Di seguito la lettera di dimissioni di Kiesling.
Gentile signor Ministro,
Le scrivo per presentare le mie dimissioni, a partire dal 7 marzo, dal servizio Esteri degli USA e dall'incarico di consigliere politico all'ambasciata degli USA ad Atene. Lo faccio a malincuore. Sono cresciuto con il senso del dovere verso la mia patria. Il mio servizio come diplomatico americano era un lavoro fantastico. Ero pagato per comprendere lingue e culture straniere, per cercare diplomatici, politici, professori, giornalisti e convincerli che gli interessi americani fondamentalmente coincidono con i loro interessi. La fedeltà al mio Paese e ai suoi valori era l'arma più potente del mio arsenale diplomatico.
Inevitabilmente, dopo 20 anni al Ministero degli Esteri, sono diventato più selettivo e cinico nei confronti dei moventi egoistici e burocratici che spesso modellano le nostre strategie. La natura umana è quella che è e io sono stato premiato e promosso perché comprendevo la natura umana. E fino all'avvento di questo governo, credevo che, sostenendo le politiche del mio presidente, sostenevo anche gli interessi del popolo americano e del mondo. Non lo credo più.
Le politiche che ora ci chiedono di promuovere sono incompatibili non solo con i valori americani, ma anche con gli interessi americani. Il perseguimento smanioso della guerra all'Iraq, ci sta conducendo alla degenerazione della legalità internazionale che era l'arma più forte dell'America, sia in attacco che in difesa, dall'epoca di Woodrow Wilson. Abbiamo iniziato a smantellare la più ampia e riuscita rete di rapporti internazionali mai conosciuta nel mondo. La strada che abbiamo preso porterà instabilità e pericolo, non sicurezza.
Il sacrificio degli interessi mondiali sull'altare della politica interna e dell'interesse individuale burocratico non è affatto nuovo e certamente non è un'esclusiva americana. Ma non avevamo mai visto una così sistematica falsificazione dell'Intelligence, né una così sistematica manipolazione dell'opinione americana dall'epoca della guerra in Vietnam.
La tragedia dell'11 Settembre ci ha resi più forti di prima, concentrando attorno a noi un'alleanza mondiale colossale per collaborare, per la prima volta in modo sistematico, contro la minaccia terroristica. Ma, invece di accreditare e capitalizzare questo successo, l'attuale Amministrazione ha scelto di fare del terrorismo uno strumento di politica interna, iscrivendo una Al Qaeda sconfitta e dispersa nella lista dei suoi alleati.
Abbiamo seminato terrore e confusione nella mente dell'opinione pubblica, collegando arbitrariamente i problemi, in realtà non connessi, del terrorismo e dell'Iraq. Il risultato, e forse la ragione, è quello di giustificare un colossale trasferimento di risorse all'esercito e di attenuare i dispositivi di sicurezza che proteggono i cittadini americani dalla mano pesante dell'amministrazione.
L'11 Settembre non ha fatto così gran danno al tessuto della società americana quanto noi siamo decisi a fare. È forse nostro modello la Russia dei Romanov, un impero egoista e superstizioso che andava verso l'autodistruzione nel nome di un tetro status quo?
Dobbiamo chiederci perché abbiamo fallito nel tentativo di convincere la maggior parte del mondo che è indispensabile una guerra contro l'Iraq. Negli ultimi due anni abbiamo superato noi stessi nel mostrare ai nostri alleati che gli interessi miopi e commerciali del nostro Paese sono più importanti dei valori dei nostri partner. Anche laddove non si mettevano in discussione i nostri obiettivi, si mette in dubbio la nostra coerenza. Il modello dell'Afghanistan non tranquilizza i nostri alleati, che si domandano su quale base vogliamo ricostruire il Medio Oriente, su immagine e per interesse di chi.
Stiamo sordi - come la Russia è sorda in Cecenia, come Israele è sordo nei territori occupati - di fronte ai nostri stessi consigli, secondo i quali la schiacciante superiorità militare non costituisce una risposta al terrorismo? Quando il caos dell'Iraq post-guerra si sommerà al caos di Grozny e di Ramallah, ci vorrà fin troppo coraggio per continuare a seguirci.
Abbiamo ancora con noi una buona coalizione. La devozione di molti dei nostri amici è impressionante, omaggio al capitale morale americano costruito in più di un secolo. Ma i nostri alleati più stretti sono meno convinti che la guerra sia giustificata di quanto considerano pericoloso permettere agli USA di rinchiudersi in un solipsismo assoluto. La lealtà dev'essere reciproca. Perché il nostro presidente consente un approccio sprezzante ed arrogante verso quegli stessi amici e nostri alleati che questa Amministrazione, a partire dai suoi più vecchi funzionari, sta allevando? È forse diventato il nostro motto oderint dum metuant ("mi odino, purché mi temano", ndt)?
Vi invito ad ascoltare gli amici dell'America in tutto il mondo. Perfino qui in Grecia, considerata come focolaio dell'antiamericanismo europeo, abbiamo più amici, e amici più fedeli, di quanti possa immaginare il lettore dei quotidiani americani. Anche quando protestano per l'arroganza americana, i greci sanno che il mondo è un posto difficile e pericoloso e desiderano un sistema mondiale forte, con gli Stati Uniti e l'Unione Europea in stretta collaborazione. Quando gli amici temono noi invece di temere per noi, è il momento di preoccuparci. E ora hanno paura. Chi può persuaderli che gli USA sono, com'erano, un faro di libertà di sicurezza e di giustizia per il pianeta?
Signor Ministro, rispetto enormemente il suo ruolo e le sue capacità. È riuscito ad ottenere maggiore credibilità internazionale di quanto meriti la nostra politica e ha tratto qualcosa dagli eccessi di una Amministrazione ideologica e autoreferenziale. Ma la sua fedeltà al presidente va troppo lontano. Stiamo portando alle estreme conseguenze un sistema mondiale che abbiamo costruito con tanto lavoro e tante risorse, una rete di leggi, trattati, organismi e valori comuni in grado di ostacolare i nostri nemici molto più efficacemente di quanto possa ottenere la potenza dell'America nel difendere i propri interessi.
Mi dimetto perché ho fallito il tentativo di conciliare la mia coscienza con la capacità di rappresentare l'attuale amministrazione degli USA. Credo che la nostra prassi democratica abbia in definitiva una capacità di autocorrezione e spero di poter contribuire in piccola parte, dall'esterno, alla formazione di politiche che servono meglio la sicurezza e il benessere del popolo americano e il mondo che abbiamo in comune.
(da Adista n. 21, 2003)