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Mercoledì, 14 Marzo 2007 16:38

IL PRIMATE ANGLICANO E LO SCONTRO DI CIVILTÀ

IL PRIMATE ANGLICANO E LO SCONTRO DI CIVILTÀ

Il 23 dicembre il Times di Londra ha pubblicato un intervento dell’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, primate della Comunione anglicana, molto critico verso l’intervento armato in Iraq e, più in generale, verso la politica bellicista perseguita in questi anni dall’amministrazione americana e dal governo inglese. Williams era appena tornato da un pellegrinaggio in Terra Santa, svoltosi dal 20 al 23 dicembre appunto, insieme all’arcivescovo di Westminster, il cardinale Cormac Murphy-O’Connor, al primate della Comunione armena in Gran Bretagna, Nathan Hovhannisian e al reverendo David Coffey, moderatore delle Free Churches. I pellegrini si sono recati a Gerusalemme, dove hanno incontrato i rappresentanti delle 13 Chiese e comunità cristiane della città, ospiti del patriarca greco ortodosso Teofilo. Infine, si sono recati a Betlemme, presso la grotta della Natività, dove hanno preso parte a una celebrazione ecumenica. Di seguito pubblichiamo ampi brani dell’articolo apparso sul Times.

Queste comunità potranno sopravvivere solo se i loro fratelli cristiani in Occidente si decideranno a prestare loro un po’ di attenzione.
E questo non significa che il ricorso a rozze pressioni politiche e militari per “proteggerle”, con modalità che servirebbero solo a rafforzare l’idea che siano alleate dell’Occidente e, pertanto, necessariamente inaffidabili.

Nei frenetici giorni immediatamente precedenti la guerra in Iraq, qualcuno aveva spesso profeticamente avvertito, per essere sistematicamente ignorato, che l’intervento militare occidentale – se condotto in quel momento e con quelle modalità – avrebbe messo a rischio le popolazioni cristiane dell’intero Medio Oriente, perché sarebbero state considerate simpatizzanti di un Occidente impegnato in una crociata. E ci si era chiesti se non fosse per lo meno il caso di avere una strategia per poter gestire tale eventualità.
Ebbene, non c’è mai stata alcuna strategia. E le conseguenze vanno ora dolorosamente ad aggiungersi alla già difficile situazione delle comunità cristiane di tutta la regione. La popolazione cristiana dell’Iraq continua a ridursi di migliaia di unità ogni due mesi e alcuni tra i suoi capi più validi sono stati costretti a lasciare il Paese. A Istanbul la popolazione ortodossa è un minuscolo resto e una parte della stampa turca ha fatto sapere al loro Patriarca che è ormai giunto per lui il momento di andarsene. In Egitto, dove le relazioni tra cristiani e musulmani sono da sempre – e continuano a essere – intense e buone, gli attacchi condotti da integralisti contro i cristiani si sono fatti considerevolmente più frequenti.

 Oltre a dover cercare asilo, cosa già di per sé ardua, non è raro per le famiglie arabe cristiane, che cercano rifugio nel Regno Unito, vedere i propri figli considerati a scuola “senza dubbio musulmani” e, quindi, messi insieme ai bambini musulmani a svolgere attività speciali. Questo a semplice riprova della totale disinformazione esistente nel Regno Unito, a partire dalle autorità governative, sui cristiani mediorientali.

Eppure per secoli quei cristiani hanno avuto una parte fondamentale praticamente in tutte quelle nazioni oggi considerate uniformemente musulmane – persino in Iran. Sono da sempre serviti a ricordare, tanto al mondo arabo quanto a quello occidentale, che “arabo” e “musulmano” non sono la stessa cosa e che le nazioni musulmane vantano una tradizione di rapporti amichevoli con i cristiani, loro vicini di casa. La migrazione delle popolazioni cristiane, invece, non fa altro che alimentare il mito, in Oriente come in Occidente, che l’islam non possa convivere con altre fedi e che lo scontro tra Oriente e Occidente rappresenti uno scontro insanabile tra fedi e culture.

Eppure le popolazioni cristiane potrebbero davvero rappresentare una parte della soluzione. In Libano, nel corso del conflitto della scorsa estate, sono state le comunità cristiane ad avanzare le proposte che potevano meglio assicurare una pace duratura, e sono stati i piani di pace elaborati dalla Chiesa maronita a essere ampiamente riconosciuti come la proposta più realistica nella ricerca di una pace tra le fazioni libanesi in guerra.

Certo, le comunità cristiane non possono vantare una storia priva di colpe nella regione, ma nell’attuale clima hanno qualcosa di significativo da dire: agli occidentali dicono di ricordare che il cristianesimo non ha avuto inizio in Inghilterra e nemmeno a Roma, ma che è una fede mediorientale; al mondo musulmano di ricordare che l’islam non avrebbe conosciuto la diffusione che ha avuto, se  il terreno non fosse stato preparato – così come il Corano stesso dice – da altre religioni locali, dai cristiani e dagli ebrei della regione, e che esistono modi di essere autenticamente arabi, non occidentali, senza dover per forza essere musulmani.

Queste comunità potranno sopravvivere solo se i loro fratelli cristiani in Occidente si decideranno a prestare loro un po’ di attenzione. Questo non significa il ricorso a rozze pressioni politiche e militari per “proteggerle”, con modalità che andrebbero solo a rafforzare l’idea che siano alleate dell’Occidente e, pertanto, necessariamente inaffidabili. È accaduto troppo spesso nel passato. Significa, invece, essere pronti e disposti a protestare quando sono soggette a soprusi; mettersi direttamente in contatto con loro, creare connessioni tra le Chiese locali qui e in Medio Oriente; ricordare, quando si va a visitare quella regione, che esistono e che hanno bisogno di amici. [...]

Far sentire la nostra voce a nome delle antiche comunità cristiane del Medio Oriente ed essere loro amici è un bene sia per loro che per i musulmani, poiché serve a ricordare che in molte parti del Medio Oriente, e per lunghi tratti della sua complessa storia, tra le fedi esistevano rapporti più sani e responsabili.

Come si avverte in modo più intenso in Terra Santa. Ho trascorso gli ultimi due giorni con i capi cristiani di Betlemme, che hanno visto la popolazione cristiana ridursi a nemmeno un quarto. In parte della popolazione musulmana si notano segnali allarmanti di un sentimento anticristiano, nonostante le salde tradizioni di convivenza. E la situazione è resa ancor più intollerabile dalle tragiche condizioni create dal “muro di sicurezza” – che quasi soffoca la città ormai sempre più piccola –, dalla tragedia della povertà, dal vertiginoso livello di disoccupazione e dalle semplici difficoltà di ordine pratico per riuscire ad andare a scuola, al lavoro o in ospedale. Questo senso di disperato isolamento viene avvertito più acutamente dai cristiani rispetto alla maggior parte della popolazione.

Una volta i cristiani erano ampiamente rappresentati nelle classi di professionisti e meglio istruite, oggi molti sentono di non aver altra scelta che andar via. Un amico palestinese di fede cristiana mi ha detto che non avrebbe mai immaginato che persone come loro si sarebbero trovate ridotte a patire la fame, a non avere un lavoro, a dover affrontare violenze quotidiane. Alcuni tra quelli che potrebbero offrire un notevolissimo contributo per rendere la società palestinese più solida e più democratica sentono di non avere futuro in Terra Santa: per gli zeloti di una parte i cristiani rappresentano dei potenziali terroristi; per gli zeloti dell’altra possono essere considerati degli infedeli. E purtroppo sono gli zeloti a dirigere i giochi.

I primi fedeli cristiani furono mediorientali. Fa veramente riflettere l’idea che noi potremmo essere gli ultimi a vedere gli ultimi fedeli cristiani originari di quella regione. [...]

Questo Natale pregate per la piccola città di Betlemme, e riservate un pensiero a quanti sono stati messi in una così grave situazione di pericolo a causa della nostra miopia e ignoranza; e chiedetevi cosa sia possibile fare a livello locale per risollevare queste coraggiose e antiche Chiese

di Rowan Williams
30 Giorni n. 12 dicembre 2006

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Mercoledì, 14 Marzo 2007 16:31

IL CORAGGIO DELLA PENTECOSTE

IL CORAGGIO DELLA PENTECOSTE
Una teologia che parte dall’ascolto in una Chiesa sempre più partecipativa e laicale. Una religione che rifiuta ogni forma di fondamentalismo per rispondere alle esigenze dell’oggi. Piste per una “Spiritualità di un altro mondo possibile”.

Il Forum sociale mondiale, che si è tenuto a Nairobi lo scorso gennaio, è stato come la punta degli iceberg; si vede solo la cima e non i corposi tre quarti del ghiaccio sott’acqua. Lo stesso vale per il Forum sociale. I cinque giorni in cui si è svolto l’evento non rendono giustizia al lunghissimo processo di preparazione, sia nella nazione ospitante sia negli altri continenti da dove i partecipanti provengono. Per poter presentare l’esperienza del servizio sociale che un gruppo intende condividere al Forum in forma narrativa, per scritto, fotografie, striscioni, proclami, cd, dvd è necessario un estenuante lavoro di concettualizzazione, di visualizzazione e di rifinitura del linguaggio. Tutto ciò arricchisce i partecipanti al Forum, ma prima di tutto chi prepara il materiale.
Quelli che criticano il Social forum perché le conseguenze sono irrilevanti, oppure sostenendo che i soldi dovrebbero essere spesi in modo diverso, non sono ovviamente in sintonia con quello che Paolo Freire chiama il circolo della prassi: cioè l’azione deve essere seguita dalla riflessione, per poter essere arricchita e purificata e crescere in incidenza e perfezionata a livello metodologico. I partecipanti al Forum sono in grandissima parte coinvolti in migliaia di iniziative. La loro principale difficoltà è proprio trovare il tempo di riflessione e condivisione con altri che affrontano le stesse sfide in diverse nazioni e continenti. Il Forum offre l’occasione sia per la riflessione sia per la condivisione e lo scambio.

Sono stato testimone del processo di preparazione di uno dei frutti del Social forum: il Forum teologico organizzato per la prima volta a Porto Alegre nel 2005 e nel 2007 a Nairobi, dal 16 al 19 gennaio. Durante i 12 mesi di preparazione ho visto una vera evoluzione fra i teologi cattolici e protestanti, uomini e donne coinvolti nel processo, che muovono verso una teologia molto più vicina alla gente, sia per gli argomenti sia per il linguaggio. Ritengo che questa sia una delle conseguenze maggiormente positive del Forum sociale, a cui forse nessuno ha mai prestato attenzione: una decisa influenza sulla teologia, rimasta per secoli anchilosata, elitaria e prigioniera delle biblioteche

Verso una teologia popolare e dinamica
Il tema del Forum teologico era: Spiritualità per un altro mondo possibile. A Porto Alegre la gente aveva protestato perché questo Forum era stato un fenomeno di élite, per addetti ai lavori, dove il gergo era da iniziati e quindi lontano dalla spontaneità e condivisione accessibile a tutti, che costituisce la caratteristica basilare del Forum sociale. I teologi si erano riuniti due giorni prima a porte chiuse, nella loro qualità di “esperti”. Lo stile era più simile al Forum economico mondiale dei magnati della finanza a Davos, in Svizzera, che al Forum mondiale sociale.

Tale metodologia è chiamata da Freire “metodo del distributore di benzina”. Il teologo è il benzinaio con tutto lo scibile e il popolo è il serbatoio vuoto. Il teologo fa da benzinaio versando nella gente la sua benzina. L’insegnamento, in tale visione, è solo l’atto di versare in persone passive, quindi è un insegnamento manipolativo e generatore di dipendenza intellettuale e operativa. La gente è passiva e quindi manipolabile; è vista come ignorante, come un perfetto “nessuno”, solo oggetto di attenzione e non soggetto di pensiero e decisione. Il popolo è considerato incapace di andare al di là del lavoro manuale, mentre chi conosce è il maestro! Il mondo della teologia, soprattutto quella insegnata nei seminari per futuri preti, è molto infetta da tale approccio, che contraddice la logica del Forum sociale, partendo dal presupposto che la gente ha conoscenza ed energie enormi, mentre ciò che spesso manca è l’occasione di manifestarle ed esprimerle.

Alla luce di questa visione, veramente rivoluzionaria in una Chiesa ancora molto verticista e sproporzionatamente gerarchica, il popolo di Porto Alegre (Social forum, 2005) criticò i teologi, suggerendo che il loro incontro avrebbe dovuto precedere il Forum sociale a Nairobi e avrebbe dovuto operare con la logica del Social forum, mettendo quindi al centro la gente, con il riconoscimento della sua esperienza di vita, di sofferenza, di fede, che devono essere verbalizzate ed espresse alla stregua di una grande ricchezza teologica. Fu implicito l’invito ai teologi a ripensare e ridefinire la loro identità in un mondo che diventa

Da “maestro” a “facilitatore”
Qual è l’emergente identità del teologo in questa nuova prospettiva? Viene in mente un detto di Mao Tse Tung sul maestro: «Il maestro è colui che restituisce al popolo in modo sistematico e operativo ciò che il popolo stesso gli ha comunicato in modo sperimentale e confuso». Quindi, l’enfasi è prima di tutto sull’ascolto, sul lasciar parlare la gente, sull’aiutare il popolo a testimoniare l’esperienza, i sogni, le attese, le paure, le frustrazioni, le speranze, le sofferenze. Il maestro deve scendere dalla cattedra e farsi alunno.

Si tratta di una vera conversione, molto difficile da “digerire” ai molti che considerano il titolo “professore”, “maestro”, “dottore”, come status e prestigio costruito con sudore durante gli anni dell’università e la gavetta dell’inizio. Una concezione complessa e plurima di cui, tuttavia, non tutti sono convinti. Durante il processo di preparazione del Forum teologico, tale atteggiamento è stato oggetto di non pochi dibattiti e tensioni. All’inizio si pensò a un classico congresso a numero chiuso, destinato ai soli teologi. Poi, il messaggio di Porto Alegre è rimbalzato come una sfida, che non poteva essere ignorata. Poi, la crescente esposizione agli obiettivi e soprattutto alla logica e metodologia del Social forum cominciava a fare presa sul comitato organizzativo.

Solo gradualmente, interagendo, informandosi di più su che cosa fosse il Social forum, includendo gente che vi aveva partecipato fin dall’inizio, interagendo pure con l’ideatore del Social forum mondiale, Chico Whitaker, ci si è resi conto che anche il convegno teologico avrebbe dovuto entrare nella logica del Social forum, staccandosi, quindi, dal modello delle solite conferenze dove la gente, al massimo, può fare qualche obiezione; quindi si è riformulata una metodologia, in cui la maggior parte del tempo sarebbe stata destinata ai gruppi “sotto le tende”; dove i partecipanti, divisi in gruppi di esperienze e di interesse, condividono la loro vita e i teologi sono presenti in mezzo alla gente, per dare un contributo di organizzazione scientifica e anche di aiuto a illuminare le esperienze stesse, con agganci biblici e con la storia e la dottrina sociale della chiesa.

A dire il vero alcuni teologi – anche famosi – sono rimasti molto sorpresi e si sono sentiti quasi sminuiti nel loro ruolo; infatti, non erano abituati a sedersi in mezzo alla gente, ma di fronte a essa. Da certe affermazioni provenienti dai teologi stessi, non è facile entrare in questa identità nuova, che sfida la visione verticistica di un modo di essere chiesa, di vedere la società in un’ottica dove sia sempre presente il capo, il maestro, mentre la gente sta sempre in basso; in fondo il popolo viene costantemente sollecitato da qualcuno, sia che porti la croce oppure nel nome di un partito. Cambiano solo il simbolo e magari la professione... ma lo stile è lo stesso

Una Chiesa dal basso
È il passaggio dal popolo visto come oggetto dell’attenzione del pastore, del vescovo, del maestro, del politico, al popolo soggetto capace di dare un contributo essenziale alla sua storia, alle decisioni da prendere, all’interpretazione del messaggio di fede. Per usare il linguaggio di Freire, il popolo non più come serbatoio vuoto, ma come produttore di benzina

Lo stile partecipativo sta sfidando sia le gerarchie religiose sia quelle politiche, soprattutto in Africa dove l’approccio dall’alto ci è stato lasciato in eredità sia dal colonialismo sia dagli anni delle dittature, dei partiti unici e dei regimi autocratici. Se la chiesa con la sua gerarchia, rappresentata in modo particolare dal ministero ordinato, viene considerata depositaria sia dell’autorità decisionale sia della verità ultima, essa dovrà confrontarsi seriamente se non vorrà essere causa di una crisi profondissima tra i membri che la compongono, parliamo di uno scarso 1%, e il resto del popolo di Dio, cioè il rimanente 99%. Il simbolo biblico del pastore deve essere liberato dai condizionamenti culturali di mondi obsoleti e va interpretato e calato nel mondo di oggi. Il patriarcato e il clericalismo sono stati stigmatizzati sia nel Forum teologico sia in quello Sociale. Un grande protagonismo femminile e laicale ha dominato i due forum.

Che tipo di religione?
Un altro mondo è possibile è stato l’atto di fede ripetuto migliaia di volte sia nel Forum teologico sia in quello Sociale. Ma nel primo, una domanda è emersa il secondo giorno: le religioni, che all’inizio di questo terzo millennio sembrano godere di una nuova primavera soprattutto in Africa, rappresentano un punto di forza o un tallone di Achille, in vista della costruzione di questo mondo diverso a cui tutti aspiriamo? Le religioni sono un fatto liberatorio in vista di un altro mondo possibile, oppure no? Domande inquietanti.

Per quanto riguarda l’Africa, la risposta è stata affidata al teologo ugandese John Marie Waliggo, impossibilitato a partecipare, ma che ha fatto pervenire il suo contributo. La ricerca si è basata soprattutto su quello che è avvenuto in Uganda negli ultimi 20 anni, segnati da fatti di una violenza mai conosciuta prima e giustificati sempre da motivazioni religiose; nel nord dell’Uganda prima, negli anni ’90, con la profetessa Lakwena e poi, negli ultimi dieci anni, con Kony. Ambedue si sono rifatti all’importanza dei dieci comandamenti e alla presenza e azione dello Spirito Santo (Lord’s resistance Army).

Due movimenti che in nome della religione hanno destabilizzato metà Uganda, causando migliaia di morti, milioni di rifugiati, due generazioni di bambini traumatizzati da violenze subite e viste; migliaia di bambini soldato abituati a uccidere prima di arrivare ai dieci anni. Nel sud dell’Uganda il movimento Restoration of the Ten Commandaments ha visto i capi accaparrarsi prima le proprietà terriere degli adepti, per poi sterminarli tutti in un grande rogo, durante un’importante assemblea religiosa.

Walliggo ne trae tre conclusioni. Primo: la religione è stata usata per spogliare il popolo delle proprietà materiali e impoverirlo; secondo: la religione ha giustificato violenza, eccidi, terrorismo; terzo: il popolo si è rivelato molto fragile e vulnerabile di fronte ai mistificatori che agivano in nome della religione.

In Uganda, ma sembra così in tutta l’Africa, il popolo si mostra indifeso di fronte a chi si presenta in nome di Dio. L’Africa sta diventando il paradiso delle crociate, dove molti, soprattutto predicatori americani, vengono per manipolare la gente, creare false speranze e spillare denaro.

Così non si costruisce un nuovo mondo! Già Marx due secoli fa affermava che la religione è l’oppio dei popoli. E oggi sperimentiamo che può essere così. Cosa fare per aiutare la gente a discernere? Lo stato? Le chiese? È urgente la creazione di un Centro di riflessione che informi il popolo al di sopra di tutte le religioni e movimenti religiosi. Non solo Waliggo ma anche Michel Dandala, segretario generale del Consiglio delle Chiese di tutta l’Africa, ha insistito per la creazione di un centro di ricerca sui fenomeni religiosi, che offra alla gente i criteri per discernere fra un movimento religioso e un altro.

Altra strada consigliabile è quella di affrontare la lettura della Bibbia e altri libri sacri in modo non fondamentalista, ma con l’aiuto della critica storica, che eviti il fondamentalismo generatore di violenza e seme prolifico, dove c’è ignoranza e pregiudizio religioso. È emerso chiaramente che il rifiorire delle religioni presenta lati positivi ma anche molte ambiguità. La religione non è automaticamente foriera di quel nuovo mondo possibile che si vorrebbe costruire all’inizio del nuovo millennio. Ci si è anche chiesti se sia utile l’intervento dello stato, ma la risposta è negativa. E le chiese, non potrebbero pensarci loro? L’atteggiamento seguito generalmente è quello apologetico: difendere se stessi davanti agli altri e provando loro che sono nel torto!

Tratti per una spiritualità e prassi
Viene da chiedersi, quindi, quale strada sia giusto seguire per poter aiutare la gente nel processo di realizzazione di un altro possibile modo di vivere. Innanzitutto, le religioni devono essere profondamente trasformate. Prassi e spiritualità dovranno agire sinergicamente; una spiritualità non incarnata in un’azione storica è alienazione e una prassi senza spiritualità, non solo non produce un altro mondo possibile, ma distrugge anche quello che già esiste e calpesta la dignità della maggioranza delle persone, come sta facendo il neoliberismo. Durante l’incontro sono emerse alcune proposte.

Sarebbe importante dare impulso ai Centri di ricerca affinché aiutino la gente a leggere i nuovi fenomeni religiosi. In particolare, a distinguere quelli che creano comunione rispetto a quelli che, invece, producono alienazione e violenza.

Nell’interreligiosità – ovvero esporsi al prossimo attraverso un atteggiamento di dialogo – le altre religioni devono essere colte non come concorrenti, bensì come opportunità. Questo è un tema che sfida il concetto tradizionale di missione, come iniziativa volta a eliminare tutte le religioni imponendo quella cristiana, intendendo, cioè, che tutto quanto è diverso da ciò in cui crediamo debba essere scartato.

La teologa keniana Philomena Mwaura ha ricordato che il cristianesimo è arrivato in Africa profondamente frammentato. Per arrivare a essere elementi liberatori in vista di un altro possibile mondo, le varie espressioni cristiane devono sdoganarsi dalle ripercussioni derivanti da tale frammentazione e, quindi, dall’antagonismo di fondo presente negli elementi di differenza che lo caratterizzano, interrompendo così l’abitudine di affermare “noi non siamo come loro”.

La religione tradizionale africana come quelle tradizionali in America Latina e in Asia, ha una carica di spiritualità che deve essere recuperata, particolarmente negli elementi che riguardano il contatto con il mistero di Dio nella natura, la riconciliazione e la solidarietà, e la liberazione da ogni tipo di male attraverso l’esorcismo. I martiri sono coloro che hanno difeso il diritto alla libertà di espressione contro ogni forma di totalitarismo e devono essere visti come grandi campioni in difesa del diritto della libertà.

Infine, si deve camminare verso un pluralismo di spiritualità: la diversità è parte integrante della creazione, anche a livello religioso

I TESTIMONI

Desmond Tutu: protagonista dei lunghi anni di lotta non violenta contro l’apartheid e della profonda esperienza di solidarietà che il Sudafrica sperimenta con il resto del mondo.

Jon Sobrino a El Salvador: nel 1989 quattro gesuiti e due donne vennero uccisi dai militari. Egli testimonia l’invincibilità della croce e delle vittime per un mondo nuovo

Sergio Torres: il coraggio della fede ai tempi di Pinochet in Cile e di altre dittature in America Latina

François Houtart e la sua quarantennale lotta contro il liberalismo e il neo liberismo.

Vuiyani Velle e il martirio in Sri Lanka

Marcelo Barros: l’esperienza mistica della presenza dello Spirito nelle espressioni religiose

Eunice Santana: il Costa Rica vede il martirio nell’affermazione del ruolo femminile che ha portato e porta con sé ancora tanta sofferenza ed emarginazione

Desmond Tutu: “Dio vuole un mondo più giusto”
Nella cattedrale cattolica di Nairobi, poco prima dell’apertura ufficiale del Sociale forum, si è tenuta una celebrazione ecumenica presieduta da Desmond Tutu (nella foto), premio Nobel per la pace ed ex arcivescovo di Città del Capo. Tutu ha detto: «Dio piange e ci dice: “Chi mi aiuterà perché possiamo avere un mondo diverso, un mondo in cui i ricchi sappiano che molto è stato dato loro affinché possano condividere e aiutare gli altri? Una creazione che era molto buona e oggi ‘è diventata un incubo”».

Tutu ricorda che «legge fondamentale del nostro essere» è che «siamo tutti legati gli uni agli altri», per cui «la sola via che possiamo percorrere è insieme, noi tutti». Soltanto insieme possiamo essere liberi, salvi e sicuri. Il premio Nobel ricorda che questa regola si applica anche alla politica. È chiaro il riferimento alla guerra al terrorismo: «Non è possibile vincere la guerra contro il terrore finché persistono le condizioni che spingono la gente alla disperazione. Nessuno potrà vincere la guerra contro il terrore finché, ai quattro angoli del mondo, ci sarà gente che vive in condizioni che la incitano a commettere atti disperati, a causa della povertà, della malattia e dell’ignoranza.»

Il leader sudafricano insiste: «Nessun paese, per potente che sia, può vivere nell’isolamento. Nessun paese, per progredito che sia, può sopravvivere da solo». Ha aggiunto che le chiese intendono difendere il ricorso a mezzi migliori per lottare contro la povertà, l’Hiv/Aids, la distruzione dell’ambiente e l’ingiustizia economica. E, infine, Tutu ha esortato gli africani a essere fieri della propria eredità. «Non siamo figliastri di Dio» ha detto, ricordando che fu un africano ad aiutare Gesù a portare la sua croce, e africani furono anche i primi dottori della

di Francesco Pirli
Nigrizia marzo 2007

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Mercoledì, 07 Marzo 2007 19:51

CHI COMANDA IN INTERNET?

CHI COMANDA IN INTERNET?

di GianMarco Schiesaro
MC febbraio 2007

Il mito dell’anarchia di internet

È alquanto strano pensare che internet debba essere, in qualche modo, «governata». Per molto tempo ci è stato presentato il modello di una rete decentrata, un insieme di nodi privi di un centro e di una periferia. Ma l'idea di un'internet egalitaria nella struttura, capace di sfuggire a controlli e pressioni esterne, non è che un mito. In realtà, internet è gestita in modo tutt’altro che anarchico e si sta rivelando sempre di più il terreno di scontro di grossi interessi di potere.

Sono ormai all’ordine del giorno gli episodi di censura di moltissimi governi autoritari del Sud del mondo, così come le velate ingerenze di molte democrazie occidentali. Anche in seguito a questi attacchi, è cresciuta la voglia di costruire una forma di auto-governo della rete, capace di eludere queste minacce. Una sorta di potere della società civile telematica, incaricato del compito di fare della Rete uno spazio privo di confini nazionali.

Già oggi l’articolazione mondiale di internet non è un territorio in balia di se stesso e privo di controllo: vi sono diversi organismi che, ciascuno con compiti distinti, ne controllano il funzionamento. Quest’ultimo si esplica in almeno tre campi fondamentali: il possesso delle infrastrutture, il controllo tecnico- amministrativo e quello politico - economico. Nel caso delle infrastrutture, ormai la distribuzione è avvenuta sull’intero territorio mondiale (anche se non equamente, come sappiamo); mentre, nel caso del controllo tecnico-amministrativo, le questioni in gioco non sono realmente vitali. Diverso, e gravido di conseguenze, è il caso del controllo politico-economico, che si realizza nella gestione dei domini sul web.

Il dominio è alla base stessa del funzionamento della Rete: si tratta di un semplice indirizzo elettronico, che identifica un gruppo di computer collegati in rete. Un territorio virtuale ma carico di connotazioni proprie dei territori reali: un dominio ha la possibilità di essere identificato con un indirizzo e di vedersi attribuito un valore economico e politico. Non è indifferente possedere un nome di dominio piuttosto che un altro: alcuni domini permettono di sviluppare attività economiche e di fungere da riferimento per attività sociali, altri invece scompaiono rapidamente nella grande massa di domini esistenti. Da tempo i domini sul web scarseggiano e molte nuove imprese possono rimanere escluse per l’impossibilità di sfruttare indirizzi facilmente individuabili. Per comprendere, invece, la grande valenza politica del nome di dominio, si pensi alle polemiche generate, qualche anno fa, dalla decisione di assegnare il suffisso .ps, ai siti della Palestina, assegnando così ai territori occupati un’indipendenza nel cyberspazio che ancora non avevano ottenuto nel mondo fisico.

Tutto il potere di «Icann»

Chi gestisce la struttura di indirizzamento di internet detiene un formidabile potere sull’economia e sulle risorse strategiche mondiali. Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) è l'istituzione che presiede alla registrazione dei domini, ed è il custode unico della tecnologia che consente il collegamento fra un indirizzo web e il sito ad esso appartenente. Icann può essere paragonata a una torre di controllo virtuale, in grado di indirizzare i computer, indicando loro la strada da percorrere per raggiungere una determinata pagina web. Naturalmente, se smettesse di funzionare, si precipiterebbe in una situazione simile a quella di un aeroporto la cui torre di controllo avesse spento i radar. Chi detiene il controllo di quei codici possiede, insomma, un potere di vita o di morte sull’intera Rete: non è poco per un ente nato da pochi anni e di cui molti ignorano perfino l’esistenza.

Icann, che nacque con la pretesa di essere pienamente rappresentativa di tutti i centri di interesse e degli utenti internet, allo stato attuale non offre garanzie di democraticità. Con sede nella California, formalmente operante per contratto con il governo americano, sottoposta a una amministrazione burocratica e composta da membri fortemente condizionati da poche grandi aziende, non ha finora garantito alcuna trasparenza sulle sue decisioni, assunte quasi esclusivamente a porte chiuse.

Nel 2000 Icann accettò di indire le prime elezioni mondiali di internet, aperte a tutti gli utenti della Rete, con lo scopo di eleggere i membri del proprio Consiglio direttivo. In Africa, Asia e Sud America la vittoria spettò a tre candidati proposti dalla stessa Icann, mentre in Europa e nell'America del Nord, dove il dibattito attorno a quelle elezioni fu meno blindato, si affermarono due candidati di «opposizione». La sola presenza di due consiglieri particolarmente critici verso il gruppo dirigente di Icann fu sufficiente perché il processo democratico venisse annullato e fossero ufficialmente cancellati i seggi di rappresentanza concessi alla società civile. La decisione suscitò ovviamente un vespaio di proteste mentre le dimissioni del presidente Icann, nel giugno 2002, gettavano l'istituzione nel caos più completo.

Nelle mani degli Stati Uniti

Oggi, dopo una lunga stasi, la comunità internazionale è tornata a discutere del futuro di Icann, tentando di disegnare un futuro un po' più roseo per la democrazia nella rete. Il governo statunitense, preoccupato per il riaccendersi del dibattito, si è posto in posizione di attacco e, per tutto il 2006, si sono moltiplicate minacce e ammonimenti, da parte di suoi esponenti, «a togliere le mani da Icann, parte integrante degli interessi nazionali statunitensi». Per contro, un gruppo di paesi influenti, tra cui Brasile, Sud Africa, India e Cina stanno premendo per assegnare le delicate competenze di Icann a un organismo super partes, ad esempio le Nazioni Unite (in particolare l'Unione Internazionale delle Telecomunicazioni). Questa soluzione, tuttavia, non convince molti, soprattutto in Europa. Da una parte ci sono dubbi fondati circa il fatto che un’istituzione dell’Onu possa essere più snella e meno burocratica dell'attuale Icann. Dall’altra vi è il timore che i governi nazionali possano prendere il sopravvento nella gestione di una risorsa che, finora, avevano potuto controllare soltanto parzialmente. A tutti appare più che evidente il tentativo, da parte della Cina, di impadronirsi della stanza dei bottoni, che le consentirebbe una censura ancor più rigida e capillare della propria rete internet.

Pubblicato in Mondo Oggi - Geopolitico
Mercoledì, 07 Marzo 2007 19:39

PER UNA TECNOLOGIA DAL VOLTO UMANO

PER UNA TECNOLOGIA DAL VOLTO UMANO

di GianMarco Schiesaro
MC Febbraio 2007

Gli indios ashaninka vivono in una regione remota dello stato di Acre (Brasile), ai confini con il Perù. Per loro è il canto a scandire l’esistenza, accompagnato da strumenti rudimentali come flauti di canna e tamburi di pelle. La loro vita quotidiana si snoda lontano dai riflettori della modernità e scorre sui binari tranquilli della tradizione: pochi sarebbero disposti a scommettere che questo popolo sperduto possa nutrire il benché minimo interesse nei confronti delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La realtà, tuttavia, non cessa di riservare sorprese: gli ashaninka hanno inciso un Cd e hanno diffuso la loro musica proprio su internet, vendendo online la loro realizzazione. E così un altro popolo, tra quelli fino a questo momento relegati ai margini della cosiddetta civiltà, ha fatto il proprio ingresso nella società dell’informazione.

Questa commistione di tradizione e modernità non deve stupire: internet sembra rappresentare un luogo di incontro privilegiato tra gli indios e le associazioni che tutelano le culture indigene. Per rendersene conto è sufficiente visitare il portale «Native Web» (www.nativeweb.org), un ricco canale di accesso alle risorse in rete dedicate alle culture indigene.
Se l’episodio degli indios ashaninka è tutto sommato marginale, circoscritto com’è a un ambito un po’ atipico e a una fascia di popolazione limitata, altrettanto non si può dire del progetto Global Forest Watch (www.globalforestwatch.org), che si ripromette addirittura di monitorare le risorse forestali del mondo intero.

Global Forest Watch, creato dal «World Resources Institute», è una rete mondiale di gruppi forestali locali, in contatto tra di loro grazie ad internet ed equipaggiati con strumenti software avanzati. La grafica satellitare si unisce a una raccolta dettagliata di dati sul campo, con l’obiettivo di confrontare le attuali pratiche forestali con gli standard stabiliti dalle organizzazioni internazionali.

Questi ed altri sistemi di telerilevamento, via satellite e via internet, consentono di fare l’inventario delle risorse terrestri, di prevedere i raccolti e di migliorare l’utilizzo dei terreni nei paesi in via di sviluppo, magari anticipando i segni premonitori di cataclismi naturali.

SE LA SALUTE VIAGGIA SU INTERNET

È confortante sapere che le tecnologie possano influire sui processi di inclusione sociale o fronteggiare i guasti ecologici sempre in agguato. Lo sviluppo umano è però una realtà più vasta e complessa. Per cominciare, si potrebbe obiettare che esistono bisogni ben più urgenti: la salute, per esempio.

Per la maggior parte degli operatori sanitari dei paesi del Sud l’accesso all’informazione è un problema: i testi per la formazione sono spesso antiquati e l’informazione sui farmaci più recenti o sui trattamenti preventivi è limitata. I medici si sentono isolati perché non hanno la possibilità di chiedere un consulto nell’emettere la loro diagnosi.

La rete satellitare HealthNet (www.healthnet.org), creata nel 1989, offre servizi e strumenti a circa 4.000 operatori sanitari in più di 30 paesi del mondo. Un esempio ci può aiutare a comprendere di quali servizi si tratta.

In un remoto villaggio dell’Africa equatoriale alcune infermiere adoperano una telecamera digitale per acquisire le immagini di alcuni alimenti, scaricarle su un computer portatile e portarle da un medico affinché le esamini. Nel caso in cui questi debba valutarle ulteriormente, può spedirle via internet in Gran Bretagna, dove vengono sottoposte allo studio di specialisti di tutto il mondo. Oggi un software di compressione permette di ridurre enormemente un’immagine a raggi X senza perdita di informazione, e di spedirla senza difficoltà attraverso qualsiasi rete esistente di telecomunicazioni.

Qualche interrogativo comincia timidamente ad affacciarsi. È saggio spendere tante risorse per una struttura vasta e imponente quale HealthNet? «L’Africa non ha bisogno di tecnologie sofisticate» sostiene Maria Musoke, esperta di informazione medica in un progetto ugandese. Maria ha ottenuto ottimi risultati, nella prevenzione della mortalità infantile, grazie all’uso di semplici walkie-talkie. La telemedicina - sostiene Maria - è un’applicazione dal grande potenziale, ma i costi attuali ne fanno uno strumento irrealistico. Per spezzare l’isolamento dei medici africani, il vero problema di questo continente, basterebbe un semplice computer, dotato di una connessione internet e collocato nella maggior parte dei centri sanitari.

LA «GRAAMEN PHONE»:  PICCOLO È BELLO

I progetti faraonici di grandi reti continentali, le immagini patinate di giovani africani intenti a navigare in internet compiacciono certamente i governi, i diplomatici e gli editori di riviste di massa. Sono però di dubbia utilità per la popolazione locale. L’autentico successo arride più frequentemente ai progetti di piccole dimensioni, fondati su tecnologie accessibili e facilmente replicabili. «Piccolo è bello», scriveva Schumacher qualche decennio fa, ma la sua lezione è valida ancora oggi.

Dopo l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2006 a Muhammed Yunus, inventore del microcredito, tutti conoscono la sua creatura: la Graamen Bank, la «banca dei poveri». Meno conosciuta, probabilmente, è la sorella Graamen Phone, la «compagnia telefonica dei poveri», che ha esteso il modello del microcredito alla telefonia rurale del Bangladesh. Beneficiario, in questo caso, è un imprenditore locale, solitamente una donna, cui viene prestato il denaro per acquistare un telefono cellulare, destinato ad essere utilizzato dai suoi compaesani. La domanda di questo servizio di comunicazione è davvero elevata. Sappiamo che, a causa della debolezza del mercato del lavoro locale, molti sono costretti a emigrare e i telefoni costituiscono un prezioso canale per mantenere legami sociali e familiari, oltre che per garantire il flusso delle rimesse verso le famiglie.

Non è tutto: per comprare e vendere i beni prodotti sono necessari frequenti viaggi verso i mercati delle località centrali di una regione. Il servizio telefonico permette a molti di consultare i propri contatti nelle città e di ottenere da loro le informazioni relative ai prezzi di mercato, rompendo il monopolio dell’informazione che appartiene ai mediatori e riducendo i rischi di sfruttamento. Le chiamate telefoniche possono sostituire un viaggio in città, che ai contadini costerebbe dieci volte più di una chiamata, e li aiutano a ottenere prezzi più equi per i loro raccolti.

L’esempio ci insegna che non sempre le tecnologie migliori sono le più avanzate o quelle di ultima generazione. Saper integrare antico e moderno, facendo coesistere vecchie e nuove tecnologie, è uno degli ingredienti fondamentali di una iniziativa di successo.

CARA, VECCHIA RADIO

Nella comunità di Kothmale, un’area di ben 350.000 persone dello Sri Lanka, si è realizzata un’originale fusione del mezzo radiofonico con quello telematico. La «Kothmale Community Radio» (www.kothmale.org) trasmette quotidianamente un programma di un’ora, basato sulle semplici domande degli ascoltatori, cui si provvede a dare risposta con l’aiuto di internet. A questo scopo, è stato anche implementato un database contenente le informazioni più richieste; mentre alcuni punti di accesso internet comunitari vengono utilizzati come portali per effettuare trasmissioni dal vivo dall’interno della comunità.

La «radio comunitaria» ha una storia molto lunga: essa è stata impiegata per raggiungere fasce di popolazione ampie, soprattutto quelle non alfabetizzate o quelle che vivono in aree con scarse infrastrutture. Il vantaggio delle radio è quello di avere un costo alquanto basso e di essere disponibili anche quando manca l’energia elettrica, per esempio alimentate da batterie solari.

È un peccato che esperienze simili a quella di Kothmale non si siano replicate in gran numero nel continente africano, dove la radio è lo strumento di gran lunga più utilizzato e la telefonia mobile è ben più che una promessa, grazie a una configurazione geografica favorevole (i cellulari privilegiano i territori pianeggianti) e al carattere di oralità della cultura africana.

Questi esempi gettano una luce nuova sul rapporto controverso tra nuove tecnologie e paesi in via di sviluppo. Troppo spesso il nostro immaginario si è nutrito di immagini deformate: pensiamo alle raffigurazioni di villaggi in cui un personal computer, che spunta nel mezzo delle capanne, viene venerato da un gruppo di indigeni straniti, che non ne capisce la funzione. Si potrebbero aggiungere molti altri stereotipi simili a questo: essi hanno purtroppo grande peso nella pubblicistica, ma scarso riscontro nella realtà.

«VENDO CAPRE»:  SU INTERNET

Qualche anno fa, un esperto della Banca mondiale si è recato in Etiopia per parlare di e-business e ha esordito dicendo: «Immagino che nessuno di voi sappia che cosa sia un sito internet». Un tale ha alzato la mano e a sorpresa ha replicato: «Io lo so. Vendo capre su internet... Ci sono molti tassisti etiopi a Chicago, New York e Washington. La tradizione vuole che regalino delle capre alle loro famiglie rimaste in Etiopia e così io gliele vendo da un cybercaffè...».

Questo aneddoto, tratto da un gustoso libro di Sergio Carbone e Maurizio Guandalini (intitolato appunto Vendo capre su Internet) serve a smentire un luogo comune tra i più radicati: che le comunità povere delle aree rurali abbiano bisogni «primitivi» e che le loro società siano autosufficienti e chiuse. Al contrario, nella maggioranza dei casi, sono popolate di piccoli imprenditori e di cooperative locali, che hanno bisogno di informazioni sullo stato del mercato, sui prezzi correnti e sulla previsione di domanda per i loro prodotti e servizi: dai prodotti agricoli all’artigianato, dalle risorse naturali al turismo. C’è bisogno di frequentare i mercati per accaparrarsi potenziali clienti, di comunicare con altri partner per concludere accordi, organizzare i trasporti, ecc… Senza dimenticare che, affinché delle imprese concorrenziali si possano sviluppare nelle zone rurali, è necessario accedere ai servizi governativi e disporre di informazioni in merito alle imposte e alle sovvenzioni. Privi di conoscenze rilevanti e della capacità di comunicazione necessaria per analizzarle e condividerle, i piccoli produttori rischiano di rimanere alla mercé del mercato mondiale.

Se volessimo ricavare una lezione, potremmo sintetizzarla così: i poveri non hanno strettamente bisogno di computer, ma di informazione. Un’informazione che abbia senso per la loro vita quotidiana e che, grazie anche a tecnologie semplici e accessibili, li renda capaci di gestire autonomamente i propri processi di sviluppo. Sapranno ricordarsene i tecnocrati dello sviluppo?

MENO GIGANTISMO, PIÙ FIDUCIA E CONTATTO

Contare sullo sviluppo umano comporta avere fiducia nelle capacità delle comunità. Richiede tempo e pazienza, spesso in contrasto con l’immediatezza e il «bruciare le tappe» tipiche della società dell’informazione; richiede analisi e comprensione, che si acquisiscono con l’esperienza e il contatto diretto, più che quello mediato dallo strumento tecnologico.

Purtroppo questa consapevolezza non è per nulla diffusa nella comunità internazionale che, con una disinvoltura ormai eccessiva, si rivolge a internet e alle tecnologie dell’informazione nel tentativo di caricare di significato progetti di sviluppo altrimenti poco significativi, in una qualsiasi realtà del Sud del mondo.

Dalle «cittadelle digitali» pianificate nei ghetti di Soweto e nell’isola di Mauritius ai «villaggi solari» (così chiamati perché dotati di computer alimentati da energia solare) realizzati in Honduras, la visione dominante nella comunità internazionale è affetta da gigantismo. Si ritiene che un programma tecnologico debba necessariamente funzionare su larga scala, raggiungendo decine di migliaia di comunità rurali, superando l’orbita limitata dei programmi di sviluppo convenzionali. E naturalmente, protagoniste di tali programmi sono quasi sempre le grandi multinazionali tecnologiche, le uniche che dispongano dei mezzi per erogare servizi a migliaia di utenti contemporaneamente. Perché - è la domanda ricorrente - non incoraggiarle a fornire esse stesse i beni di consumo e i servizi di base, secondo i bisogni e il budget delle comunità povere?

Il ragionamento spiana la strada all'ingresso in massa del mondo del business, invitato a percorrere una nuova eccitante missione: quella di trasformare gradualmente (a volte in maniera diretta e a volte in partnership con i governi o le reti di Ong) i poveri in «clienti», destinati come tali a pagare servizi finalizzati (almeno teoricamente) a migliorare la qualità della loro vita e ad aumentare la produttività delle loro attività.

Questo tipo di interventi è di solito condito da una fastidiosa dose di retorica e da un'assoluta mancanza di senso critico, frequente ogni volta che ci si riferisce a internet. Il senso di ottimismo, uno sviluppo fatto piovere dall’alto e la convinzione di neutralità della tecnologia non sono certo le premesse migliori per sviluppare una riflessione matura. In un’epoca in cui alle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione si è giunti ad attribuire un valore quasi salvifico, ci si chiede se abbia ancora senso discutere le finalità che dovrebbero guidare il loro impiego e l’impatto prodotto sulle fasce più deboli della popolazione.

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Opportunità e pericoli per l'«homo technologicus»

di Paolo MoviolaDossier MC febbraio 2007

Qualche settimana fa, ho ricevuto dall’Angola, via posta elettronica, un video del dottor Nando Campanella, il medico che a suo tempo vinse il nostro «Premio Carlo Urbani» e che oggi lavora in Africa per l’Organizzazione mondiale della sanità (http://www.afro.who.int/). Nando è un esperto di telemedicina e, ovunque vada a lavorare, cerca di coniugare le sue conoscenze mediche con quelle tecnologiche. L’e-mail è uno strumento che ha rivoluzionato il modo di comunicare, abbattendo le distanze e il tempo (ma quasi sempre anche la poesia). Personalmente, non riesco più a fare a meno, anche perché la posta elettronica è ormai diventata indispensabile per il mio lavoro. Tuttavia, vivo senza telefonino. Una cosa, questa, talmente inusuale che, quando lo confesso, nessuno mi crede.

Verso le nuove tecnologie ho un rapporto di accettazione, ma allo stesso tempo di sospetto. Ad esempio, in quanto ambientalista (convinto), mi infastidisce molto vedere i prodotti tecnologici durare sempre meno, non tanto perché non funzionino più quanto perché vengono superati da altri più aggiornati e di cui - come ci fanno credere pubblicità martellanti ed invadenti - sembra non si possa fare a meno. Purtroppo, computer, telefonini, videoregistratori, televisori, stampanti e quant’altro si trasformano in rifiuti altamente inquinanti e di difficile smaltimento. In media, in Europa ogni cittadino produce 20 (venti!) chilogrammi di spazzatura elettronica all’anno. La direttiva europea (http://europa.eu/) sui «Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche» (Raee), in inglese Waste from electrical and electronic equipment (Weee), non sembra essere adeguata all’entità del problema. Gli europei (con gli italiani nelle primissime posizioni) cambiano il proprio cellulare in media ogni 15 mesi. Quanti di essi sanno che i telefonini contengono cassiterite e tantalio (coltan) e che, per avere questi metalli, nella martoriata Repubblica del Congo si combatte, si sfrutta, si commette ogni genere di violenza?

Quando si viaggia nel Sud del mondo si incontrano sempre più spesso internet cafè. Dunque, la tecnologia arriva veramente ovunque? Lascio la risposta a Geneviève Makaping, antropologa del Camerun, che al Convegno di Mani Tese (http://www.manitese.it) ha tristemente sintetizzato la situazione: «In Africa i miei nipotini hanno il telefonino ma nessuno li chiama. Hanno la parabola satellitare ma la usano per scegliere il paese in cui emigrare. Le ragazze vanno nei tanti internet cafè per contattare uomini che le portino in Europa, dove finiscono sulle strade a prostituirsi». Quella della professoressa Makaping è una provocazione, anche se non troppo lontana dalla realtà. Vale la pena di ricordare che l’analisi svolta da The Economist (http://www.economist.com), la bibbia del capitalismo mondiale, sulle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione nei paesi poveri arrivava a questa conclusione: «Un computer non serve se non hai cibo, non hai elettricità e non sai leggere. (...) La telefonia mobile è la tecnologia con il più grande impatto sullo sviluppo» (10 marzo 2005).

Altro problema delle nuove tecnologie è la loro invasività. Oggi si diffondono i microchip polifunzionali che si  impiantano sotto pelle (come il Rfid, Radio frequency identification, che identifica automaticamente e a distanza persone, animali e oggetti). E domani che sarà? Ecco perché sono d’accordo con le preoccupazioni espresse dal professor Umberto Galimberti («Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica», Feltrinelli 2000): «Non c’è più nessuno che sia in grado di controllare la tecnica, ma è la tecnica a divorare gli uomini, compresi quelli che hanno il potere di immettere nel circuito le informazioni. Essi infatti devono tener conto dei gusti degli utenti e questi gusti a loro volta sono indotti dal mezzo. Insomma nel conflitto tra uomo e macchina perde sempre l’uomo».

Un altro filosofo, il francese Jean Baudrillard, non vede affatto bene questa invasione della tecnologia: «La peculiarità dell’essere vivente è di non arrivare al limite delle sue possibilità, mentre l’oggetto tecnico fa il contrario: esaurisce le sue possibilità e le dispiega a dispetto di tutto, anche dell’uomo, determinando più o meno a lungo termine la sua scomparsa. (...) Non c’è analogia più bella, per illustrare questo passaggio all’egemonico, della fotografia diventata digitale, liberata nello stesso tempo dal negativo e dal mondo reale. I due passaggi, naturalmente su scale diverse, hanno conseguenze incalcolabili. Significano la fine di una presenza singolare dell’oggetto, visto che può essere costruito digitalmente. Fine del momento singolare dell’atto fotografico, perché l’immagine può essere immediatamente cancellata o ricomposta. Fine della testimonianza irrefutabile del negativo».

Ogni fine anno Time, il noto settimanale Usa (http://www.time.com), sceglie il personaggio che, a suo dire, più ha segnato l’anno appena concluso.

La copertina dell’ultimo numero del 2006 raffigurava un computer a schermo piatto su cui si riflette l’immagine del lettore, perché «L’uomo dell’anno sei tu. Sì, sei proprio tu. Tu controlli l’era dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Insomma, l’anonimo utente di internet sarebbe il cuore della «nuova democrazia digitale». L’enfasi di Time arrivava a tal punto da titolare un articolo: Power To The People, Potere al popolo. Ironia della sorte, proprio nei giorni dell’uscita di questo numero si scopriva che i servizi segreti degli Stati Uniti potranno mettere il naso nelle e-mail e nelle transazioni delle carte di credito dei passeggeri europei che vanno negli Stati Uniti. Ad ulteriore conferma dell’ambiguità delle nuove tecnologie e della pericolosità di una loro adozione acritica.

Non è certo, infine, se la scelta del settimanale Time sia stata completamente autonoma o piuttosto influenzata da interessi commerciali. Questo è forse il punto centrale della questione: dove finisce l’utilità di una nuova tecnologia e dove inizia il consumismo ingiustificabile e insostenibile?

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Mercoledì, 28 Febbraio 2007 12:14

Alcune riflessioni su PACS e DICO

PIÙ COLLEGIALITÀ, MENO POLITICA. LE CRITICHE DI MONS. PLOTTI ALLA LINEA DI RUINI SUI DICO
CITTÀ DEL VATICANO. L'annuncio di una nota "impegnativa" per i cattolici in vista del dibattito parlamentare sui Dico da parte del card. Camillo Ruini non è piaciuto a molti, persino all'interno della Cei. Non è un problema di contenuti: tutti si dicono d'accordo nel respingere con forza il progetto di legge del governo sulle coppie di fatto; ma qualche critica alla gestione verticistica del presidente della Cei arriva da mons. Alessandro Plotti, arcivescovo di Pisa che è stato anche uno dei vicepresidenti della Cei. Parlando della ‘nota', Plotti, in un'intervista a Repubblica del 16/2, ha commentato: "Se è un tema davvero così importante allora è giusto che sia redatta da tutti i vescovi. Mi auguro che non la faccia solo la presidenza. Una Nota dell'episcopato", aggiunge, "e sottolineo, una Nota pastorale, dev'essere discussa per prassi in assemblea. Il testo va mandato a tutti, bisogna poter fare emendamenti". I tempi, in questo modo, si allungherebbero, ma "il problema è pastorale più che politico. La Chiesa deve dire la sua parola, poi la politica fa le sue scelte". Quanto ai contenuti del ddl, "ci troviamo appena di fronte ad uno schema", è logico prevedere molti emendamenti ed è, quindi, "inutile stracciarsi le vesti prima del tempo".

Intanto, l'Osservatore Romano prende posizione con durezza nel dibattito a colpi di documenti scoppiato tra i cattolici: "Sembrano quanto meno inopportune", si legge nell'editoriale del 16/2 firmato in prima pagina da Gaetano Vallini,, "quelle voci che in questi giorni, anche con appelli pubblici, vorrebbero far tacere questa ‘voce' tanto autorevole quanto scomoda. Tanto scomoda da essere definita da alcuni impropriamente come un'‘ingerenza'". La "voce" è, naturalmente, quella della Chiesa e gli "appelli pubblici" cui si fa riferimento è, in realtà, soprattutto quello promosso da Giuseppe Alberigo (v. numero verde allegato) per chiedere ai vescovi italiani di non rilasciare la famigerata ‘nota'. L'altolà dell'Osservatore Romano, arriva proprio mentre il documento promosso da Alberigo continua a raccogliere adesioni. Oltre a quelle iniziali di, tra gli altri, Vittorio Bellavite, Raniero La Valle, Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri, si sono aggiunte nel giro di pochi giorni quelle di Pietro Scoppola (che sul Corriere della Sera del 16/2 smentisce le voci di un suo disaccordo con i contenuti dell'appello), Paola Gaiotti De Biase, don Albino Bizzotto, Aldo Maria Valli, Guido Formigoni.

Quello dell'Osservatore è un attacco mirato: "Non si comprende", scrive Vallini, "perché la Chiesa, il Papa e i Vescovi non possano intervenire su un tema tanto delicato quanto cruciale come quello della famiglia. Intervenendo, la Chiesa non difende una posizione ‘politica', ma semplicemente adempie al suo mandato, che è anche un suo diritto". "La Chiesa sulla famiglia ha il dovere di parlare", prosegue l'editoriale: "Chi vuole, ascolta. Ma non le si chieda di tacere".

Sì ai Dico anche dai Cristiano sociali: il coordinatore Mimmo Lucà ha risposto sul Tempo del 16/2 a una lettera di Francesco Cossiga che chiedeva al gruppo di chiarire la sua posizione: citando Moro e De Gasperi, Lucà scrive: "Voteremo per il Ddl del Governo sulle convivenze e non come male minore, ma perché vi riconosciamo la nostra ispirazione di Cristiano sociali". Quanto all'atteggiamento della Cei, "restiamo convinti che la Chiesa, tutte le Chiese, sono tenute a riconoscere e a rispettare la laicità e l'autonomia della politica, la sua preminente responsabilità nel decidere e determinare gli indirizzi ed il contenuto della legislazione". (alessandro speciale)



PRINCIPI NON NEGOZIABILI E POLITICA: LA MEDIAZIONE CHE NON PIACE ALLA CEI. UN INTERVENTO DI MARCO IVALDO
ROMA. Fra dogmatismo e relativismo c'è la mediazione politica, che non è un "compromesso" al ribasso, ma la via maestra per raggiungere il "massimo possibile" e per avanzare "nel bene comune", riconoscendo la "verità" presente anche nel "punto di vista" dell'altro. È l'opinione di Marco Ivaldo (docente di Filosofia morale all'Università di Napoli, già presidente nazionale della Fuci e del Meic) – molto distante dall'intransigenza della Conferenza episcopale italiana e del card. Camillo Ruini (v. Adista n. 13/07 e numero verde allegato) –, espressa in un seminario riservato del coordinamento di cattolici democratici Agire Politicamente, lo scorso 6 febbraio, anche in vista di un prossimo documento dell'associazione sul tema "valori non negoziabili e mediazione politica". (v. Adista, n. 1/07).

"Un compito che oggi interpella i cattolici", dice Ivaldo, "è la difesa e la promozione, nelle scelte politiche e legislative, di quelli che Benedetto XVI ha chiamato al Convegno ecclesiale di Verona ‘fondamentali valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano'", denominati anche "principi non negoziabili", cioè "valori che non possono essere oggetto di negotium, di scambio e contrattazione politica": su tutti,la "tutela della vita umana in tutte le sue fasi" e la "promozione della famiglia fondata sul matrimonio". Questi valori, che per il magistero della Chiesa sono "radicati nella ‘natura dell'essere umano'" – e quindi, chiosa Ivaldo, evidenti a tutti, senza interpreti più autorevoli di altri, vescovi compresi –, "non devono venire contraddetti dal nomos umano e dalle leggi civili, ma questi hanno piuttosto da riconoscerli, difenderli, promuoverli".

A questo punto si apre un problema: la politica è anche negotium, cioè "contrattazione" per la costruzione del "bene comune"; e la ricerca del bene comune "esige una ‘negoziazione', non sui valori in se stessi, ma sul loro pubblico riconoscimento e sulla loro sociale realizzazione", per raggiungere una "convergenza pratica, pur restando diversi i punti di partenza teoretici". Come è possibile allora per il cristiano, si chiede Ivaldo, "fare politica" rispettando i valori non negoziabili? "Qui si apre – prosegue – lo spazio irriducibile di quella che si chiama ‘mediazione', espressione per un certo tempo evitata nel linguaggio pubblico della Chiesa perché identificata (erroneamente) con ‘compromesso', ma che si impone nuovamente". Anzi, il cristiano può fare politica "partendo da ‘valori non-negoziabili' solo se pratica buone mediazioni", "in caso contrario si condanna o al tradimento dei valori oppure alla inefficacia politica". Il cattolico impegnato in politica, quindi, non è il mero esecutore delle direttive impartite dalla Cei: "È sbagliato pensare che l'attività politica di un cristiano sia l'applicazione ‘meccanica' dei principi e dei valori elaborati nella dottrina sociale della Chiesa. Tali principi e valori costituiscono il ‘firmamento teologico' – espressione di Maritain – che orienta l'attività politica, ma quest'ultima inizia in senso stretto nel punto in cui questi principi e valori vengono impegnati nella situazione concreta e contingente. La politica è la responsabile ricerca dei mezzi, o meglio delle mediazioni (leggi, istituzioni, misure politiche) che incarnano, nella situazione concreta e via via specifica e mutevole, questi principi e valori nel massimo possibile, avendo come scopo e come regola la giustizia".

In questo contesto, spiega Ivaldo, sono compatibili due ammissioni che potrebbero sembrare contraddittorie: "Che il proprio punto di vista (ad esempio in ambito morale) non sia il ‘punto di vista', ma (solo) un punto di vista; che il proprio punto di vista riguardi nondimeno la verità, ovvero sia giudicato dal suo portatore come ‘vero' e valido". "La pratica di questa duplice convinzione - che è insieme anti-dogmatica e anti-relativistica - è essenziale per stare nello spazio e nella pratica della comunicazione: ci consente di considerare le verità che giudichiamo tali come verità (e non come semplici preferenze personali), e tuttavia ci permette di ammettere che si possa trattare pur sempre di verità parziali", e che perciò "siano suscettibili di integrazione mediante altre (parziali) verità di cui si riconosca l'evidenza". È questa la pratica e l'essenza della mediazione: partendo dai propri valori – che ciascuno "legittimamente giudica veri e validi" e "non semplici opinioni soggettive" – si cerca di "individuare un complesso valoriale che possa diventare oggetto di comune riconoscimento, e da qui si procede per realizzare quelle parti dei rispettivi disegni che risultano comuni e accomunanti".

Ivaldo conclude con due richiami, uno ai vescovi e uno ai politici: i vescovi, dice, "dovrebbero autolimitarsi, oppure ammettere che le loro tesi possono essere discusse nel campo dell'applicazione pratica"; e i politici che si richiamano continuamente e pubblicamente al magistero sbagliano due volte, prima perché "strumentalizzano il magistero" e poi perché "non esercitano la loro autonoma e specifica responsabilità laicale". (luca kocci)



CREDO, DUNQUE DICO: COMMENTI CATTOLICI SULLA STAMPA
ROMA. Non ci sono solo i politici cattolici, in primis quella Rosy Bindi che il ddl sulle coppie di fatto lo

ha scritto, e le voci storiche del cattolicesimo democratico, da Alberto Melloni a Angelo Bertani: sulle colonne della stampa laica fanno sentire la loro voce anche quegli esponenti della Chiesa che – perché critici o semplicemente distanti dai piani di potere della Cei – non troveranno mai spazio su Avvenire. Nella rassegna di Adista, forzatamente limitata per motivi di spazio, pubblichiamo

le interviste e gli interventi di mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, del ministro Bindi, di Leopoldo Elia,

di Angelo Bertani, di Pierluigi Castagnetti, del vicesindaco di Firenze Giuseppe Matulli, dell’ex-presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e di Stefano Ceccanti, che ai “Dico” ha lavorato in prima persona in quanto capo ufficio legislativo del ministro per le Pari opportunità Barbara Pollastrini.

Ma le loro voci non sono state certo le uniche a protestare per la linea adottata dalla Chiesa italiana di fronte ai ‘Dico’. Don Severino Dianich, ad esempio, sulla Repubblica del 13/2, ex-presidente dell’Associazione teologica italiana, si chiede come “espressioni così forti - quelle usate dalla gerarchia ecclesiastica - si sposino con la missione di predicazione della Chiesa”: il timore è che “creare dissidi così forti (…) aumenterà il distacco tra Chiesa e società civile”. Sullo stesso giornale, Vito Mancuso,

che insegna Teologia contemporanea al San Raffaele di Milano, difende il ddl perché “lo Stato ha il dovere di prendere in carico i nuovi fenomeni. Se non lo facesse, sarebbe una vera omissione”. Punta il dito contro il card. Camillo Ruini, invece, Achille

Ardigò: la Cei sta “andando contro l’insegnamento di Giovanni XXIII, del Concilio e dello stesso Giovanni Paolo II, insegnamento che valorizza il ruolo e la presenza dei cattolici impegnati per il buon governo della cosa pubblica (…). Ruini vuole essere

lui a gestire i rapporti politici, persino con i singoli parlamentari”. Gli fa eco Domenico Rosati, ex-presidente delle Acli, mentre sul fronte ecclesiastico, il direttore della dehoniana “Rivista di teologia morale”, p. Luigi Lorenzetti, sul Corriere della Sera dell’11/2, trova che il ddl sui Dico sia un “compromesso” accettabile. “Il testo proposto - afferma - porta il segno di quella ricerca

e del compromesso che in qualche misura è stato raggiunto (…). Ritengo che nessuno possa sentirsi dispensato

dall'impegno a migliorarlo, ma anche così com'è vedrei una sua accettabilità”. Una cauta apertura che riconosce il valore dell’opera di mediazione attuata nel governo e che sgombra il campo dalle polemiche di chi vede nei Dico il riconoscimento di un “simil-matrimonio”: “Credo si tratti di un processo alle intenzioni, perché il testo è stato redatto in modo che quel riconoscimento non sia mai affermato neanche implicitamente”.

L’Unità del 14/2 intervista due preti quotidianamente impegnati nel sociale: “Come figlio della Chiesa”, dice don Alessandro Santoro, parroco delle Piagge a Firenze, “posso comprendere la difficoltà che hanno le gerarchie su questa proposta, anche se non riesco a capire come si possa dire che questa legge mini l’istituzione familiare. Non c’è nulla che vada contro la famiglia”.

Ancora più netto p. Pierangelo Marchi, della Comunità dei Sacramentini di Caserta: la Chiesa “ha timore di perdere potere”; “c'è una caduta di consenso inarrestabile, e la reazione è un arroccamento senza precedenti”. Quanto alla linea della Cei, sbotta

p. Marchi, “l'era Ruini prima finisce e meglio è”, anche se il problema non è certo solo all’interno alla Chiesa: “L'offensiva di questi giorni dimostra come sia fragile anche la cultura laica”. Il giorno dopo, sempre sull’Unità, il parroco del Sacro Cuore a Portici, p. Giorgio Pisano, torna sugli stessi temi: “Mi sembra che il cardinal Ruini sia poco sereno. E che stia alimentando una tremenda confusione che non fa bene a nessuno: al mondo laico, ma anzitutto alla stessa Chiesa”.



VI PREGO, RIPENSATECI
di Giuseppe Alberigo

La Chiesa italiana, malgrado sia ricca di tante energie e fermenti, sta subendo un'immeritata involuzione. L'annunciato intervento della Presidenza della Conferenza episcopale, che imporrebbe ai parlamentari cattolici di rifiutare il progetto di legge sui "diritti delle convivenze", è di inaudita gravità. Con un atto di questa natura l'Italia ricadrebbe nella deprecata condizione di conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino. Condizione insorta dopo l'unificazione del Paese e il "non expedit" della S. Sede e superata definitivamente solo con gli accordi concordatari. Denunciamo con dolore, ma con fermezza, questo rischio e supplichiamo i Pastori di prenderne coscienza e di evitare tanta sciagura, che porterebbe la nostra Chiesa e il nostro Paese fuori dalla storia.

Si può pensare che il progetto di legge in discussione non sia ottimale, ma è anche indispensabile distinguere tra ciò che per i credenti è obbligo, non solo di coscienza ma anche canonico, e quanto deve essere regolato dallo stato laico per tutti i cittadini. Invitiamo la Conferenza episcopale a equilibrare le sue prese di posizione e i parlamentari cattolici a restare fedeli al loro obbligo costituzionale di legislatori per tutti.



E ADESSO LA FAMIGLIA
di Rosy Bindi

Famiglia Cristiana 18 febbraio 2007

Intervista a Rosy Bindi di Alberto Bobbio

D: Ministro Bindi, ha ridotto il danno con il disegno di legge sui "Dico", rispetto alle richieste della sinistra radicale?

R: «Mi sembra riduttivo assegnarmi il ruolo di riduzione del danno. Sono convinta che sia una buona legge, la migliore possibile. Abbiamo messo una buona locomotiva su un binario giusto. Non abbiamo inventato nessuna formula giuridica nuova, ma ci siamo limitati a riconoscere diritti e doveri a persone che vivono in una situazione di fatto, che è la convivenza, fondata sull'amore, l'af-fetto, la solidarietà. Questa situazione di fatto non viene riconosciuta, ma semplicemente certificata applicando il vigente regolamento anagrafico».

D: Cioè si va all'anagrafe e si dichiara la convivenza?

R: «No, basta dire che si coabita».

D: E sulla carta di identità ci sarà scritto convivente?

R: «Assolutamente no. Resterà scritto "stato: libero". All'anagrafe interessa solo che una persona risulti residente con un'altra. Da questa situazione discendono diritti e doveri, perché noi abbiamo inteso tutelare le parti più deboli».

D: Ma le critiche sono state pesantissime da parte della Chiesa...

R: «Alla stesura di questa legge hanno collaborato molti giuristi cattolici. Il mio consigliere giuridico è il professor Renato Balduzzi, presidente del Meic, il Movimento ecclesiale di impegno culturale; e il capo dell'ufficio legislativo del ministro Pollastrini è il professor Stefano Ceccanti, ex presidente della Fuci, gli universitari cattolici. Abbiamo dialogato con tutti. Certo, se ti dicono che non puoi fare nessuna legge, allora si va avanti da soli. Ma ci hanno chiesto di fare una buona legge. E così è avvenuto».

D: Però anche alla sinistra radicale questo testo non piace...

R: «Devo dare atto alle anime più radicali del Consiglio dei ministri di aver capito che questa è una legge importante, ma che doveva avere i contenuti e il metodo che ha, perché altrimenti non sarebbe stata accettata».

D: C'è il rischio che in Parlamento venga stravolta?

R: «Non deve essere modificata né da zeloti, né da zelanti. Non bisogna cambiare né locomotiva, né binari. Spero che vi siano pochi emendamenti migliorativi».

D: Eppure molti dicono, anche tra i cattolici, che è una legge inutile, perché le tutele ci sono già nella legislazione ordinaria. Lei cosa risponde?

R: «Nella giurisprudenza e nelle leggi ci sono, qua e là, delle tutele. Ma qui sono direttamente esigibili. Come indicava il programma dell'Unione».

D: In questo modo avete dato una sorta di cittadinanza alle unioni di fatto?

R: «Ribadisco che noi ci siamo occupati dei diritti e dei doveri delle persone, senza creare un nuovo status giuridico. Tuttavia, l'ordinamento giuridico ha anche questa funzione: non può basarsi sul sommerso, sul clandestino, sul "si sa, ma non si dice"».

D: Tutte le coppie di fatto devono aderire alla legge?

R: «No, si può vivere insieme senza dichiararsi conviventi. Così non si accede ai benefici di questa legge».

D: Sono stati sollevati alcuni problemi: primo la pensione di reversibilità...

R: «La parola reversibilità nel disegno di legge non c'è, proprio perché è un istituto del coniuge. Nella riforma delle pensioni affronteremo questo problema. Ad esempio, si potrebbe prevedere la possibilità di decidere a chi lasciare una parte dei contributi che uno ha maturato: al fratello, alla sorella, al nipote o, appunto, al convivente».

D: Il capitolo delle successioni...

R: «Su questo punto ho avuto i dubbi più profondi. È il punto sul quale il convivente potrebbe essere equiparato al coniuge. Ma siamo riusciti a evitare questo rischio perché il convivente acquisisce dopo nove anni il diritto di entrare a far parte delle disponibilità dell'altro convivente, senza nulla togliere ai figli e agli altri parenti».

D: Lo scoglio più grande sono stati gli omosessuali. È d'accordo?

R: «Senza dubbio».

D: Si poteva evitare?

R: «No. In materia di diritti della persona, nessuno può essere discriminato e tutti devono essere accolti e rispettati nella propria identità. Questo prevede la nostra Costituzione».

D: Adesso però bisogna occuparsi della famiglia. Lei cosa intende fare?

R: «Ho già pronto un disegno di legge per superare tutte le discriminazioni tra figli nati nel matrimonio e fuori dal matrimonio. I bambini non devono subire le scelte dei genitori. E, poi, in primavera organizzerò la Conferenza nazionale sulla famiglia».

D: Non era meglio partire da queste cose, invece che dalla discussa questione delle coppie di fatto?

R: «Ho dedicato tre settimane a questo disegno di legge per evitare che ci fosse una contaminazione con la famiglia. Ma prima, nella legge finanziaria, ho lavorato a scelte strategiche a favore della famiglia: lotta al lavoro precario, misure per sostenere la maternità, 90.000 nuovi posti in tre anni negli asili nido. Sta per essere varato un piano casa. Abbiamo previsto 3 miliardi di euro per assegni familiari e detrazioni fiscali. Rilanceremo i consultori familiari, trasformandoli in veri e propri centri famiglia. E abbiamo pronto un "piano tariffe" per le famiglie numerose».



DA VESCOVO COMBATTEREI PRIMA MAMMONAdi mons. Luigi Bettazzi
la Repubblica 11 febbraio 2007

Egregio dott. Augias, leggo su Repubblica, a commento del «non possumus» sui Pacs, o Dico, che non sarebbe moralmente possibile per i cattolici appoggiare un centrosinistra che contrasta con la morale cattolica. È vero ed è la comprensibile preoccupazione del Papa e della Cei che un'equiparazione di ogni tipo di coppia al matrimonio eterosessuale potrebbe favorire lo sgretolamento di un'istituzione fondamentale. Giungere però ad una scelta politica come conseguenza della fede, credo sia davvero un salto non solo illegittimo ma sconcertante.

La legge sui Dico non obbliga nessuno, assicura solo garanzie legali che del resto i politici (quelli stessi che difendono la «famiglia cattolica») si sono già attribuiti; così come governi «democristiani» presero atto che la maggioranza degli italiani accettava il divorzio e entro certi limiti purtroppo anche l'aborto.

Quello che invece non riesco a capire da cattolico e, vorrei dire, da vescovo è che per questa tolleranza democratica si voglia sconfessare un orientamento che almeno nelle intenzioni parte dalla difesa di chi ha maggiori difficoltà in linea con il Vangelo che assicura il «regno» a chi provvede ai senza lavoro ai senza casa. La vera scelta è solo quella fra Dio e Mammona (v. Lc 16, 13), dove Mammona è mettere al primo posto i soldi, il potere.

Vorrei che come formazione ad un autentico cristianesimo, una volta indicati i pericoli che possono accompagnare il cammino dei Dico, si combattesse con non minore energia la spirito di Mammona, che sta inquinando il nostro mondo, alimentando la violenza, inaridendo i nostri giovani.

Luigi Bettazzi

Vescovo emerito di Ivrea



SULLA LEGGE NESSUNA IMPOSIZIONE
di Oscar Luigi Scalfaro

La Repubblica 15 febbraio 2007Intervista a Oscar Luigi Scalfaro di Vittorio Ragone

Un altolà senza sfumature al cardinale Ruini, se davvero vuole imbrigliare nei precetti della Chiesa la libertà di decisione politica sui Dico, un tempo noti come Pacs. Oscar Luigi Scalfaro, presidente emerito della Repubblica e padre nobile del centrosinistra, non è contratrario alla mediazione Bindi-Pollastrini, e teme la «distruzione» del cattolicesimo parlamentare se la Cei dovesse lanciare diktat a chi riconosce il suo magistero. In sessant´anni - dice - questo non è mai accaduto. Prima di correre certe avventure Ruini dovrebbe avviare «un ampio esame» dentro l´assemblea dei vescovi.
D: Presidente Scalfaro, il Parlamento aspetta di sapere quale forma assumerà il "non possumus" di Ruini sulle unioni di fatto. Che cosa succederebbe se la Cei o il Papa avanzassero richieste "vincolanti" per i politici cattolici?

R: «La Chiesa, pure nella fermezza dei suoi principi, non ha mai compiuto in sessant´anni interventi che ponessero a un bivio obbligato i parlamentari cattolici. Io confido che interventi del genere non ci saranno. Se dovessero invece avvenire, distruggerebbero la possibilità stessa di una presenza dei cattolici in Parlamento in condizioni di dignità e libertà, quella libertà che consente l´assunzione individuale delle responsabilità. Ma a chi serve, oggi e domani, un gruppo di parlamentari che si limitano a eseguire gli ordini? Certo non alla Chiesa. Sarebbero una inutile pattuglia, e l´effetto sarebbe una crescita di laicismo esasperato».

D: Il centrosinistra non drammatizza troppo l´iperattivismo vaticano? È vero che è stato l´Avvenire a citare Pio IX, ma dall´altra parte si invoca il Risorgimento, si tracciano scenari foschi, si ipotizza, come anche lei fa, il naufragio del cattolicesimo politico. Eppure gli scontri tra l´etica cattolica e quella laica, condivisi e alimentati dalla Chiesa, in Parla mento e fuori non sono mancati. Gli anni Settanta, il divorzio, l´aborto, i referendum. Grandi asprezze, ma alla fine siamo tutti qui, comprese le leggi soggette ad anatema.

R: «Vede, io sono nella vita politica da 61 anni, dalla Costituente. È vero, abbiamo attraversato come parlamentari cattolici momenti faticosi, difficili, prese di posizione delicate. Ma già dall´Assemblea costituente fu preminente in tutti la ricerca di un denominatore comune sui temi dei diritti e della dignità delle persone. Ne nacque un documento d´eccezione, la Carta, del quale dobbiamo ringraziare i grandi nomi che resero un tale servizio al popolo italiano: penso, nel mondo cattolico, a De Gasperi, a La Pira, a Dossetti, più tardi a Aldo Moro e a tan tissimi altri rappresentanti del popolo. Il grande tema per noi cattolici era fare sintesi fra diritti e doveri del cittadino e diritti e doveri del cristiano, portare nella politica il pensiero filosofico che anima i principi cristiani sempre con grande rispetto per le impostazioni altrui. L´articolo 67 della Costituzione stabilisce che ogni membro del parlamento rappresenta la nazione e esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Al tempo del divorzio e dell´aborto, che lei cita, in entrambi i casi il partito mi diede incarico di parlare ufficialmente a nome del gruppo democristiano. Non dimentico, e ne ringrazio la Provvidenza, che nell´uno e nell´altro caso ebbi ascolto ampio, proprio dagli avversari politici: non condivido le tue tesi - mi fu detto - ma apprezzo lo sforzo di dialogare. Dopo la sconfitta sul divorzio qualcuno in assoluta buona fede sostenne che non potevamo collaborare a formulare gli articoli della legge perché così facendo avremmo aiutato un istituto che contestavamo. Ma giustamente vinse la tesi che quando cade l´affermazione di un principio rimane sempre il dovere di lottare per il male minore».

D: Insomma, lei sostiene che la capacità di ascolto reciproca non è venuta mai meno, nemmeno quando lo scontro era al massimo della tensione.

R: «Non solo. C´è anche un altro insegnamento. La chiarezza delle posizioni della Chiesa, e il risultato del referendum che diede ragione alle tesi contrarie a quelle sostenute da noi cattolici, non impedirono che tanti cattolici si servissero poi dell´istituto del divorzio. Ne è prova che da anni all´interno della gerarchia ecclesiastica si discute sull´ammissi-ilità dei divorziati ai sacramenti».

D: L´invito al pragmatismo, per tornare a Ruini, onestamente oggi non sembra avere grandi chance. La grandinata vaticana - da Avvenire a Sir, dall´Osservatore allo stesso Ratzinger - non lascia grandi margini alla mediazione.

R: «La profonda devozione e ubbidienza alla Chiesa madre e maestra - e mi piace ricordare che fu la saggezza di Giovanni XXIII a dare questa preminenza alla maternità della Chiesa - mi fa confidare che il richiamo che è stato annunziato, e che manifesta un diritto e anche un dovere della Chiesa di dire il suo pensiero, non abbia la forma di un'imposizione».

D: Il fronte dei 60 parlamentari della Margherita che difendono i Dico non ha un gran futuro, se l´intervento di Ruini dovesse trasformarsi in un vero e proprio precetto. Non crede?

R: «Un atteggiamento rigido della Chiesa sfascerebbe tutto. Ne sono convinto».

D: Lei, pur da senatore a vita, è un uomo del centrosinistra: quale potrebbe essere una contromisura per far prevalere la moderazione?

R: «Posizioni da parte della Chiesa che portassero a conseguenze tanto pesanti, così come non si sono verificate neanche quando furono compromessi l´indissolubilità del matrimonio e il diritto alla vita, richiederebbero a mio avviso un ampio esame nell´Assemblea dei vescovi italiani, la Cei».

D: Nel merito della legge, come giudica la soluzione Dico "inventata" da Bindi e Pollastrini?

R: «Mi piace ricordare che quando il presidente del consiglio Romano Prodi annunziò nella formulazione del programma il desiderio di riconoscere dei diritti e dei doveri a ciascun cittadino, affermò espressamente che con quel programma prendeva l´impegno di non toccare o turbare l´istituto del matrimonio così come previsto dalla Costituzione. Mi pare giusto non fare processi alle intenzioni. Le proposte di legge che sono state presentate da posizioni a mio avviso non accettabili sono giunte con non poca fatica (quanto intensa quella del ministro Bindi!), in questo necessario dialogo tra impostazioni diverse, a un testo che come tutti i testi è indubbiamente migliorabile ma che certamente non prevede - per essere chiari - il matrimonio fra gli omosessuali o una formula mascherata ma simile. Si tratta di dare eventuali, maggiori garanzie? Se ne può discutere, rimanendo chiaro un punto: se al dunque si fosse richiesti di un voto esplicito che preveda di fatto il matrimonio per gli omosessuali, allora, senza bisogno di disturbare la dottrina della Chiesa cattolica, è chiaro che un voto a favore non si può dare perché in contrasto con una realtà di storia dell´umanità, che prevede per il matrimonio un maschio e una femmina».

D: Il matrimonio gay, per la verità, sembra essere un simbolo e uno spauracchio, anche se di prima fila. Quel che la Chiesa sembra temere nella sostanza è che il riconoscimento delle unioni civili, innanzitutto eterosessuali, sgretoli la famiglia "naturale" su cui si fonda la sua dottrina.

R: «È vero, c´è chi obietta che aprendo una seconda strada si dà ai cittadini con troppa facilità la possibilità di un´altra scelta. La preoccupazione della Chiesa è più che condivisibile. Ma il problema vero è rafforzare nei cattolici la fede, in modo che sappiano scegliere secondo i principi nei quali credono. Più che allo Stato, al quale si chiede di impedire una duplice strada che consentirebbe gli abusi, il tema è affidato alla evangelizzazione e alla formazione dei fedeli. Lo Stato deve pensare a tutti e, pur non tramutando speranze, desideri e sogni in diritti deve, se esistano basi certe per individuare quei diritti, riconoscerli dove e quando ci sono».

Gli articoli sono tratti da Adista n°15 e 16 del 24 Febbraio 2007

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Lunedì, 19 Febbraio 2007 12:50

«LA RICONCILIAZIONE? UN’ARTE NEL CUORE»

Colombia / L’impegno di padre Leonel Narváez Gómez

«LA RICONCILIAZIONE? UN’ARTE NEL CUORE»
«Per anni ho lavorato in prima persona ai negoziati di pace tra il governo e le Farc nella regione del Caguán. È in quel periodo che ho sperimentato come, a impedire la fine dell’annoso conflitto colombiano, oltre a una serie di problemi economici, politici e militari, esistano altre questioni da risolvere, non meno importanti, di tipo soggettivo: rabbie accumulate, senso di esclusione, desiderio di vendetta. È anche a causa di questi problemi soggettivi se nel Caguán, dopo tre anni di intenso lavoro sulle cause oggettive del conflitto, non si è riusciti a costruire la pace».

A parlare in questi termini è padre Leonel Narváez Gómez, 55 anni, colombiano, missionario della Consolata (M.M., novembre 2004, pp. 46-48). Per dieci anni, prima di finire nella zona più calda della Colombia, padre Leonel ha fatto il missionario in Africa, tra gli oromo, in una zona desertica, a cavallo tra Sudan e Kenya. Poi studi di sociologia, quindi l’esperienza del Caguán. Una tappa fondamentale dove ha maturato la convinzione che i conflitti - tanto in Colombia che altrove - non potranno mai essere superati del tutto se non si spengono prima i focolai di rancore e odio che ciascuno porta nel cuore. Da allora padre Leonel si è dedicato anima e corpo a studiare le cause soggettive del conflitto con l’idea di trovare un metodo per neutralizzarle. È partito per l’Università di Harvard e lì ha trovato un gruppo di professori e professionisti, che hanno collaborato attivamente alla sua ricerca (fra questi anche il teologo Harvey Cox). Per quasi due anni questo think tank si è radunato ogni giovedì a lavorare sui meccanismi sociologici e psicologici che conducono al perdono e alla riconciliazione. E da questi incontri ha preso forma gradualmente, plasmato anche dalla realtà colombiana, un metodo che fonde l’essenziale del messaggio cristiano con i contributi più avanzati delle scienze sociali. Il metodo prevede una serie di tappe e di strumenti per favorire la graduale accettazione dell’altro, fino ad arrivare al perdono. L’itinerario  ha un effetto catartico e aiuta le persone a liberarsi di rabbia e rancore che, accumulandosi, si trasformano in veleno.

Dalle aule di Harvard, padre Leonel è tornato in Colombia per applicare la sua «scienza» del perdono e della riconciliazione agli ex combattenti delle Farc e dei paramilitari, abituati a vivere nell’odio e nella violenza, ma anche a tutte le persone che per qualsiasi motivo sono imprigionate dall’odio e dal rancore, tanto in famiglia quanto nell’ambito del lavoro. Il suo progetto si chiama Escuela de perdón y reconciliación, per tutti Espere - acronimo spagnolo che sta per Scuola di perdono e riconciliazione - ed è gestito da una Fondazione (una ong regolarmente registrata) che ha sede nella casa provinciale dei missionari della Consolata di Bogotá. Attualmente sono 1.200 ex combattenti che vengono seguiti direttamente da Espere, su un totale di 32 mila che, deposti i kalasnikov, si stanno reinserendo nella società. Ma il numero è destinato certamente a crescere in futuro, visti gli eccellenti risultati dell’iniziativa. A oggi, l’esperienza di Espere ha toccato 20 città in Colombia, coinvolgendo circa 50 mila persone. Attualmente l’Escuela de perdón y reconciliación è presente in sette Paesi latinoamericani e in due africani. Padre Leonel ha ricevuto inviti a presentare la sua esperienza in Irlanda e in Sudafrica; lo scorso settembre è stato insignito a Parigi della Menzione d’onore del premio Unesco di Educazione alla pace 2006.

I corsi dell’Espere coinvolgono ognuno una ventina di persone di ogni strato sociale. I partecipanti, in seguito, vengono invitati a ripetere l’itinerario formativo nei loro rispettivi contesti, a piccolissimi gruppetti di 4-5 persone. Attualmente ci sono anche alcuni ex combattenti che aiutano nell’accompagnamento: il loro contributo è molto prezioso perché conoscono bene i meccanismi psicologici dei loro ex colleghi.

Il metodo Espere si basa sull’utilizzo di simboli e gesti di forte potere evocativo. Commenta padre Leonel: «Puntiamo a toccare le persone nel profondo, laddove nascono le emozioni. Un ambito spesso trascurato dalla Chiesa; catechesi e omelie spesso parlano al cervello, non al cuore».

A quanto pare il metodo funziona. A sentire padre Leonel, «il tema del perdono ha ormai superato gli steccati e sta gradualmente entrando nel dibattito politico. Si è scrollato di dosso un alone di ecclesialese che rischiava di confinare la questione in ambito esclusivamente religioso».

Interessante notare che anche in ambito universitario cresce l’attenzione per questo tipo di problematiche. Tanto che a Bogotá l’Espere collabora con il Centro per la soluzione dei conflitti, che fa riferimento alla «Uni¬versità della pace» del Costa Rica, un’istituzione legata all’Onu: nella capitale colombiana è attivo un corso che ha per titolo «Pedagogia del perdono e della riconciliazione» ed è curato dalla Fondazione.

Si diffonde sempre di più la convinzione che, nel cammino verso la pace, il perdono sia più importante persino della ricostruzione della verità, pur importantissima, e della giustizia. «Quando sono in gioco crimini atroci - spiega padre Leonel -, c’è un punto oltre il quale la ricostruzione della verità, in funzione dell’applicazione della giustizia, può voler dire accrescere la sofferenza, col rischio concretissimo di esacerbare ulteriormente gli animi e di istigare il desiderio di vendetta. In certe situazioni può essere meglio non sapere tutto e non far sapere tutto».

Per spiegare quanto a volte la verità ostacoli il perdono, padre Leonel racconta un aneddoto agghiacciante: «Una volta, mentre mi trovavo nel Caguán, venni incaricato di contattare i capi delle Farc per aver notizie di una persona rapita. Andai da loro ed essi mi dissero che l’avevano uccisa perché rea di essere un informatore della polizia. Poi mi consegnarono un pacchetto sigillato chiedendomi di farlo avere alla moglie. Il posto dell’incontro era impervio, c’erano volute sei ore di barca per raggiungerlo. La notte dissigillai il pacchetto e sentii che puzzava. Lo aprii e mi si presentò una scena raccapricciante: la scatoletta conteneva gli organi genitali della vittima. Decisi di non consegnare quel macabro ricordo. Forse che aggiungere altro dolore al dolore sarebbe servito a qualcosa?».

Un discorso insolito come questo ha ripercussioni profonde. Potrebbe, ad esempio, insinuare qualche dubbio sull’effettiva utilità delle varie  «Commissioni per la verità» istituite nei Paesi latinoamericani per sanare le ferite del passato: gli anni terribili delle dittature in Cile e Argentina, la guerra in Guatemala. «Non che queste commissioni non abbiano il loro valore, anzi! - precisa padre Leonel -. Il punto è che l’operazione di ricostruzione della verità, da sola, non è sufficiente. A un certo punto occorre mettere una pietra sopra e fare un passo avanti. Se non scatta la molla del perdono si rischia di rimanere prigionieri del passato, ostaggio dei propri ricordi, della voglia di far giustizia. Occorre che scatti una solidarietà per tutti e che venga data una possibilità di futuro anche agli autori dei crimini. Il traguardo non può che essere la riconciliazione».

Il rischio che la mera ricostruzione della verità finisca per esacerbare l’odio e il rancore interpella direttamente anche i giornalisti. La domanda è: meglio dar conto di tutto, cercando magari lo scoop, oppure provare a stendere un velo di oblio motivato, per evitare il perpetuarsi della collera?

Il cammino della pace in Colombia è lungo e richiede pazienza. Ma non ci sono alternative percorribili. L’attuale presidente colombiano, Álvaro Uribe, ha garantito una certa sicurezza e un certo ritorno della legalità. A quale prezzo, però? Gli effettivi dell’esercito sono passati da 120 mila a 392 mila unità (in larga parte pagati con i fondi del Plan Colombia). Ma, soprattutto, non si è costruito un contesto in grado di far voltare definitivamente pagina al Paese.

Cosa occorrerebbe? «A differenza di quanto accaduto in altri Paesi che hanno percorso con successo la strada della riconciliazione e della pace (penso al Sudafrica di Mandela e di Tutu) - dice padre Leonel - da noi mancano i mediatori. Persone credibili, in grado di essere davvero super partes e far dialogare le parti in conflitto». Un dialogo che a tanti pare una chimera. Se i paramilitari stanno in parte smobilitando, approfittando dei vantaggi che assicurano loro le recenti normative volute da Uribe, i guerriglieri delle Farc sembrano prigionieri della loro storia. Di recente, però, si è scoperto che un buon numero di membri del Parlamento colombiano appoggiano le azioni violente dei paramilitari. Padre Leonel non vorrebbe avventurarsi in giudizi politici, ma una sua idea per quello che negli ambienti accademici chiamano già il «post-conflitto» ce l’ha. «Conosco personalmente alcuni leader della guerriglia (tra i quali il temuto Tirofijo, uno dei grandi vecchi delle Farc - ndr). Hanno dedicato tutta la vita a combattere nella selva. Non possono adesso, dopo quarant’anni di latitanza, uscire come se niente fosse e reintegrarsi nella società. La verità è che il Paese dovrebbe avere il coraggio di preparare un’assemblea costituente alla quale potrebbero partecipare anche gli ex attori armati. Si potrebbe, inoltre, prevedere una Costituzione in senso federalista e immaginare che alcune porzioni del territorio godano di una relativa autonomia. Questa forse sarebbe una via d’uscita onorevole per tutti».

di Alessandro Armato
e Gerolamo Fazzini

Mondo e Missione/Gennaio 2007

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Lunedì, 19 Febbraio 2007 12:29

La Chiesa nel mondo

La Chiesa nel mondo

a cura di Ugo Bozzoli

MC Gennaio 2007

VATICANO
NEWS ANCHEIN ARABO

Alla vigilia della visita di Benedetto XVI in Turchia, tenutasi alla fine del mese di novembre scarso, l’agenzia di informazioni Zenit ha lanciato l’edizione in arabo delle notizie trasmesse. L’iniziativa ha luogo in collaborazione con il programma arabo della «Radio Vaticana», la principale fonte di informazione cattolica in questa lingua, e con «Oasis», rivista del patriarcato di Venezia.

L’edizione in arabo di Zenit in parte finanziata da «Aiuto alla Chiesa che soffre» (Acs). Zenit lancia questo servizio in risposta alle richieste delle comunità cristiane dei paesi arabi che chiedono di leggere la parola del papa e di conoscere i grandi avvenimenti della vita della chiesa direttamente nella propria lingua. Attraverso un’informazione rigorosa, il progetto cerca di essere un ponte di dialogo tra culture e religioni. Si può ricevere il nuovo servizio, di carattere quotidiano o settimanale, con un’iscrizione gratuita inviando un messaggio a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..
(Zenit)

INDONESIA
INCULTURAZIONE E VANGELO

Si è svolto a Bali, in Indonesia, dal 26 al 30 novembre2006, un incontro dei membri e consultori del «Pontificio consiglio per la cultura» e dei presidenti delle commissioni episcopali nazionali per la cultura. Il meeting è stato un vero mini-sinodo monografico sul tema dell’inculturazione del vangelo, che ha riunito i responsabili della cultura delle chiese dell’Asia. Ad essi, papa Benedetto XVI ha inviato un messaggio in cui afferma: «Sono convinto che ci sia un gran bisogno per tutta la chiesa di riscoprire la gioia dell’evangelizzazione, diventare una comunità ispirata con zelo missionario per far conoscere ed amare sempre più Gesù. Ovviamente - ha continuato - questa evangelizzazione deve essere accompagnata da un impegno verso un dialogo sincero ed autentico tra le culture e le religioni, contrassegnato dal rispetto, dalla reciprocità, dall’apertura e dalla carità». L’esortazione finale che Benedetto XVI ha rivolta ai partecipanti al summit sottolinea il fatto che l’evangelizzazione e l’inculturazione costituiscono due realtà inseparabili; entrambi gli elementi devono essere presenti se il vangelo di Cristo deve davvero essere incarnato nelle vite delle persone di ogni razza, nazione, tribù e lingua.

(Misna)

BRASILE
IN DIFESA: DEGLI INDIGENI

Il Consiglio indigenista missionario (Cimi) ha eletto presidente monsignor Erwin Krautler, vescovo della prelazia dello Xingu, con sede ad Altamira, dopo la scomparsa del suo predecessore, il compianto monsignor Gianfranco Masserdotti, vescovo di Balsas, deceduto il 17 settembre scorso in un incidente stradale. Monsignor Krautler, austriaco naturalizzato brasiliano, è un profondo conoscitore della realtà dell’Amazzonia e in particolare dello stato di Parà, che detiene la «maglia nera» per violazioni dei diritti umani, violenze legate al conflitto per il possesso della terra, minacce di cui sono bersaglio i difensori dell’ambiente e dei diritti fondamentali dei popoli nativi. Un contesto in cui, il 12 febbraio 2005, è stata ucciso a colpi di arma da fuoco lo missionaria statunitense Dorothy Stang, una vita speso al fianco dei poveri.

(Misna)

REGNO UNITO
APPELLO CONTRO BOMBE A GRAPPOLO

I vescovi della Gran Bretagna - insieme a esponenti di altre religioni, tra cui musulmani ed ebrei - hanno chiesto al governo di Londra di sostenere la creazione di un trattato internazionale per la messa al bando delle «bombe a grappolo» (cluster bombs), che provocano vittime soprattutto tra i civili. L’appello è stato rivolto dal vescovo di Birmingham, monsignor Wiliam Kennedy, in una lettera firmata da vescovi cattolici, esponenti delle Chiese metodista e battista e da rappresentanti delle comunità ebraica e musulmana. I rappresentanti religiosi hanno chiesto al governo britannico di mostrare «un chiaro impegno per la protezione dei civili durante i conflitti. Ogni azione sarà benvenuta come atto di pace dalle persone di ogni fede».

(Misna)

SPAGNA – ISOLE CANARIE
La «New Age» rappresenta un pericolo spesso sottovalutato per la vita dei cristiani. E’ quanto è emerso dalla «XXI Settimana di teologia» svoltasi dal 20 al 24 novembre presso la sede dell’«Istituto superiore di teologia» delle Isole Canarie, nella città di La Laguna. Secondo quanto ha spiegato Miguel Àngel Medina Escudero, coordinatore della settimana di studio, la «Nuova Era» pone un’autentica sfida alla chiesa, «perché ingloba già vari milioni di seguaci. La cosa particolarmente importante di questo movimento non è ciò che dice, ma ciò che non dice. E come una nebulosa che penetra tutto, alla quale è molto difficile opporre resistenza, visto che non si sa esattamente cosa sia».

«In essa confluiscono correnti e materiali presi dalle mitologie più diverse; dottrine di scienze occulte e delle scienze più moderne; credenze e tecniche ereditate dalla magia più primitiva e atteggiamenti religiosi raccolti dalle religioni più universali, dottrine gnostiche, principi di astrologia, pratiche spiritiste, conoscenze esoteriche, tecniche di meditazione...», ha continuato Escudero. Secondo il professore, la «Nuova Era» rappresenta molti pericoli per la fede cristiana: «Spersonalizza il Dio della rivelazione cristiana; sfigura la persona di Gesù Cristo, svalutando la sua missione, e ridicolizza il suo sacrificio redentore; nega l’evento irripetibile della sua Resurrezione con la dottrina della reincarnazione; svuota di contenuto i concetti cristiani della creazione e della salvezza; rifiuta l’autorità magisteriale della chiesa e la sua forma istituzionale; e relativizza il contenuto originale, unico e storicamente fondato del vangelo». Escudero ha quindi concluso rilevando, fra le altre cose, come «Tutti abbiamo il dovere di informarci ed educarci per comprendere questo fenomeno (che ha punti molto accettabili) ed essere preparati a rifiutare ciò che è incompatibile con la nostra fede».

(Zenit)

ARGENTINA
SOFTWARE LIBERO: VESCOVI A SCUOLA

Il complicato tema della «democratizzazione della tecnologia», in agenda della V Conferenza Generale dell’Episcopato latinoamericano (Celam), che si terrà ad Aparecida (Brasile) nel mese di maggio di quest’anno 2007, ha messo in crisi buona parte dei vescovi del continente sudamericano. Per illuminare i prelati sull’argomento, il Celam stesso ha organizzato, alla fine del mese di novembre, un laboratorio interdisciplinare che portasse alla pubblicazione di un breve documento che presentasse le esperienze in atto e i cammini di ricerca in cui si sta generando un processo di riflessione sul tema della democratizzazione delle tecnologie e, più in particolare, su un argomento specifico come quello del software libero. Il seminario dovrebbe anche presentare l’insieme di strategie oggi esistenti per permettere una maggior diffusione di questo tema nel continente latinoamericano. L’incontro si è tenuto a Buenos Aires, presso la sede argentina delle Pontificie opere missionarie.

(Aci Prensa)

DIOCESI DI MARSABIT (KENYA): CONTINUA LA TRADIZIONE
Il Santo Padre Benedetto XVI, in data 25 novembre 2006, ha accettato la rinuncia al governo pastorale della diocesi di Marsabit (Kenya), presentata da Mons. Ambrogio Ravasi, imc, per raggiunti limiti di età. Il Santo Padre ha nominato al suo posto Mons. Peter Kihara Kariuki, imc, finora vescovo di Muranga. A un vescovo missionario della Consolata succede dunque un confratello, continuando la tradizione iniziata in questa diocesi del Nord del Kenya da Mons. Cavallera. Il nuovo ordinario di Marsabit è il secondo vescovo missionario della Consolata ad essere spostato, quest’anno, da una diocesi all’altra del Kenya. Prima di lui era toccato a Mons. Anthony Mukobo, precedentemente vescovo ausiliare di Nairobi e successivamente nominato vicario apostolico di Isiolo, dopo l’uccisione di Mons. Luigi Locati, avvenuta il 1 4 luglio del 2005.

Nato 52 anni fa a Thunguri (Nyeri), Mons. Kihara ha fatto la sua professione religiosa nei missionari della Consolata nel 1979. Studente di teologia presso il St. Thomas Aquinas Seminary di Nairobi, è stato ordinato sacerdote nel 1983. Dal 1984 al 1988 ha prestato il suo servizio missionario in Colombia. Dopo un periodo di studio a Roma ha fatto ritorno in Kenya per lavorare nella formazione. Per vari anni è stato maestro dei novizi nel noviziato di Sagana. Il 3 giugno 1999 è stato nominato vescovo di Muranga da papa Giovanni Paolo Il. Il resto è storia di oggi. A Monsignor Ravasi, che lascia la guida della diocesi di Marsabit dopo ben 25 anni di servizio episcopale, va un grazie sincero per il lavoro svolto e la testimonianza offerta. A Monsignor Kihara che ne prende il posto, vanno i nostri migliori auguri.

(ismico.org)

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Lunedì, 19 Febbraio 2007 12:23

RACCONTATELO A TUTTI

RACCONTATELO A TUTTI


Come i primi discepoli di Gesù, «abbiamo visto il Signore» afferma il messaggio finale, riassumendo l’esperienza fatta dai delegati al Congresso missionario asiatico. l partecipanti dal «Libano al Giappone, dal Kazakistan alla Mongolia e all’Indonesia» hanno vissuto un «nuovo cenacolo», ascoltando e condividendo «il racconto di numerose storie ispiratrici: storie di vita, fede, eroismo, servizio, preghiera, dialogo e proclamazione. Siamo stati pervasi da una gioia contagiosa. La storia di Gesù è stato il filo conduttore che ha legato tutte queste esperienze di vita in una grande narrativa. Tutti i colori, popoli, lingue, culture, valori religiosi e gesta del popolo dell’Asia hanno formato un unico grande arazzo».

È soprattutto lo Spirito Santo «il grande narratore; egli guida la chiesa in ogni situazione a dire, specialmente attraverso la testimonianza di una vita trasformata, che la missione significa mantenere viva la storia di Gesù, formare comunità, essere compassionevoli, aiutare “l’altro”, portare la croce, testimoniare che Gesù è una persona viva».

Il Congresso, continua il messaggio, «ha fornito nuove prospettive per il nostro compito di dialogare con i popoli, religioni e culture in Asia» e ha affidato a tutti i partecipanti l’impegno «di portare a casa nuove intuizioni sulla storia di Gesù, particolarmente le sue dimensioni asiatiche». Da qui derivano alcune raccomandazioni concrete: approfondire l’esperienza di Gesù nella vita personale e comunitaria, specialmente mediante l’eucaristia; favorire la partecipazione dei laici e dei giovani alla vita della chiesa; crescere in una spiritualità del dialogo.

Quella del dialogo è posta come priorità da sviluppare prima di tutto a livello formativo. Le istituzioni educative cristiane, specie i seminari, sono chiamate a «riconoscere malintesi e pregiudizi e a scoprire la storia di Gesù nelle altre religioni». I valori culturali asiatici devono essere integrati nel vivere cristiano,«tanto più quando tali valori vengono erosi da consumismo, materialismo e altre forze».

Infine si chiede alla Conferenza episcopale asiatica di organizzare congressi missionari a livello nazionale o regionale, continuando così a raccontare la storia di Gesù in Asia.

MC Gennaio 2007

Pubblicato in Mondo Oggi - Ecclesiale
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Lunedì, 12 Febbraio 2007 12:47

IL MATRIMONIO NEL VANGELO E NELLA TEOLOGIA

IL MATRIMONIO NEL VANGELO E NELLA TEOLOGIA

Svelare le mistificazioni e le menzogne
A mio modo di vedere, è bene affrontare il referendum traendone tutti i vantaggi possibili, una volta che una certa parte ne ha messo in moto la macchina e nonostante che esso, con tutta evidenza, voglia coprire una manovra con obiettivi reazionari.

Credo che il primo vantaggio sia proprio quello di convocare le masse ed in specie le comunità cristiane, come qui, stasera, ad affrontare in modo critico questo come altri problemi in cui rimane inceppata, per mancanza di consapevolezza, la nostra crescita sociale. Affrontare questi problemi, per svelare tutte le mistificazioni, le menzogne, concretizzate e dissimulate all'interno di certi principi suggestivi.

Parlando da cristiano a gente che in gran parte si ritiene tale, ci tengo a dire che il momento che stiamo vivendo è proprio il momento in cui dobbiamo abbattere (noi ne siamo i primi responsabili) quella che chiamerei l'ideologia cattolica, come ideologia di copertura del mondo borghese, il quale mondo borghese trova vantaggio nel coprire i suoi obiettivi di conservazione sociale con dei valori cosiddetti cristiani che hanno ancora una grandissima forza di suggestione nelle coscienze.

La difesa della famiglia cristiana è un aspetto dell'ideo-logia cattolica che, molto di più di quanto potremmo pensare, nasconde la volontà di conservare un certo tipo di società e un certo tipo di sistema di rapporti di proprietà. Alzare quindi questo velo è in un sol momento recuperare la possibilità di un rapporto più vivace, più liberatorio col Vangelo e smascherare le reali intenzioni della classe dominante.

Così, quando i nostri vescovi hanno creduto di dover convocare i cattolici a una battaglia, la battaglia della indissolubilità giuridica del matrimonio in Italia, hanno fatto riferimento a un modello cristiano della famiglia, e certo un tale riferimento non può non avere risonanza nella coscienza di una larga parte del popolo italiano, anche di quella che politicamente ha fatto delle scelte dissenzienti nei confronti della Chiesa.

Non esiste un modello cristiano di famigliaChe cosa si nasconde, però, dietro questo cosiddetto modello cristiano della famiglia? È lecito attribuire al messaggio cristiano un modello di famiglia quale quello che abbiamo ereditato dal passato e che ancora sopravvive? Ecco, la risposta è subito np. Si tratta appunto di una menzogna, non di quelle architettate da chi sa quale mal intenzionato, ma di quelle menzogne che nascono per una specie di escrescenza storica progressiva, sulla spinta di altre ragioni che non sono di tipo ideale, ma pratico.

Non esiste la "famiglia cristiana", essa è appunto un falso valore. Io vorrei mostrarvi come liberandoci da questa falsificazione, ricercando anche le ragioni per cui essa è nata e si è fatta valere e riferendoci con coscienza liberata alle esigenze evangeliche, noi ci mettiamo in movimento tra le forze che mirano a far crescere la nostra società e liberarla anche da altre schiavitù.

Che cosa intendiamo quando si parla di modello cristiano della famiglia? Noi possiamo riferirci o al particolare ordinamento giuridico della famiglia, quello che è stato elaborato lungo i secoli dalla Chiesa cattolica, oppure ad un particolare concetto etico, morale della famiglia, che, anche indipendentemente dall'ordinamento giuri-dico-canonico, si è fatto valere da parte della società italiana. Per cui si dice che la famiglia tipica italiana è una famiglia di formazione cristiana.

Ora, spieghiamoci su questo punto. Intanto sta di fatto che quando noi parliamo della famiglia secondo l'ordi-namento canonico, quello che per adesso rimane in prima gestione della Sacra Rota e dei Tribunali diocesani, noi non dobbiamo affatto ritenere che si tratti della traduzione giuridica di un ideale evangelico. Si tratta invece di una creazione storica, precisamente databile, di cui è responsabile la Chiesa cattolica.

I primi cattolici non avevano un ordinamento giuridico proprio della famiglia. Essi vivevano la vita di famiglia, ed anche diremmo istitutivi, secondo il costume del tempo. Non c'era, per dir così, il matrimonio in chiesa; non c'era una anagrafe o un tribunale ecclesiastico per i matrimoni, non c'era il prete, al matrimonio. I cattolici si sposavano come tutti gli altri. Non sentivano alcun bisogno di dare al loro matrimonio un ordinamento giuridico particolare all'interno del generale ordinamento giuridico della società in cui vivevano, specialmente in quella romana.

Ad esempio, là dove erano le famiglie a stabilire il matrimonio dei figli, i primi cristiani facevano come gli altri: il padre di famiglia destinava alla figlia un dato marito, d'accordo con la famiglia del promesso sposo, senza che i due interessati potessero aggiungere nulla, perché questo era il costume.

Inutile quindi andare a cercare nei primi cristiani un modello di "famiglia cristiana". Così, per quanto riguarda il modello etico della famiglia, non esiste un concetto etico specificamente cristiano, nei primi secoli. C'è una visione, se vogliamo, di fede, teologale, cioè legata al riferimento a Cristo. Non esiste però un ideale di famiglia con particolari contenuti morali. La prassi familiare si modellava sul costume morale del tempo. Anche se è chiaro che il cristianesimo impose un rigore morale, un rifiuto di certe forme di depravazione, una condanna di certe degenerazioni; però non disse cose diverse da quelle che poteva dire l'etica degli stoici o dei pitagorici. Quindi il cristianesimo non si presenta con una sua etica familiare formulata nei primi tempi.

Come nasce il modello cristiano della famiglia
Solo quando la Chiesa, dopo Costantino, e precisamente con Giustiniano, acquista una responsabilità di tipo sociale, per cui tutti i momenti della vita sociale vengono gestiti dal clero, incomincia a formarsi un ordinamento matrimoniale cristiano che, come vedremo, si è poi accresciuto, si è arricchito, si è accreditato in ogni modo fino a trovare il suo sigillo nel Concilio di Trento e a diventare anche un modello di ispirazione per molti ordinamenti giuridici civili. Il codice napoleonico fu in gran parte tributario di questa tradizione giuridica della Chiesa medioevale.

Tuttavia ci domandiamo se il matrimonio cosiddetto cristiano ha veramente obbedito alle esigenze evangeliche o non piuttosto alle esigenze della società del tempo. La risposta è chiara: la cosiddetta famiglia cristiana, con tutti i connotati giuridici ritrovabili nel codice canonico, con tutti i connotati etici ritrovabili nel costume esemplare, è un prodotto storico e, come tale, relativo.

Per cui io non riesco a capire, proprio dal punto di vista diremo dell'individuazione culturale, che significhi difendere in una società pluralistica un modello cristiano di famiglia, perché non so quale dia questo modello, perché non si dà un modello proprio del cristiano.

La famiglia cristiana, se noi la conserviamo come prodotto storico ereditario, nasconde invece in sé particolari pregiudizi, particolari difformazioni, particolari rapporti sociali legati allo sfruttamento che sono tutti da rifiutare.

Caratteristiche superate della famiglia cristiana
Quali sono queste caratteristiche storiche da considerare superate? Innanzitutto è chiaro che l'unità della famiglia cristiana usufruiva di un dato economico, era l'unità patrimoniale. Il padre di famiglia era l'unico responsabile del patrimonio familiare, era lui l'unica figura economica della famiglia. E quindi l'unità della famiglia, anziché essere il prodotto della scelta cosciente dei coniugi, era un portato fatale dell'indivisibile unità patrimoniale. Che cosa avrebbe potuto fare una buona donna cristiana, si fa per dire, di ceto povero, se avesse se avesse avuto mille motivi per lasciare il marito: andare a morire di fame o essere rifiutata dalla società abbiente come donna deplorevole, di cattivi costumi, ecc. La donna era legata a questo giogo dell'indissolubile monarchia economica del padre di famiglia.

A reggere l'indissolubilità della famiglia, oltre a questa ragione economica, esisteva un ambiente cosiddetto monoculturale, cioè a cultura unica, per cui tutti gli elementi culturali dell'ambiente spingevano a ricercare la propria identità nella famiglia di appartenenza.

Una donna non aveva un suo mondo culturale. I figli non avevano un mondo culturale autonomo. Non c'era-no spazi diversi per l'esperienza di vita. La famiglia rappresentava il luogo normale e continuativo dell'esperien-za culturale. L'unità quindi si manteneva perché mancavano forze centrifughe, aperture di orizzonti diversi per i componenti della famiglia. Pensate, ad esempio, al legame quasi fatale fra il lavoro del padre e del figlio.

In terzo luogo c'era la subordinazione della donna all'autorità maritale, che era una norma assoluta. L'attività pastorale della Chiesa ha in questo una specifica responsabilità, perché il modello che si forniva alla donna era un modello di subordinazione al marito. La "donna cristiana" è quella che dice sempre di sì al marito, che non ha in nessun campo iniziativa propria, le cui virtù sono tutte una garanzia alla tirannide maschile e i cui compensi mistificanti sono l'essere l'angelo del focolare.

Perfino san Paolo porta riflessi della condizione sociale della donna dei suoi tempi, quando dice che la donna deve essere sottoposta al marito, o deve coprirsi il capo quando entra in assemblea perché il capo della donna è l'uomo. San Paolo non rivela niente che abbia rapporto con la liberazione portata da Gesù Cristo Assume norme di comportamento proprie della società ebraica. Ma noi dobbiamo sapere che la fedeltà alla parola di Dio non è fedeltà ai modelli sociologici del comportamento, legati ad una certa fase dello sviluppo storico. La parola di Dio non assolutizza, non rende normativi quei modi di comportamento, ci esorta anzi a liberarcene.

E alla fine c'era il pessimismo sessuale, che svuotava la famiglia di ogni significato positivo di comunione spontanea a tutti i livelli e relegava la vita sessuale a una funzione di servizio in rapporto all'azione.

Il matrimonio è per i figli. In realtà, pensate che nel passato, anche in quel passato che certi nostalgici rimpiangono, il consenso libero della donna al matrimonio era una circostanza neanche presa in considerazione. La donna aveva così radicalmente accettato il modello impostole dalla società e dalla Chiesa che aveva perfino vergogna a dire che desiderava prender marito; magari lo desiderava con tutta se stessa, ma tale desiderio rimaneva inibito. Doveva esser lei, la donna cercata. Doveva essere senza iniziative e con un'etica del comportamento femminile che voi conoscete bene.

La stessa definizione della donna era di tipo biologico. La donna si definiva in rapporto alla sua biologia: era vergine o madre. Non persona, come l'uomo, capace di decidere della propria vita indipendentemente dalla condizione biologica; ma legata strettamente a questa, con delle sfere di mortificazione terribili, come la donna che non ha sposato, la zitella, considerata una donna fallita.

Oggi ci troviamo nella situazione in cui lo sviluppo della società ha messo in crisi le componenti di struttura che sorreggevano un certo tipo di famiglia cosiddetta cristiana. Abbiamo una crisi della famiglia che per molti è la crisi della famiglia cristiana, ma che invece è la crisi della famiglia tradizionale e niente altro.

Allora, un credente, quali doveri ha in questo momento? Non di stringersi di far quadrato attorno a un modello di famiglia che non ha più nessuna ragione storica di continuare, ma rifarsi all'esigenza evangelica, interrogarsi di fronte al Vangelo.

Ora, secondo me, il Vangelo, non ci dà nessun esempio di famiglia precisa. Anche la sacra famiglia è un'in-venzione posteriore, borghese, perché la famiglia di Nazareth, non è un modello di famiglia, per il semplice fatto che, almeno nelle convinzioni di fede, Maria e Giuseppe non erano autenticamente marito e moglie. Quindi, presentare come modello di famiglia un modello in cui proprio l'aspetto principale non era integro, significa fare una mistificazione.

Indicazioni evangeliche
Occorre domandarsi piuttosto in che senso il Vangelo si apre a questa esperienza particolare della vita che è l'amore nella famiglia, nella linea della liberazione, cioè nella crescita secondo il disegno di Dio.

A me pare che ci siano dei punti fermi, questa volta autenticamente fermi, a cui fare riferimento in questo tentativo di recupero del significato evangelico che può avere la vita nell'amore, la vita familiare. Innanzi tutto , è sicuramente un'affermazione di fondo del Vangelo che dinanzi a Cristo non c'è nessuna differenza fra l'uomo e la donna, dinanzi a Cristo non c'è né maschio né femmina.

Quelle discriminazione desunte dalla realtà sociologica, che hanno un riflesso nella sacra scrittura, devono essere subordinate a questa che è l'autentica rivelazione in rapporto alla resurrezione: in Gesù Cristo la disparità tra l'uomo e la donna è abolita. Certo noi sappiamo che la parola del Vangelo non si presta a diventare – guai del se lo facessimo – un fondamento per nuovi ordinamenti giuridici; perché la parola del Vangelo, come si suol dire, è parola profetica, cioè una parola che indica certe linee di crescita, le quali sboccano in una totale liberazione cristiana.

In secondo luogo, secondo il Vangelo, la fedeltà non è il risultato di una legge esterna che costringe, ma è un'espressione dell'amore.

Un'altra esigenza interna allo spirito evangelico è il rifiuto della strumentalizzazione, del rendere l'altro uno strumento di sé.

Espressioni bibliche quali "la persona umana è fatta a immagine di Dio", "amate i vostri mariti come la Chiesa ama Cristo", "amate le vostre mogli come Cristo ama la Chiesa", per un credente sono un invito decisivo a rifiutare di fare dell'altra persona uno strumento di sé, si tratti dei rapporti fra coniugi, si tratti di rapporti familiari.

Questo rispetto della persona significa garanzia del rapporto veramente comunitario, perché tra rapporto comunitario e rapporto di società stabilito dalla legge c'è una differenza di qualità: il rapporto comunitario in tanto è, in tanto vive, in quanto trova la sua sorgente nel libero consenso e nel rispetto spontaneo della coscienza verso l'altro; i rapporti societari invece sono quelli che si stabiliscono per forza di legge.

La famiglia, istituzione legata alle condizioni storiche
Siamo all'ultimo punto: non dobbiamo cadere in un così ingenuo evangelismo da credere che la famiglia non interessi la società, che debba essere riferita soltanto all'e-sperienza spirituale.

Ogni espressione dell'uomo, ma la famiglia in particolar modo, in quanto si innesta nei rapporti sociali generali, ha bisogno di istituzionalizzarsi. La istituzionalizzazione è un momento di serietà umana, il momento in cui si traduce in norma esterna la responsabilità di fronte alla società intera.

Però, non è con questo momento istituzionale che si definisce la famiglia. Il momento istituzionale è quello in cui l'esperienza della famiglia assume rapporti e responsabilità con l'insieme della realtà sociale. E la società, come tale, ha bisogno di tutelare la famiglia, di farsene garante in qualche modo, di proteggerne e favorirne lo sviluppo. Ma questo momento, lo ripeto, è del tutto legato alle condizioni storiche e varia a seconda del mutare delle condizioni storiche; perciò oggi c'è bisogno di una nuova istituzionalizzazione della famiglia.

La famiglia è una creazione continua. Nella Bibbia c'è la poligamia, poi si è acquisito il concetto della famiglia monogamica, che forse è un concetto irrinunciabile. Però non si deve dire che è la natura che l'ha voluto, perché questo significa attribuire alla natura astratta delle conquiste storiche che non invece relative anch'esse.

Forse la famiglia dovrà cambiare ancora forma, dovrà cambiare struttura. Il concetto del diritto naturale è un concetto dell'immobilismo borghese, con cui si sono voluti rendere eterni e immutabili alcuni rapporti che erano funzionali alla società borghese. E qual è il criterio con cui la famiglia deve cambiare struttura? È quel di più di libertà che l'uomo deve avere. Quando diciamo libertà non parliamo della libertà soggettivistica identica al libero arbitrio, ma di una libertà in cui veramente l'esistenza dell'uno sia garanzia e condizione della libertà di tutti gli altri.

Questa crescita della famiglia presuppone un nuovo diritto familiare in cui dovrà essere anche previsto il caso nel quale la fedeltà reciproca di indissolubilità non è più possibile. Cioè la clausola del divorzio come verifica di un fallimento dell'esperienza e come legittima dei due, che hanno portato a termine un'esperienza fallita, di crearsi una esistenza coniugale. Questo la legge lo può fare; a rigore, lo deve fare. Però il diritto di famiglia non è questo. Ecco perché dovremo, una volta superata la battaglia sul referendum, considerarci continuamente mobilitati per favorire in Italia una modificazione profonda del diritto di famiglia, perché esistono già ormai le condizioni di coscienza generali e perché certe norme giuridiche della tradizione siano abolite e superate.

E naturalmente, quando si fa questa battaglia per un nuovo tipo di famiglia, si deve fare anche una battaglia per un nuovo tipo di società, perché se i rapporti economici rimangono quelli che sono poco vale il modificare i rapporti giuridici. Al più avremmo un aggiornamento neo-capitalistico della famiglia.

In ogni caso, una battaglia per la famiglia che si apre con il referendum, non si chiude con il referendum. Però dobbiamo dirci che noi, in quanto cristiani, non abbiamo niente, nessun modello nostro da difendere. Noi dobbiamo ricercare con gli altri un modello giuridico ed etico di famiglia, perché non abbiamo privilegi di nessuna sorta come credenti.

Come credenti ci compete l'onere e il privilegio, se volete, di essere fedeli alle ispirazioni evangeliche fondamentali; ma queste ispirazioni non sono da tradurre come modello etico-giuridico, poiché sono una spinta continuamente trasformante della realtà storica, disponibili a sempre nuove forme di ordinamento familiare.

di Ernesto Balducci
da Adista documenti n°10 del 10 Febbraio 2007

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