I Dossier

Sabato, 14 Luglio 2012 16:10

Perché chi uccide un uomo uccide il mondo (Piero Stefani)

Vota questo articolo
(1 Vota)

L’uccisione di un uomo da parte di un altro costituisce la massima violazione dei significati più profondi inscritti nell’atto creativo e questo monito vale, a pieno titolo, anche quando si sopprime legalmente la vita di un assassino.

Quando si confronta con la totalità, l’uomo coglie in modo radicale la propria finitezza. Con tutto ciò, gli rimane la singolare capacità di poter pensare a quanto è infinitamente più grande di lui. La nostra conoscenza non può abbracciare il tutto; lo possiamo, però, pensare. L’antico saggio, presentato dalla Bibbia sotto il nome di Qohelet, non fu, al di là delle più superficiali apparenze, uno scettico propenso a stendere sulla realtà il velo della vanità e sulla conoscenza la coltre del dubbio.

Egli sa che c’è un Dio creatore, non crede però di poter dirigere il proprio cuore verso una «parola creatrice». In quel libro non si dà perciò una vera ermeneutica dell’ascolto; l’unico soggetto parlante resta l’«io» del sapiente. Per questo per lui il tutto è una realtà creata da Dio che l’uomo può, in qualche modo, pensare, ma con cui gli è impossibile entrare in rapporto. Egli afferma: «Il tutto fece Dio bene nel suo tempo, persino pose nel loro cuore l’idea della globalità (‘olam), ma anche così l’uomo non riesce a comprendere l’opera che Dio fece dal principio fino alla fine» (Qo 3,11).

Non si può semplicemente dichiarare falso o insufficiente tale approccio; esso, al contrario, afferma una prospettiva realissima e cioè che non basta affermare l’esistenza di un Dio creatore del tutto per entrare in rapporto con lui, o per vederlo occuparsi premurosamente dell’opera delle sue mani. Il mondo nel suo semplice darsi si presenta per tutti i viventi come un immenso sfondo che resta fermo nella sua onniavvolgente immutabilità: «Una generazione va, una generazione viene, ma la terra per sempre sta» (Qo 1,4).

La terra intesa come un tutto, come fondale universale davanti a cui scorrono le moltitudini degli attori che interpretano la loro breve parte, vivendo la propria esistenza, è una dimensione che eccede a tal punto quella propria ai singoli individui da far sì che nessuno di costoro possa sentirsi responsabile nei suoi confronti. L’uomo non può prendersi cura del mondo inteso come globalità, può solo pensare ad esso. Nessuno è responsabile nei confronti di una pallida luce che intravede nel buio della notte e che fu emessa milioni di anni fa da una stella forse ora già estinta.

La grande affermazione biblica secondo cui il mondo fu chiamato all’essere attraverso la parola equivale a proclamare il primato della relazione. Gli antichi rabbini chiamavano Dio attraverso la perifrasi «colui che parlò e il mondo fu». Il vero significato di questa qualificazione non sta nel giudicare Dio creatore del tutto, essa comporta piuttosto l’additarlo come Colui che ha posto ogni vivente nell’orizzonte della relazione e, quindi, della responsabilità.

La tradizione giudaica ha riflettuto a lungo sul perché nella storia della creazione raccontata del primo capitolo della Genesi si ripeta più volte l’espressione «e Dio disse». In altri termini, ci si è domandati perché Dio, pur potendolo, non abbia voluto creare il mondo attraverso una sola parola. A questo interrogativo si risponde affermando che la molteplicità delle parole in primo luogo suscita, attraverso la distinzione (giorno-notte, mare-asciutto, i viventi secondo le loro specie, eccetera), un ordine capace di accogliere e riconciliare in se stesso le diversità e, in secondo luogo, crea le condizioni in cui il senso di responsabilità avvertito nei confronti di una parte è tanto cogente da risultare in se stesso assoluto.

Alla domanda del perché il mondo è stato creato con una molteplicità di parole, i rabbini, infatti, rispondono dichiarando che ciò avvenne perché colui che provvede al sostentamento di una sola persona possa venir considerato come se sostentasse il mondo intero e, viceversa, colui che annienta un solo individuo debba venir giudicato come se fosse colpevole di una distruzione universale.

Le parole creatrici e lo spazio della relazione da esse instaurato non mettono l’uomo in diretto contatto con la totalità; al contrario, fanno sì che la sua responsabilità anche rispetto a una parte si presenti come assoluta ed è proprio tale condizione a consentire che l’uomo dimostri, nella prassi, di vivere in conformità al senso più autentico della creazione. Nonostante la violenza così terribilmente presente in un mondo in cui la distruzione dell’altro serve ad affermare la propria sopravvivenza, la presenza di una pluralità di parole creatrici continua ugualmente ad attestare, per chi è in grado di ascoltarle, che l’uccisione di un uomo da parte di un altro costituisce la massima violazione dei significati più profondi inscritti nell’atto creativo e, ancora una volta, si deve aggiungere che questo monito vale, a pieno titolo, anche quando si sopprime legalmente la vita di un assassino. Chi uccide un individuo, in qualunque modo lo faccia, dà il suo non effimero contributo alla distruzione del mondo intero.

Piero Stefani

(in Avvenire, 28-4-1998)

 

Letto 7094 volte
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Search