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Venerdì, 15 Marzo 2013 14:30

Papa Francesco: elementi di "rottura" di un’elezione (Faustino Ferrari)

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Non so se ci si renda pienamente conto della forza di rottura che questa elezione rappresenta...

Non so se ci si renda pienamente conto della forza di rottura che questa elezione rappresenta. Mi sembra che si debba parlare di una vera e propria rottura. Un segno di discontinuità...

In questo ultimo mese, trascorso tra le dimissioni di Benedetto XVI e l’elezione del nuovo papa, varie volte ho cercato di chiedermi cosa avrebbe potuto dire il fatto di avere finalmente un papa che scegliesse per sé il nome di Francesco. Sì, anch’io come tanti altri, ho desiderato e sognato ad occhi aperti che fosse scelto un tale nome. Anche se, in un certo senso, ero rassegnato a sentir annunciare uno dei soliti nomi: un Pio XIII o un Paolo VII o un nuovo Giovanni Paolo. Perché i sogni diurni sono importanti per la nostra vita, ma non bisogna lasciarsi prendere troppo da essi, per evitare poi le disillusioni del risveglio, le tragiche e dolorose conseguenze di quando si è sognato ad occhi aperti troppo e troppo a lungo.

Non so se ci si renda pienamente conto della forza di rottura che questa elezione rappresenta. Mi sembra che si debba parlare di una vera e propria rottura. Un segno di discontinuità [1], ove non pare più che sia trascorso un mese soltanto, ma anni – forse diversi decenni, di quei due secoli di distanza della Chiesa dal mondo attuale di cui parlava il card. Carlo Maria Martini in uno dei suoi ultimi interventi.

Sicuramente, tra gli elettori di papa Francesco ci sono stati coloro che hanno espresso un voto di sfiducia nei confronti dell’operato della curia vaticana di questi ultimi vent’anni. Altri, forse, hanno pensato gattopardescamente, che si trattava di cambiare molto per cercare di non cambiare. Questi ultimi, di certo, si pentiranno nei prossimi giorni o si sono già pentiti. Altri ancora, sono stati attenti agli equilibri geopolitici o alle alchimie di rappresentatività di correnti di potere. Ma le vie umane, per quanto tortuose, s’infrangono di fronte al novum evangelico. Per questo anche negli avvenimenti umani possiamo leggere il segno e l’azione di Dio, la grazia dello Spirito.

Tratti di una rottura che finora mi sembra di non aver trovato sottolineati esplicitamente da altri. Il primo di questi elementi lo vedo nel linguaggio. Ho avvertito l’uso di un linguaggio attento alla comprensione della gente comune, anche nella prima omelia tenuta al collegio dei cardinali elettori. Non le grandi disquisizioni teologiche e dottrinali, ma la semplicità e l’essenzialità del messaggio evangelico. Non lo sforzo di riconquistare le intellighenzie sul piano di una razionalità accettabile, ma l’invito a vivere e a testimoniare un’esperienza di fede coerente.

Per decenni ci si è lamentati che i documenti ecclesiali erano tanti, erano troppi. Ben strutturati da un punto di vista teologico e redazionale. Belli, interessanti, ma, molto spesso, difficili. Documenti letti da ben pochi. E ripetuti, poiché composti anche di centoni di citazioni di documenti precedenti. Non lo possiamo nascondere: la maggior parte dei fedeli non ha avuto accesso a questi documenti. Non ne era o non si sentiva interessata. Magari ne ha sentito parlare o poco più. A cosa sono serviti tutti questi materiali? Non lo so. Non lo so perché erano redatti in un linguaggio per pochi eletti. E non sono stati un nutrimento sufficiente per i più. È duro dover ammettere ciò. Ma mi sembra di aver percepito una diversa modulazione nella prima omelia a braccio di papa Francesco [2]. Omelia semplice nella sua chiarezza, nella sua brevità e nel suo ripetere tre semplici verbi: camminare, edificare, confessare. Verbi! [3] Anche la scelta delle parole e delle forme (verbali) ha la sua importanza… Perché il linguaggio diventa lo strumento per comunicare non solo uno stile di vita, ma una visione del mondo.

Credo che la priorità ora non verrà data ad un linguaggio teologico argomentativo, dichiarativo e speculativo, ma ad un discorso dal tratto chiaramente narrativo. Perché questa è una delle novità e delle ricchezze che ci portano le chiese non europee con la propria esperienza di fede.

Un secondo tratto di questa rottura è rappresentato dal fatto che papa Francesco è un religioso. Si è sottolineato che è il primo gesuita eletto papa. Mi sembra più notevole ricordare che da quasi duecento anni la Chiesa cattolica non abbia avuto un papa proveniente da un ordine religioso. I precedenti papi sono sempre stati scelti tra il clero secolare: uomini di curia o, ma in grado molto minore, provenienti dalle diocesi. È come se per due secoli la Chiesa cattolica non abbia saputo tenere presente di questa sua feconda risorsa al proprio interno. E nonostante il Concilio Vaticano II, i religiosi (e le religiose) sono rimasti ai margini (con le dovute eccezioni, poiché è innegabile che alcuni ordini, soprattutto di fondazione recente, hanno sostenuto l’occupazione di alcuni posti di prestigio e di potere). Ai margini, da una parte volutamente (la vita religiosa è di per sé marginale: in questo sta una delle proprie peculiarità [4]) e dall’altra, volutamente tenuti/e (il clero diocesano sembra spesso mostrare un certo timore nei confronti della radicalità ed alterità della vita religiosa). È vero che in curia lavorano molti religiosi… Ma paiono, a volte, avere dimenticato la propria particolarità, in quanto il tratto che li distingue sembra appiattirsi su quello del clero secolare.

In un certo senso, le dimissioni di Benedetto XVI possono essere lette anche come il fallimento di un modello sacerdotale! Un modello che s’aggira ancora nei paraggi del dover essere. L’indizione di un anno sacerdotale non è stata sufficiente. Si tratta di ripensare a fondo questo modello. In questo periodo di crisi, di fronte a questo fallimento, non a caso, a mio modesto parere, ci si orienta verso un modello altro, rappresentato dalla vita religiosa – gesuitica e francescana, in una miscela molto particolare.

Un ulteriore tratto di rottura, a mio avviso, si ha a livello di centro e periferia. Mentre dal Concilio in poi c’è stato un correre verso il centro (soprattutto da parte di quanti volevano occupare i posti più strategici o salvare la chiesa dalle derive del modernismo conciliare [sic!]) e, al tempo stesso, la scelta deliberata di soggiornare nelle periferie (ciò che hanno fatto gli/le appartenenti di molti ordini religiosi, ma anche persone come il card. Léger), ora la periferia diventa il centro! Non soltanto perché si tratta di un uomo che viene dal sud del mondo – “quasi dalla fine del mondo[5], ma perché sono il suo stile pastorale, la sua prossimità con i poveri, il suo vivere la strada ed incontrare sulla strada la gente che entrano nelle sacre stanze del palazzo. Quanti erano corsi verso il centro ora si ritroveranno spiazzati, decentrati. E le periferie, emarginate troppo a lungo, potranno tornare ad essere il centro vitale della Chiesa. Viene da ricordare la suggestione evangelica: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele…(Mt 2,6).

Chi vive al centro, tende a pensare in piccolo. Ritiene di avere la conoscenza dell’intero a partire dal proprio mondo. Si corre il rischio di un grande abbaglio. L’esperienza della Chiesa si mostra essere più ricca, vivace ed interessante di quanto possiamo noi vedere dalla nostra vecchia Europa, attraverso la nostra stanchezza ed i nostri smarrimenti. Questi erano gli occhiali che si volevano continuare a mantenere per la Chiesa cattolica: vedere il mondo con occhi stanchi, delusi, affaticati. Chi ritiene che i pontificali debbano essere replicati in ogni angolo della terra – perché così vuole il rito – non riesce a capire che l’esperienza di fede può essere celebrata in maniere diverse. Correrà a tentare di correggere ciò che gli sembrano gravi errori, senza rendersi conto che, probabilmente, l’esperienza di fede viene celebrata e vissuta con maggior coerenza ed impegno di tante sue liturgie perfette (perfette dal punto di vista formale, naturalmente).

Anche la periferia ha una visione parziale, indubbiamente. Ma essa, in genere, resta consapevole dei propri limiti. Non si prende eccessivamente sul serio. È disposta ad imparare dalle altre esperienze che la possono arricchire. Deve fare i conti con l’essenziale, quotidianamente. Non può permettersi il lusso del superfluo o della mondanità. Resta ancorata alla realtà, alle gioie e alle speranze, alle angosce ed alle paure che attraversano la sua quotidianità. In periferia non si respira l’aria mefitica del centro, asfissiato da tanto turbinare su se stessi. Ci si sente ancora in relazione con la natura, con il creato…

Un’altra esperienza ecclesiale è possibile. Pure questo è un tratto di rottura. Con il pontificato di Benedetto XVI sembravano due le strade da percorrere: a) quella intellettuale e razionale, per dialogare con la svigorita cultura occidentale (europea, tedesca e anglosassone in particolare); b) quella del ritorno all’antica liturgia. Ma si trattava di un ritorno formale, estetico, scenografico. Caro a tanti personaggi della curia, ma distante dai fedeli e dal cuore della gente (fatto salvo uno sparuto, agguerrito e belligerante drappello di nostalgici). Un ritorno cui mancava il tratto essenziale: la dimensione più spirituale (anche perché una vera e profonda spiritualità non si cura degli aspetti formali, va all’essenziale, subito). Ora, mi sembra, vita e fede ritornano ad essere proposte tra loro strettamente legate. Non per esercizio intellettuale, ma attraverso l’azione pastorale e l’esperienza vissuta. Prima che capire è un sentire cum corde. Quindi, è possibile costruire e fare parte di una chiesa diversa. Una chiesa che è innanzitutto fatta di persone, ove la comunità diventa il centro e l’attenzione non è più posta sulla ritualità. Ove il tratto distintivo è la misericordia. Il sentire con il cuore, non a livello intellettuale, ma nella dimensione e a livello di chi è nell’angustia, nella pena, nel dolore, nella miseria. Sì, siamo di fronte ad un’altra rottura: al centro tornano la comunità, il popolo di Dio. Non la curia, non le rubriche, non i paramenti, non i pur storici ed antichi ornamenti…

La forza della debolezza. Chi non ha ricercato il potere, ora si ritrova là ove in tanti hanno sgomitato per arrivarci. I potenti uomini della curia romana in questo ultimo mese ne sono usciti con le ossa rotte. Prima le dimissioni di Benedetto XVI, con la consegna che il potere, anche quello massimo, non è tutto! Ed ora l’elezione di un papa che sceglie di chiamarsi Francesco. Due sonore legnate per chi abbia la volontà di fare i conti con la propria coscienza. Ma due batoste ancor più pesanti per coloro che, se ce ne fossero, non vogliono fare i conti con la propria coscienza. Richiesta di obbedienza ed autorità in questi anni sono stati usati troppo spesso per avvallare (o favorire) il potere di alcuni. Potere personale – anticristico – esercitato con caparbietà, non in vista di un bene comune o per la crescita delle persone e delle comunità, ma per mantenere uno status quo o per cercare di nascondere le magagne che si riteneva avrebbero messo in cattiva luce le istituzioni ecclesiastiche. Ora, la debolezza mostra, evangelicamente, tutta la sua forza.

La necessità di un nuovo concilio. Sì, questa elezione rappresenta anche il bisogno di un nuovo concilio. Il Vaticano II è stato soprattutto un concilio della teologia europea e per le chiese europee. Il concilio delle grandi scuole teologiche tedesche e francesi. In un certo senso, possiamo dire che è stato un periodo – grande, fecondo e contraddittorio – che si è emblematicamente chiuso con le dimissioni di Benedetto XVI. Il Concilio Vaticano II si era confrontato con problemi cari ed urgenti per queste teologie e, in particolare, con la modernità. Ma ai primi positivi approcci sono ben presto subentrate le difficoltà, le paure e le tentazioni di autoreferenzialità. La Chiesa ha iniziato a richiudersi su se stessa.

Ora, la Chiesa cattolica che, per la prima volta, ha la percezione effettiva di essere diventata globale, ha di fronte la necessità di un nuovo concilio. Non perché nutre la necessità di confrontarsi con alcuni problemi contingenti, ma perché ha bisogno di ripensarsi come chiesa veramente cattolica, universale. Nelle tante periferie, in questi decenni, sono state elaborate altre teologie, che stanno dando i loro frutti, spesso in maniera inaspettata, ricca, varia. Anche se papa Francesco non indirà un concilio, esso si staglia ora all’orizzonte come necessaria prossima tappa per la Chiesa.

Intravedo un altro tratto di rottura, ma è precoce parlarne. Cerco di indicarlo, tuttavia, con il termine ecclesiogenesi. L’ecclesiologia nasce dall’esperienza di fede e di vita. Non ripudia i trattati e i discorsi fondanti, ma il punto di partenza è diverso: è la comunità, è il popolo di Dio. Nel suo camminare con il Cristo. Vedremo come questo si espliciterà, nell’esercizio della collegialità, ma anche nel fin troppo dimenticato sensus fidelium. Non solo più una comunità ecclesiale relegata ad essere la quae audit di un Magistero e la spectatrix di liturgie tenute in pompa magna, ma popolo di Dio orans, che celebra e prega la propria vita e la propria fede e testimonia nella charitas.

Mi piace concludere queste riflessioni a caldo con un immagine: quella del vento. La sottile brezza che spira e che si percepisce nel mormorio del silenzio e le vigorose folate che neppure le maestose navate di una cattedrale possono trattenere. Il vento che trascina con sé la tempesta, ma pure libera il cielo dalle nubi e dal cattivo tempo. Il vento, che soffia dove vuole… Ma quanto spazio lasceremo allo Spirito per scompigliare i nostri giorni ed i nostri cuori?

Faustino Ferrari

Note

[1] Si tratta di un termine che a molti non piace, soprattutto in ambito ecclesiale, ma lo uso qui nel senso scientifico della fisica, quale variazione brusca, nello spazio o nel tempo e non nel significato di contrapposizione alla continuità.

[2] Sarebbe interessante sapere che cosa c’era scritto nell’omelia preparata in latino – che, probabilmente, non sarà nemmeno pubblicata.

[3] Sono in tanti coloro che auspicano, nella nostra cultura, il ritorno ad un uso più creativo dei verbi nel nostro linguaggio. Come, d’altra parte, c’è chi fa osservare la fecondità spirituale di una lettura incentrata sui verbi che compaiono nel testo biblico.

[4] Non è questo il contesto per giustificare questa affermazione che richiederebbe un approfondimento che va ben oltre i limiti del presente intervento.

[5] Quanto è carica di simbolismo questa frase! L’Occidente, che è così preoccupato del suo tramonto, del suo occasum, sta dimenticando che oltre Finisterre c’è un Nuovo Mondo per quanti sono disposti a salpare e a mettersi in viaggio. Perché la vita è sempre viaggio, è sempre cammino…

 

Letto 6715 volte Ultima modifica il Domenica, 15 Gennaio 2017 20:58
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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