardo del giovane in formazione deve continuare a fissare lungo il cammino formativo (cf. Gv 19,37), come gli Ebrei nel deserto.
P. Amedeo Cencini fdcc *
* Docente dell'Università Pontificia Salesiana.
Note
1) Cf. L. BOFF, Francesco d'Assisi. Una alternativa umana e cristiana, Cittadella, Assisi 1982, p. 192 [...].
2) Cf. L. BOFF, Francesco d'Assisi. Una alternativa umana e cristiana, Cittadella, Assisi 1982, p. 192 [...].
3) Cf. Ibidem, 192-193. Il modello integrativo è sostanzialmente l'idea di fondo del volume di F. Imoda, Sviluppo umano. Psicologia e mistero, Piemme, Casale Monferrato 1993.
4) Cf. A. CENCINI, La croce, verità della vita, Milano 2001.
(da Vita Nostra)