Speranza significa che il domani sia migliore dell'oggi, che il domani sia con meno dolore, con meno sofferenza, con meno ingiustizia. E allora bisogna domandarsi "chi" deve essere il soggetto di questa speranza: io, tu, noi occidentali, tutti noi come umanità? Siccome i tempi saranno stretti, dovrò essere apodittico in certi passaggi. La prima domanda è la seguente: è possibile la speranza senza la fede? La seconda sarà: e sensata la speranza anche per chi ha fede? E quindi il terzo momento riguarderà quello che possiamo fare tutti insieme rispetto alla speranza o a qualcos'altro.
Quando mi chiedo se è possibile la speranza senza la fede, intendo proprio la fede nel senso della vita eterna, della risurrezione della carne e della salvezza. Ecco io penso che senza la fede la speranza non sia possibile.
Dal punto di vista del disincanto, cioè dal punto di vista della finitezza, dal punto di vista di un'esistenza consapevole che tutto si gioca qui, in un orizzonte finito e incerto, credo che non si possa avere speranza. Naturalmente, se assumiamo il punto di vista egoistico di ognuno di noi, è ovvio che si possa avere speranza che il domani per qualcuno sia migliore dell'oggi, con meno dolore, con meno sofferenza - già con meno ingiustizia è assai problematico -, e questo perché viviamo nel privilegio, perché la mancanza di speranza può essere legata per ciascuno di noi, semplicemente, ai problemi della malattia e del dolore, che certo incombono costantemente, e tuttavia, nel mondo di privilegi in cui viviamo, è ragionevole pensare che anche nell'orizzonte della nostra vita il domani sia migliore, che malattie che oggi ancora ci creano terrore possano essere in qualche modo addomesticate, e cosi via.
Se però assumiamo - e inevitabile assumerlo, credo, in un discorso filosofico, anche etico-politico - il punto di vista di ciascuno, cioè di ogni esistenza che è irripetibile e quindi in questo senso ha pari dignità; se assumiamo il punto di vista di tutte le esistenze irripetibili, oggi, sulla terra, dobbiamo ammettere con assoluta lucidità che non c'è speranza che il domani sia migliore dell'oggi. Anzi, abbiamo tutti i dati per sapere che è molto probabile che per la totalità delle esistenze il domani sia peggiore dell'oggi.
Non occorre qui illustrare le infinite sofferenze di cui è fatta l'esistenza oggi della maggior parte degli esseri umani. Ma basta qualche minimo cenno (e poi, per il resto, sappiamo che, se non pensiamo a tutte le altre, è perché per campare dobbiamo costantemente rimuovere...), basti pensare al numero spropositato di bambini che in Africa vengono al mondo con l'AIDS con un tasso crescente, per capire già che è insensato al di fuori della fede nutrire la speranza, cioè la ragionevole certezza che il domani sia migliore dell'oggi. Basti pensare alle notizie, che appunto cerchiamo poi di non vedere, di non sentire (per fortuna, da questo punto di vista, la televisione non ce le da più, perché ormai tutto ciò che è sgradevole viene censurato!), su che cosa significa l'esistenza per la stragrande maggioranza dei bambini su questa terra. Se non è nascere con l'AIDS, è lavoro minorile in condizioni tali che solo il ragionarci per qualche minuto, passiamo ad altro per il raccapriccio che ci assale.
Non insisto su questo: è evidente che nell'esistenza della maggior parte degli esseri umani non vi sarà riscatto. E se quindi non vi sarà riscatto, non vi è fondamento di speranza. Di più, oggi noi vediamo che il male e il dolore, la disuguaglianza crescono. E se anche potessimo immaginare un futuro eguale per tutti e migliore per tutti, quindi anche nella più sfrenata utopia, tra secoli, tra millenni, comunque, anche in quella prospettiva, chi oggi nel suo orizzonte di vita non può pensare a qualcosa del genere ovviamente non avrebbe speranza. Oggi, quindi, senza fede non ha senso avere speranza, si può avere speranza individualmente per chi vive il privilegio, ma il privilegio è altra cosa della speranza, anzi, in qualche modo, sottolinea il carattere di non-speranza che ha l'esistenza umana per la maggior parte degli esseri che oggi qui vivono.
Ma per chi ha fede la speranza è davvero così' garantita? Ora non è assolutamente mia intenzione cercare di mettere dubbi in chi ha fede. Spesso si dice che gli atei vogliono convincere i credenti a perdere la fede - è una delle cose più insensate ovviamente che ci siano -proprio chi è non-credente, giudicando la realtà qui-e-ora, è del tutto indifferente alle motivazioni per cui si agisce, è interessato solo a ciciò che si fa e molto spesso chi è mosso da fede compie cose in positivo che altrimenti non farebbe, e quindi l'ateo non vuole assolutamente "s-convertire" il credente. E, tuttavia, e così scontata la speranza per chi ha fede?
Certo, per chi ha la fede di Paolo e della prima generazione dei cristiani, secondo i quali la salvezza definitiva sarebbe avvenuta nel corso stesso della loro vita, come sappiamo da alcuni passi delle lettere paoline, è evidente che l'attesa è per quella generazione, anzi, le stesse domande nascono da essa. Ma per quelli che stanno morendo in questi giorni? Già la cosa sembrava inspiegabile allora... Ma anche in seguito, per chi crede davvero alla vita eterna come alla vera vita, probabilmente, anzi certamente, la fede comporta la speranza, perché è la certezza di un mondo migliore. Tuttavia, credere davvero alla vita eterna come alla vera vita implica prendere sul serio il nulla di questa vita finita. Su questo punto di vista aveva assolutamente ragione Pascal quando metteva a confronto il finito con l'infinito: di fronte all'infinito qualsiasi numero finito per quanto grande equivale a zero.
Il punto però è: oggi, chi ha una fede di questo genere? Anche coloro che credono hanno una fede di questo genere? Io penso, forse temo, che da questo punto di vista la secolarizzazione abbia vinto in un modo quasi radicale, perché se davvero si credesse con questa fede, cioe se si mettesse a confronto il finito che noi viviamo come un nulla rispetto alla vera vita dell'eternità, qualsiasi sacrificio in questa vita apparirebbe per quello che è, cioè nulla. E per questo costerebbe nulla come sacrificio, e quindi pressoché istintivamente, se ci fosse questa fede, ci si comporterebbe applicando il vangelo alla lettera, ripeto pressoché istintivaniente senza fatica, senza sacrificio. Perché è noto a tutti che noi ci imponiamo in continuazione sacrifici, anche pesanti, rispetto a obiettivi finiti, finitissimi. È evidente che se credessimo davvero che la vera vita è la vita eterna, noi saremmo in grado di fare senza sforzo qualsiasi sacrificio.
E la morte, come nelle prime generazioni dei credenti, sarebbe una festa, sarebbe l'inizio della vera vita. Oggi invece dire già "la morte sarebbe una festa" suona francamente di cattivo gusto. Così' dicendo, chi ascolta pensa che sia davvero di cattivo gusto, perché anche per un credente non è così': la morte non è una festa. Eppure, se è l'inizio della vera vita, dovrebbe esserlo, dovrebbe essere proprio la fine di questo preambolo pressoché ridicolo rispetto alla vera vita.
Tutto questo è evidente che oggi non è nella sensibilità neanche dei credenti. Inoltre il vangelo potrebbe venir preso alla lettera, praticato alla lettera, senza sforzi. Quel vangelo che tutti sappiamo essere costantemente non solo dalla parte degli ultimi, ma chiede a tutti di comportarsi come gli ultimi: dare tutto ai poveri e seguire Gesù. Basta quasi aprire a caso il vangelo e s'inciampa su testi di questo genere. Il vangelo è un continuo gridare "guai ai ricchi". L'immagine del cammello nella cruna dell'ago è un'immagine talmente evidente che, se solo fosse presa vagamente sul serio, la vita di tutti i credenti dovrebbe radicalmente cambiare. Né ha senso obiettare: ma siamo umani, oggi viviamo così', la vita eterna è futura, non ne possiamo avere percezione. Ecco perché in realtà poi siamo condizionati e viviamo con difficoltà i sacrifici e così via, e quindi sarebbe solo santità, che non è di tutti, vivere secondo i dettami.
Certo, tutto questo è naturalmente vero, ma è la verità della finitezza, la verità del non-credente, la verità di chi, senza la fede, vive con una vaga e incerta speranza, incapace di orientare, di impregnare davvero ogni fibra dell'esistenza.
Io credo che se ci fosse davvero fede, san Francesco sarebbe la normalità, non l'eccezione. Ma anche in quest'ambito di una fede piena, potremmo poi avere una speranza senza una serie di interrogativi profondissimi e, cioè, la speranza nella giustizia eterna.
Pensiamo semplicemente ad alcune delle antinomie ben note al pensiero teologico (e teologico morale) e alla filosofia: è accettabile che per un delitto finito ci sia una pena infinita? Ma se non ci fosse pena, quale giustizia ci sarebbe per chi invece qui ha subito l'oppressione rispetto a chi l'oppressione l'ha inflitta? Né si può risolvere il problema con delle pene non infinite, cioè con il purgatorio, che, come tutti sappiamo, è un'invenzione medievale.
Per non parlare dell'altro genere di problemi altrettanto noti: perché ci sia speranza in una giustizia futura, nell'aldilà, dobbiamo supporre un Dio infinitamente giusto (qui abbiamo tutte le antinomie irrisolte e irrisolubili della teodicea). Se la giustizia è divina e davvero imperscrutabile, cioè non ha una comune misura con tutte le concezioni di giustizia che noi possiamo avere, se è davvero senza misura, allora quello che vale per la giustizia vale anche per la speranza: la speranza è qualche cosa che non avrebbe misura rispetto a ciò che noi intendiamo per speranza su questa terra, cioè sarebbe una variabile priva di senso per noi.
Se questa giustizia fosse davvero imperscrutabile, potrebbe essere vera l'ipotesi, fatta propria dalla Riforma protestante, o almeno da alcune sue tendenze, di una radicale predestinazione, che, tuttavia, potrebbe essere fonte di speranza tanto quanto di disperazione per ciascuno di noi.
Se invece poi giustizia e speranza sono termini, seppur portati all'infinito, che devono mantenere una qualche misura con il senso che per noi hanno queste parole, e cioè se la giustizia in una misura infinitamente giusta è la nostra giustizia senza limiti umani, si pone il problema classico, e mai risolto, di come un Dio possa essere insieme infinitamente giusto e infinitamente potente, con tutti i mali su questa terra. Per dire che la speranza, cioè un domani migliore dell'oggi sotto il profilo del male, del dolore, dell'ingiustizia, non può esistere per chi non ha fede, ma è assai problematico anche per chi ha fede. La speranza, se la guardiamo analiticamente, se la guardiamo senza avere già speranza, si prospetta soprattutto come illusione.
Non voglio fare, a questo punto, quello che di solito si fa anche nei discorsi filosofici più pessimistici: compiere quello scatto per cui alla fine si riesce a rivoltare la frittata". Io penso che questa sia la situazione guardata con lucidità. Tuttavia, il fatto di dire che la speranza, presa alla lettera, è un'illusione significa pure che il rovescio della medaglia è altrettanto insensato, cioè la disperazione. La disperazione, in realtà, è semplicemente ciò che manca alla speranza in una visione del mondo in cui abbiamo presupposto che la speranza debba invece nutrirla.
Se noi riconosciamo la speranza come un'illusione, possiamo mettere da parte anche la disperazione ed affrontare il mondo semplicemente per quello che è. E se accettiamo il mondo per quello che è, possiamo accettarlo anche per quello che può modificarsi grazie alla nostra azione. Mettendo da parte speranza e disperazione, guardiamo alla realtà dal punto di vita della possibilità dell'azione e della responsabilità. Si può chiamare speranza, a livello psicologico o retorico se ci aiuta di più, la possibilità di lottare, di impegnarci per qualcosa, di vivere con soddisfazione all'interno di questo impegno e di questa lotta. Qui si apre il discorso più propriamente etico-politico o addirittura visto sostanzialmente in chiave politica.
L 'impegno di ridurre l'ingiustizia
Il fine dell'impegno - secondo un grande scrittore e filosofo a me molto caro, Albert Camus, il quale diceva che in fondo possiamo ridurre tutto alla questione dell'impegno - è ciò che facciamo per diminuire la somma algebrica della sofferenza al termine della nostra vita, per tirare un bilancio e vedere se abbiamo fatto anche qualcosa in questa direzione.
Oggi da molti viene dato come essenziale, dal punto di vista etico-politico, il problema della pace. Io invece penso che la pace non sia il problema più importante, nel senso che non penso che la guerra sia il male supremo. Penso che il male supremo sia l'ingiustizia. Io non sono un pacifista, un nonviolento, anche per una questione di circostanze. Ormai nessuno di noi, che pure da giovane si e formato nel marxismo, è oggi marxista e quindi il problema non e quello. Se fossi stato un ragazzo ai tempi della guerra di Spagna (1936-1939), forse avrei avuto il coraggio di arruolarmi nelle brigate internazionali. Non lo so, ma so per certo che chi ha fatto quella scelta ha fatto la scelta più giusta: prendere le armi e cercare di uccidere prima di essere ucciso.
Ricordo che, quando ci fu il colpo di stato contro Allende in Cile, l'11 settembre 1973, per ventiquattr'ore circa, forse quarantotto, si parlava purtroppo poi la cosa si dimostrò falsa) di una colonna dell'esercito che era rimasta fedele nel sud e quindi si apprestava a marciare contro la capitale... Credo che molti di noi, io certamente, per quella giornata e le giornate successive, coltivammo la speranza che davvero questo stesse succedendo, cioè che davvero ci sarebbe stata la guerra civile, davvero si sarebbe sparato. Non credo affatto che la scelta debba essere sempre quella del pacifismo, della nonviolenza. Credo che il male più grande sia quello della ingiustizia, di quella crescente ingiustizia che tutti noi conosciamo perfettamente: dico crescente, perché questa è la cosa che tutti noi sappiamo e contro la quale, però, anche questo è bene saperlo, in realtà sappiamo anche di essere pressoché impotenti, o almeno direttamente impotenti. La nostra possibilità di influire sulle vicende del mondo è minima.
E allora il primo problema di un impegno etico-politico, nell'ambito del disincanto, quindi senza fede (com'è inevitabile che sia, una volta che si agisce insieme credenti e non-credenti), è che noi sappiamo di contare ciascuno uno/alcuni miliardi, quindi pressoché zero. Tuttavia sappiamo che qualche cosa, questo quasi nulla, conta insieme agli infiniti altri quasi nulla. Il primo problema allora che dovremmo porci costantemente è l'ingiustizia su scala planetaria. E la cosa, per un verso, più difficile e, per altro verso, più facile, perché il fatto di sapere di non poter quasi nulla su questa scala ci fornisce un alibi a dare scarsa importanza a quel quasi nulla che possiamo fare in questo ambito. Questo quasi nulla reso ancora più ridotto dal fatto che l'ingiustizia non è tra ricchi del Nord e poveri del Sud. Se fosse così', pur in tutta la sua tragicità, sarebbe perfino facile il problema.
Il fatto è che i poveri del Sud non sono in blocco i poveri del Sud, ma anzi la loro organizzazione interna è in genere fatta da dittature più o meno efferate che rendono assolutamente insignificante, statisticamente parlando, qualsiasi tipo di aiuto o di rinuncia da parte del Nord verso il Sud, attraverso le istituzioni internazionali o di tipo governativo. Il che non significa che non si possa fare nulla, ma ovviamente modifica profondamente il problema, e questo è un aspetto che noi in genere cerchiamo di non vedere.
Noi cerchiamo di convincerci che le cose siano più semplici, più gradevoli di come sono. Per esempio, ci è facile dire "palestinesi ssì, israeliani no", e tuttavia sappiamo che i palestinesi non hanno un governo democratico e che quindi i singoli non contano nulla, e hanno poi un governo con tassi di corruzione altissimi, mentre gli israeliani, pur con tutte le colpe di certi governi, hanno una democrazia dove il cittadino può contare. Non a caso ho fatto l'esempio che so che è più scomodo, perché è sugli esempi scomodi che bisogna confrontarci.
Infine possiamo di più nell'ambito in cui il nostro fare può dare dei risultati. E tuttavia dobbiamo sapere che qui possiamo fare molto, molto di più di quello che ci immaginiamo, ma al tempo stesso è un fare per una maggiore giustizia all'interno di uno strepitoso privilegio, questa è la realtà. Anche qui, in un senso rovesciato rispetto a quello che dicevo prima, la consapevolezza di operare per una maggior giustizia all'interno di un privilegio, bisogna evitare che diventi un alibi per dare poca importanza a ottenere maggiore giustizia nell'ambito di questa isola di privilegio che è l'Occidente in cui viviamo.
Poiché questa è la nostra possibilità maggiore, possiamo fare effettivamente qualcosa di più. Allora da questo punto di vista - penso che altre cose importanti verranno soprattutto nel corso della discussione - noi dobbiamo cercare di dare di nuovo significato alla parola "cittadinanza", fatta di diritti, di doveri e di possibilità di azione comune in infinite circostanze, che invece è diventata parola sempre più morta. Naturalmente questo apre tutto un capitolo a parte, che non provo qui neanche ad accennare, sulla crisi della politica e sul modo in cui la si può contrastare, sul significato e la crisi dei partiti, sul ruolo che hanno i mass-media e così via. Sono sicuro che sono temi che verranno ripresi nel dibattito.
In tutto questo la sensazione effettivamente può essere quella di un impegno che ricorda il lavoro di Sisifo, cioè noi non abbiamo nessuna certezza che, facendo qualche cosa, il risultato che otteniamo, anche se piccolo, sia poi garantito. Abbiamo visto non solo nella storia ma anche nel corso della nostra vita (per fortuna su cose non drammatiche come quelle che abbiamo studiato a scuola o che vediamo oggi in altri paesi), la fragilità di ogni conquista e la possibilità di tornare costantemente indietro.
Ricordo però che proprio Camus diceva che dobbiamo immaginarci Sisifo felice, nel suo Il mito di Sisifo tradotto da Einaudi nel 1965. Questo evidente eccesso poetico significa che una vita in qualche modo felice la possiamo avere fino a che possiamo agire, possiamo combattere, possiamo impegnarci. Anche questo, dobbiamo ammetterlo, è un privilegio, perché molto spesso invece è tolta alle persone proprio anche la possibilità di lottare, di impegnarsi, di sentirsi vivi e quindi felici attraverso la possibilità della lotta.
E, allora, credo che, poiché abbiamo il privilegio di vivere invece in condizioni in cui l'impegno e la lotta sono possibili, abbiamo una responsabilità assoluta che giorno per giorno, momento per momento, non dobbiamo sprecare.
Risposte dopo il dibattito
1. La tragedia palestinese-israeliana
Quando, per l'esigenza di esemplificare su problemi etico-politici complessi, ho accennato alla questione palestinese-israeliana, sapevo perfettamente di toccare uno dei punti dove, per me, è più scomoda la situazione, uno dei pochi punti in cui mi trovo in assoluta minoranza anche nel mondo che frequento, diciamo quello della sinistra, anche non ufficiale, e insieme del mondo cattolico. Non sono così cieco da pensare che la differenza essenziale, l'unica che conta, sia che Israele è una democrazia mentre il non-Stato, o il non-ancora-Stato palestinese, non lo è. Ovviamente ci sono tante altre questioni di valore in gioco, però c'è anche questa che, invece, di solito, non si vuole vedere, E siccome la questione palestinese-israeliana può essere emblematica di come noi poi affrontiamo tanti valori in gioco, vale la pena soffermarvisi un momento.
Io credo che ci sia una asimmetria profonda fra le richieste di diritto dei palestinesi e le richieste di diritto degli israeliani (mettiamo tra parentesi le differenziazioni interne, anche colossali, in entrambi i popoli). Partiamo dalla prima contrapposizione, quella sullo Stato. Fino ad una diecina d'anni fa non conoscevo direttamente Israele. Ci sono andato la prima volta con un pregiudizio assolutamente favorevole alle tesi palestinesi. Ho potuto incontrare cittadini israeliani di tutte le tendenze e di tutte le attività, e questo mi fece già cambiare idea su qualcosa, perché scoprivo una società (che forse ora sarà molto cambiata) con dei caratteri egualitari che non avevo immaginato e con una volontà di pace che assolutamente non immaginavo nelle esistenze concrete delle persone incontrate.
Mi colpivano le esperienze di vita delle persone di mezza età che raccontavano delle quattro-cinque guerre: un giorno arriva l'ordine di prendere un mitragliatore, per andare in una certa zona ove si spara e si può essere colpiti. Cosi per alcune settimane o alcuni mesi e, nel frattempo, le famiglie sono a rischio dei missili. Con tutta tranquillità coloro che avevano già fatto cinque guerre, avrebbero dato qualsiasi cosa per non farne altre, tranne la scomparsa d'Israele. Ecco, questo credo sia effettivamente la realtà dello stato d'animo della quasi totalità delle persone che vivono in Israele.
Tuttavia, non è stato questo il motivo che mi ha fatto cambiare totalmente opinione rispetto ai pregiudizi con cui ero andato in Israele, ma l'incontro con i dirigenti palestinesi di ogni livello, durato un'intera giornata che avevamo dedicata proprio all'ascolto delle loro tesi. Nei momenti meno formali piano piano capivo che in realtà per la stragrande maggioranza dei palestinesi il problema non era avere uno Stato palestinese accanto ad uno Stato israeliano. In loro è profondamente radicata l'idea che abusivo sia quello Stato in quanto tale, cioè che tutto ciò che oggi è Israele sia frutto di una rapina storica. Certo, i dirigenti palestinesi ci avevano spiegato come ormai loro avessero cambiato posizione e quindi avessero accettato l'idea... Ma poi, ad un certo momento, mentre si parlava normalmente, m'ha colpito uno di loro perché riassumeva uno stato d'animo di tutti quanti. Indicando una casa di Gerusalemme, disse: "In realtà quella è casa mia perché il mio trisnonno stava llì". C'era l'idea quindi che non era un problema di nuovi insediamenti, o di restituzione di territori: là, ai tempi del suo trisnonno, gli israeliani non c'erano e quindi sentiva come qualche cosa di viscerale che quella era la sua patria...
Credo che questa sia l'asimmetria che noi non vogliamo più vedere. In realtà, ci piaccia o meno - naturalmente non ci piace e per questo non lo vogliamo più vedere - alla stragrande maggioranza degli israeliani basterebbe la certezza che Israele venisse interiormente riconosciuto da tutto il mondo arabo come qualche cosa che sta lì, è legittimo e che non sarà contestato più da nessuno. Ma ciò invece non è sentito dall'altra parte e, quindi, da questo punto di vista, diventa molto difficile una soluzione. Poi è vero che ci sono tutte le infinite ingiustizie che gli israeliani compiono o hanno compiuto nei confronti dei palestinesi, che possiamo confrontare una ad una: sono le questioni delle politiche israeliane, dove gli israeliani stessi sono divisi. Ma di nuovo, però, ciò non può farci dimenticare l'altra cosa che vogliamo costantemente dimenticare: le ingiustizie nei confronti dei palestinesi sono state fatte e vengono fatte infinitamente di più proprio dal mondo arabo. I grandi massacri di massa dei palestinesi in tempi recentissimi sono stati compiuti da governanti arabi, non da governanti israeliani.
Questo dunque credo sia la situazione e mi sembra che, nel mondo della sinistra che frequento, non si vogliano neanche vedere, come pure nel mondo cattolico, anzi qui meno che mai. Mi ha colpito l'ultima notizia o indiscrezione secondo la quale il patriarca latino di Gerusalemme avrebbe espresso contrarietà al fatto che il cardinal Martini vada a vivere il resto della sua vita a Gerusalemme, perché troppo filo-israeliano.
2. Nichilismo e impegno
Non mi è mai passato per la mente di dire che la vita finita è il nulla. Anzi, io l'ho espresso come il punto di vista di chi, assumendo come essenziale l'infinito, l'eterno, conseguentemente deve essere portato a dare questo giudizio. Per me non solo il finito non è il nulla, ma e, invece, il tutto, l'unico tutto che abbiamo di fronte a noi. Il finito inteso in senso proprio, il finito della propria singola esistenza, che è sicuramente un finito che non potrà mai andare al di là dei 90-95 anni, è doppiamente finito, perché questa finitezza, di per se già così piccola rispetto ai nostri desideri, è oltretutto assolutamente incerta. Per me questo è l'unico tutto di cui noi possiamo parlare, che abbiamo effettivamente a disposizione e dal cui punto di vista dovremmo valutare nel modo più lucido e conseguente, tutte le altre cose. Allora è evidente che all'ingiustizia c'è, eccome, rimedio. Il rimedio è la lotta.
Io non direi, come ha detto qualcuno, che l'AIDS in Africa è una catastrofe contro cui non si può far nulla. Ma perché è stato detto "L'AIDS non è un terremoto"? Anzi, direi di più: anche il terremoto non è qualcosa contro cui non si può fare nulla; si può fare moltissimo. Per esempio, nella tragedia del terremoto del Molise di pochi giorni fa [fine ottobre 2002], mi ha colpito una cosa che non immaginavo: pensavo che si lucrasse, tirando a risparmiare, sulle opere antisismiche e quindi si rischiasse di ammazzare gente anzi, si giocasse con la certezza nel giro di qualche generazione, se va bene, di una generazione, se va male, di ammazzare gente -, diciamo pure, pensavo che si lucrasse per dei motivi grossi, cioè che una casa antisismica costasse infinitamente di più che una casa normale. Invece leggo che il costo di una casa antisismica è tra il 5 e il 10% maggiore di una casa normale.
Allora questo rende la colpevolezza di tutti coloro che, per atti od omissioni non hanno fatto questo pochissimo in più, a costi infinitamente ridicoli, rende la colpa per atti d'omissione infinitamente più grave, com'è ovvio, e dimostra come si possa fare moltissimo non solo nei confronti dell'AIDS ma anche del terremoto. Così come si può fare moltissimo nei confronti di tante altre questioni che, per esempio, nascono dalla sovrappopolazione, eccetera. Noi sappiamo
che le questioni AIDS, sovrappopolazione, e così via, riguardano sostanzialmente discussioni all'interno di due mondi: uno che è il mondo cattolico e l'altro che è il mondo del profitto delle grandi multinazionali farmaceutiche. Sono questi i due mondi coinvolti. E inutile che mi dilunghi, ora, sulla contraccezione, da una parte, e sulla pretesa delle royalties nella ricerca medica, dall'altra.
È ovvio che si può moltissimo, per cui non riesco capire come mi sia spiegato così male che possa essere nata l'idea che all'ingiustizia non si può opporre nulla. Io credo che si possa opporre invece tantissimo. Altra cosa è poi, dal punto di vista di un'analisi degli svolgimenti storici, vedere, con realismo oppure con il desiderio e l'illusione, come stiano andando queste lotte, quali siano effettivamente le forze in campo, quale sia la potenza delle forze che per loro interessi, invece, non andranno verso la soluzione di questi problemi, sui quali naturalmente faranno tante conferenze internazionali, ma continueranno ad andare in una direzione che non risolve nulla.
3. Sorprendere i potenti
Mi viene chiesto un giudizio sulla creatività che noi possiamo scoprire e sulla creatività come capacità di sorprendere i potenti. Mi sembra che qualcuno già abbia ricordato che questa creatività, di cui ora dobbiamo parlare, talvolta per fortuna ha la capacità di sorprendere i potenti, quindi di metterli in difficoltà. E una sorpresa positiva, che invece, purtroppo, tante volte sorprende chi lotta contro le ingiustizie e che deve riconoscere che le cose che non si erano immaginate vanno peggio di come sembrava probabile. Ora, a tale proposito credo che pressoché tutto quello che accade non sia prevedibile in anticipo. Non ho mai creduto alle scienze sociali proprio perché, se noi potessimo davvero prevedere il futuro, vorrebbe dire che il comportamento degli uomini è analizzabile esattamente, seppure in forma un po' più complessa, come quello della caduta dei gravi, e dovremmo assolutamente riconoscere che l'unico filosofo degno di questo nome è Spinoza. Non avrebbe senso andare oltre, perché si tratterebbe semplicemente di approfondire la conoscenza.
Ma le cose non sono così. In realtà nella vita umana succede sempre quello che non ci siamo aspettati. Poi qualcuno magari l'ha previsto, semplicemente per puro caso oppure, talvolta, sarà un'altra persona ad averlo previsto. Guardiamo tre vicende, una internazionale e due italiane, statistica mente significative.
Oggi tutti fanno finta di dare per scontato che nel 1989, o giù di lì, doveva cadere il muro di Berlino. Tutti ora ne parlano come "si sapeva... si capiva... era ovvio...". Ma non era ovvio affatto! Andate a rivedere quello che si scriveva, non dico dieci anni prima, ma un arino prima. Io questa vicenda l'ho seguita da vicino per il fatto che tra i dissidenti dei paesi dell'Est avevo, e ho tuttora, alcuni dei miei più cari amici. Ricordo benissimo come venivano trattati, con il rispetto che si deve alle persone che pagano di persona, ma per il resto venivano considerati come dei sognatori. C'era il realismo politico che stava, a sinistra, nel fare un po' di fronda - ma poi più di tanto non si poteva fare - e, a destra, nell'andare - e in questo il presidente Andreotti era un maestro... - a negoziare con i governi. Nessuno credeva, nè a destra ne a sinistra, che quel mondo potesse crollare, e crollare nel giro di poche settimane e, in taluni casi, di pochi giorni o di poche ore. Ecco perché francamente è ridicolo sentire chi pensa di poter fare previsioni sul futuro.
Prendiamo l'altro caso internazionale, l'attentato alle due torri di New York dell'11 settembre 2001. Anche qui solo dopo si è detto: "Ma certo, era pensabile, tant'è vero che il cinema già ce l'aveva fatto vedere!". Appunto, il cinema ce l'aveva fatto vedere, e tutti noi l'avevamo visto come la fantascienza, come qualcosa che ovviamente non sarebbe accaduto mai. Nessuno l'aveva previsto, perché, se davvero qualcuno ci avesse pensato e non avesse posto i rimedi in anticipo, sarebbe un criminale al massimo livello.
Così anche nelle piccole cose di casa nostra. Ricordo benissimo quanto si discuteva, negli anni precedenti il 1992, in alcuni piccoli settori dell'opinione pubblica, della corruzione, che oramai era diventata un sistema, della sua insostenibilità, e così via. Ma chi poteva immaginare che un bel giorno, dalla più piccola di quelle indagini quando per trent'anni altre indagini più grosse si era sempre riusciti a chiuderle, sarebbe poi sorto vita quel fenomeno chiamato Mani Pulite? Nessuno! Così come, dopo che quel fenomeno si scatenò, e la crisi della politica venne alla luce, quanti avrebbero previsto che il risultato di una lotta politica successiva sarebbe stato un potere fortissimo da parte delle persone più implicate nella corruzione e di un potere così forte che avrebbe spinto perfino l'opposizione a diventare sempre più edulcorata proprio su questi temi? Anche questo nessuno! Nella storia, quindi, direi che tutto è sorpresa.
I giornalisti hanno l'abitudine di chiedere alla fine di un 'intervista: "Come andrà a finire? Che succederà?". Io rispondo sempre: se non sappiamo che cosa sogneremo stanotte, che senso ha parlare su che cosa accadrà domani? Non lo sappiamo! Noi possiamo solo sapere quello che ci impegniamo a fare; quello che accadrà dopo dipende per una tale minima frazione da noi stessi, cioè dall'unica cosa che grosso modo possiamo sapere, che non ha senso fare previsioni. Possiamo solo impegnarci! Ecco perché io credo che, a questo punto, la famosa contrapposizione weberiana tra etica della convinzione ed etica della responsabilità non sia fondata. Perché ci sia un'etica della responsabilità diversa da un'etica della convinzione, dovremmo appunto essere in grado di misurare le conseguenze. Se fossimo in grado di misurare davvero una catena sufficientemente lunga di conseguenze, per lo meno tutta quella catena che arriverà fino alla fine della nostra vita, in una prospettiva di un orizzonte finito effettivamente potremmo, anzi dovremmo, praticare un'etica della responsabilità o del realismo politico. Siccome questo è impossibile, credo che l'unica etica realistica sia quella della convinzione: sei convinto di un determinato valore per difendere il quale devi fare determinate cose? Fa' questo, perché e l'unico modo di avere realismo politico, visto che non puoi comunque sapere le conseguenze, non dico a medio o a lungo termine - perché, come ci ricordava sempre Keynes, a medio termine, a lungo termine saremo tutti morti -' ma neanche a breve termine.
Ecco perché penso che questo termine della creatività sia effettivamente cruciale, ma proprio in quanto normalità.
4. II Sisifo felice
Ovviamente la citazione del Sisifo felice era per me la citazione di un paradosso letterario, un paradosso perché Sisifo in realtà non è che può lottare, Sisifo in realtà non può agire, Sisifo è costretto a ripetere costantemente qualche cosa che sa già in anticipo essere inutile, perché lo riporterà al punto di prima. Noi invece siamo, per fortuna, nella condizione della incertezza, che è cosa diversa dalla speranza, o, meglio, nella condizione della assoluta incertezza. Noi possiamo essere felici se c'è quel minimo di apertura che ci consente di lottare, cioè di agire. In effetti, se questo fosse Sisifo, potremmo dire che è la condizione di una possibile felicità umana, cioè la possibilità di agire, di lottare, di essere insieme con gli altri per qualche cosa.
Il problema della speranza si ripropone appunto rispetto a "per qualche cosa". Ora e ovvio che, dal punto di vista psicologico di ciascuno di noi, noi non faremmo nulla se non pensassimo di poter raggiungere l'obiettivo per cui ci battiamo. Dal punto di vista psicologico e sicuramente così anche senza una trascendenza, perché, ha ovviamente ragione Molari, il popolo religioso per eccellenza, cioè il popolo ebraico, nella maggioranza delle sue tendenze e fino ad un'epoca molto avanzata, non ha mai creduto all'immortalità dei singoli, non ha mai creduto all'aldilà. Da questo punto di vista viveva nel finito, e tuttavia viveva nell'assoluta speranza, anzi nella certezza della speranza. Da questo punto di vista il parallelo con chi si è impegnato in vista del comunismo e perfetto. I militanti atei comunisti che hanno sacrificato la vita in virtù di un futuro, sapendo che quel futuro non toccava a loro - forse sarebbe toccato ai figli o ai figli dei figli -, erano in grado di fare sacrifici fino al sacrificio supremo. In funzione quindi di qualche cosa che non solo non potevano sapere se avrebbero visto ma che magari pensavano ragionevolmente di non poter vedere nel loro tempo, credenti e non credenti hanno saputo fare il massimo dei sacrifici. Allora è evidente che vivevano nella speranza, soggettivamente parlando.
Il discorso filosofico, però, non può essere semplicemente quello psicologico del punto di vista di ciascuno di noi come individuo. Anche per questo è giusto approfondire l'analisi. Mi domando: quando ci impegniamo in una lotta per un certo obiettivo, è davvero e solo in vista di quell'obiettivo che ci impegniamo, oppure, in realtà, do' che ci dà la soddisfazione, che ci consente di vivere, se la parola felicità fa paura, non è l'azione stessa? Ecco io ho l'impressione che, se andassimo ad analizzare, molto spesso dovremmo riconoscere che è l'azione stessa che ci appaga, il fatto di stare con altri in vista di uno scopo, in cui l'elemento essenziale è il fare qualcosa insieme, ed è questo che dà senso in quel momento all'esistenza.
Da questo punto di vista, ciò era già stato capito e spiegato perfettamente da Pascal, quando, in una prospettiva del tutto diversa, negativa, quella del divertissement delle battute di caccia, si chiedeva che senso avesse che una persona facesse delle fatiche mostruose insieme con altre persone, soffrisse il freddo, si alzasse la mattina prestissimo, si riempisse di fango, eccetera, per tornarsene alla sera a casa, anzi nel suo castello, nella sua reggia, con una lepre in mano che avrebbe potuto comprare mandando il suo domestico con una frazione infinitesima della sua ricchezza. Per Pascal, com'è noto, quello è un agire allo scopo di dimenticarsi della morte, un agire che, nella sua prospettiva, è il divertissement, cioè lo svicolare, il distrarsi dalla realtà unica che è la nostra finitezza intesa come un nulla, e cioè la morte, da un punto di vista che non ha invece l'infinito come unica realtà vera, e quindi il finito come nulla, ma all'opposto, il finito come unica realtà vera, e quindi come un tutto.
Ma allora proprio questo ragionamento si può fare: è davvero l'impegnarsi con, cioè il sentire che siamo insieme con altri esseri umani per un fine che condividiamo e quindi per dei valori che ci accomunano, ciò che riesce a dare senso alla nostra esistenza.
(da Vita monastica, n. 225, ottobre-dicembre 2003, pag. 64-80)