I Dossier

Mercoledì, 25 Agosto 2004 23:35

La violenza: una regressione dell'uomo sapiens sapiens

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di Franco La Ferla

Avvertenza per il lettore

La tesi sviluppata in questo articolo non ha un pieno fondamento scientifico. Mi sembrava di poter affermare che l'evoluzione biologico-culturale dell'umanità fosse segnata soprattutto dalla cooperazione fra gli uomini, contro il conflitto e la violenza dell'uomo sull'uomo (homo homini lupus); che cioè fosse stata la solidarietà a generare l'affrancamento dalla vita raminga di caverna in caverna e a rendere l'Homo sapiens sapiens capace del buono e del nobile che ci circonda, quando invece la violenza lo avrebbe solo fatto riparare, solitario e ramingo, nelle caverne stesse.

Ho riletto un po’ di testi di antropologia che mi erano serviti in passato ad approfondire il rapporto fra l'uomo e l'ambiente e ho riscontrato alcune forzature nella mia affermazione. C'è naturalmente del vero in essa, ma una cosa è dire che, potenzialmente, la cooperazione facilita l'evoluzione biologico-culturale dell'umanità, altro è trasformare in un imperativo categorico l'affermazione stessa. Così, in definitiva, questa costituisce nient'altro che una esortazione forte ad abbandonare la violenza e a percorrere la solidarietà in forza di alcuni indubbi vantaggi evolutivi. (...) (1).

L'evoluzione dell'uomo

In una età della Terra databile in circa 4,6 miliardi di anni e in una prima presenza in essa della vita (colonie di alghe azzurre) a partire da circa 3,2 miliardi di anni fa, la comparsa dell'uomo è veramente recente. L'anello di congiunzione tra uomo e animali compare circa 5-4 milioni di anni fa in Africa, nell'ampia regione che si estende dall'Africa meridionale a quella nord-orientale. Di questo antenato, comune a noi e allo scimpanzé, non abbiamo trovato per ora le sue ossa (solo quelle di un suo discendente abbastanza immediato, l'Australopithecus afarensis di 3,5 milioni di anni fa): doveva comunque essere capace di camminare sui soli arti posteriori, anche se non con un andatura disinvolta come la nostra; e liberando le mani ha segnato l'inizio dell'elaborazione di strumenti via via più raffinati. Nella stessa area geografica e più recentemente (2,5 milioni di anni fa), è vissuto l'Homo habilis, capace di fabbricare strutture abitative e strumenti di pietra per aprire le carcasse degli animali morti per cause naturali, perché solo più tardi imparerà a cacciarli. Fra 2 milioni e 1 milione di anni fa (la data è molto discussa), l'uomo ha iniziato a espandersi via terra e ha occupato le parti non troppo fredde dell'Europa e dell'Asia; ha sviluppato strumenti più efficaci e un linguaggio; ha imparato a controllare il fuoco. Molto concisamente, le tappe con le relative tracce culturali più significative sono le seguenti:

    • Homo erectus: (poco più di un milione di anni fa) senso della simmetria e acquisizione di un certo senso estetico; (400.000 anni fa) controllo dell'uso del fuoco e primi accampamenti organizzati all'aperto; (300.000 anni fa) nascita di tradizioni culturali regionali, utilizzo di sostanze coloranti, prime testimonianze di un rito, rivoluzione tecnica di scheggiatura della pietra;
    • Homo sapiens neanderthalensis: (60.000 anni fa) primi riti funerari e nascita di sentimenti religiosi;
  • Homo sapiens sapiens: (30.000 anni fa) origine dell'arte, costruzione di utensili compositi.

Evolutivamente parlando noi tutti apparteniamo a quest'ultima specie, i cui discendenti, dopo essere diventati cacciatori abilissimi e pescatori valenti, capaci di cucirsi abiti per ripararsi dal freddo e di costruire solide capanne dotate di focolare, riescono a diventare pastori (8.000 anni fa), agricoltori (7.000 anni fa) e a usare i metalli (5.000 anni fa).

Questa comune discendenza dell'intero genere umano dalla stessa specie africana sbarazza anche il campo da qualunque rimasuglio di razzismo che ancora potesse albergare nella testa di qualcuno e contesta quindi in termini antropologici una delle cause di violenza ancora esistenti.

L'evoluzione socioeconomica dell'Homo sapiens sapiens

A tutto il periodo più antico della storia umana, che termina intorno a 10.000 anni fa, viene dato il nome paleolitico: gli strumenti sono fatti solo di pietra o di legno, il cibo viene procurato con la caccia e raccogliendo frutta, foglie, semi, radici e tuberi; gli esseri umani si riuniscono in gruppi di piccole dimensioni, conducendo un’esistenza nomade, con rari insediamenti fissi.

Poi finisce questo periodo in cui si vive di sola caccia e raccolta: le bocche da sfamare sono cresciute troppo; anche in conseguenza di questo, si sono uccisi troppi animali; il clima è cambiato e con esso cambiano flora e fauna. Non si sa esattamente quale fattore abbia contato di più: forse tutte e tre le ragioni insieme. Bisogna allora cercare di adeguarsi, cambiando il modo con cui ci si procura il nutrimento, e nasce una grande idea: non si mangia più soltanto il cibo clic la natura genera spontaneamente, ma lo si produce. Si iniziano a coltivare molte delle piante che prima si raccoglievano allo stato selvatico, in particolare cereali dall'alto potere nutritivo. Il fenomeno avviene contemporaneamente in più parti del mondo, troppo lontane e diverse l'una dall'altra per pensare che potessero intrattenere scambi. Più tardi, pur continuando l’attività della caccia, l'uomo impara anche ad allevare alcuni animali, così da garantirsi scorte viventi di cibo.

È questa la rivoluzione neolitica, quando in due-tremila anni i cacciatori-raccoglitori diventano allevatori-coltivatori e i nomadi diventano stanziali, con gruppi via via più numerosi, fino alla costruzione di vere e proprie città. Ed è qui che colloco la mia pseudo-tesi che la cooperazione sia funzionale all'evoluzione socioeconomica dell’homo sapiens sapiens e che la violenza costituisca invece un regresso.

Questo nuovo modo di procacciarsi il cibo chiede infatti attività specializzate, sia per produrre il cibo stesso (costruzione di strumenti agricoli, canali di irrigazione, ecc.). sia per gestire le eccedenze prodotte (stoccaggio, trattamenti di conservazione ecc.) Non è pensabile una svolta così importante nella cultura dell'uomo se non con un vero trionfo della cooperazione che richiede una organizzazione sociale e si porta dietro una gerarchia e la creazione di classi sociali fisse, con diversi diritti e doveri. Non è tutto rose e fiori; i conflitti individuali diventano conflitti di gruppo, si perfezionano anche le armi per guerrieri divenuti professionisti e cresce inesorabilmente il potere detenuto da singoli gruppi e individui. Ma se la società umana si è sviluppata da allora ad oggi, vuol dire che, nella scelta fra cooperazione e conflitto, la prima ha tendenzialmente prevalso. Guardandosi intorno si potrebbe ricavare l'impressione contraria, tanta è la violenza cui assistiamo ancora oggi; ma se ci fosse stata una marcata prevalenza del conflitto, la società umana si sarebbe rapidamente estinta, mentre così non è stato.

Un ulteriore spunto per la ragionevolezza di questa "utopia della cooperazione" è che essa comunque è stata sperimentata ancora da troppo poco tempo: risalendo solo fino all’Homo habilis, possiamo dire che su 2,5 milioni di anni una cooperazione seria si è sperimentata solo negli ultimi 10.000 anni. È come se, fatta uguale a 24 ore la storia dall’Homo habilis fino a noi, la cooperazione fosse stata provata in poco meno degli ultimi 6 minuti prima della mezzanotte di questa giornata umana.

Quindi è possibile che la sua inadeguatezza sia dovuta ad inesperienza. Mentre la violenza è più atavica, con i suoi 5-4 milioni di anni di istinto naturale che continua a riaffiorare in ognuno di noi...

Imperativi biologici

Del resto, qualcosa di simile alla violenza sembrerebbe legata al primo degli imperativi biologici comuni a tutti gli esseri viventi: sopravvivere. Per farlo, la concorrenza più pericolosa è quella con altre specie, in particolare con i predatori, di cui ogni specie è abbondantemente ''fornita'', ma dove la probabilità di restarne vittima può essere minore per chi vive in gruppi sociali. Sopravvivere e diventare adulti e sessualmente maturi permette di soddisfare il secondo imperativo: riprodursi. Le modalità con cui ciò avviene presenta una varietà infinita; limitandosi alla riproduzione sessuata, molto vari sono anche i modi e i tempi di contatto e fecondazione e sono differenti le modalità di cura della prole. Sono però molte le specie animali che conducono per tale fine una vita rigorosamente sociale: tale socialità è determinata biologicamente, cioè imposta dalla natura, come lo è anche la sua mancanza in altre specie.

Il terzo imperativo biologico, che interagisce fortemente con gli altri due, è quindi quello sociale, che si manifesta nei viventi da forme più semplici ad altre via via più complesse.

Ma è sbagliato considerare come una forma di violenza la predazione legata all'imperativo del sopravvivere: la violenza, per essere chiamata tale, chiede di essere riferita al principio di responsabilità delle scelte morali, non ad una "imposizione della natura'' (tralascio e rimando ad altre pagine di questo quaderno le indispensabili precisazioni che questa frase richiede). Non vi è dubbio però che gli atti di violenza di cui l'uomo è capace rimandano spesso, almeno come modalità di comportamento, all'atavico imperativo del sopravvivere, al ritorno alla legge della giungla, dove "l'uomo si fa lupo per l'altro uomo''.

Così, è possibile che il rinforzo dell'imperativo sociale, finalizzato in primo luogo a un più facile soddisfacimento dell'imperativo del sopravvivere, sia la chiave del superamento della violenza personale e di gruppo sugli altri uomini e sulla natura. Con la maggior facilità di procacciarsi il cibo generata dalla rivoluzione neolitica, tutto questo sembri aver cominciato ad affermarsi almeno nei confronti degli altri uomini, se non ancora della natura tutta: l'utopia (il non-luogo) della cooperazione sembra quindi chiedere solo un altro po' di tempo perché possa irrevocabilmente aver luogo.

Trasmissione culturale

Il grande successo evolutivo dell'uomo come specie è indubbiamente legato alla trasmissione culturale. Almeno dall'Homo habilis in poi nasce e si sviluppa la cultura, cioè quell'insieme di comportamenti, abilità, nozioni, tecnologie, trasmesse di generazione in generazione che consentono di superare più agevolmente la selezione naturale subita da tutti i viventi nel proprio ambiente di vita. Si discute se si possa parlare di ''trasmissione culturale" anche per gli animali; quello che è certo è che la specie umana la esercita con particolare potenza e successo, grazie soprattutto all'esistenza del linguaggio: una cosa è infatti apprendere per osservazione più e meno casuale, un'altra è poter imparare dalla voce di un genitore o di un insegnante, da un libro, da un manuale di istruzioni con figure, da un computer interattivo.

La trasmissione culturale, agendo sulla selezione naturale e interagendo con gli altri due fattori evolutivi, e cioè la riproduzione e la mutazione genetica, ha influito in modo determinante sulla evoluzione sociobiologica della specie umana.

La potenza e la rapidità della trasmissione culturale umana, rispetto alle evoluzioni che avvengono di generazione in generazione, derivano da due aspetti: le novità culturali, ad esempio le innovazioni tecnologiche, possono prodursi a getto continuo nel corso della vita, non si verificano solo a ogni cambio di generazione; queste novità non si trasmettono solo ai figli, ma potenzialmente a ogni membro della comunità. Ne risulta una straordinaria velocità di diffusione per le novità che portano vantaggi, con una accelerazione nella diffusione stessa dovuta ai miglioramenti nei mezzi di trasmissione culturale (comunicazione, trasporti, ecc.); così, ad esempio, l'arco si è diffuso in pochi millenni nel paleolitico, il mulino ad acqua in pochi secoli nel medioevo, il computer in pochi decenni nel XX secolo.

L’altruismo per l'evoluzione dell'umanità

Di solito, la vitalità di un gruppo sociale, cioè la sua possibilità di sopravvivere e perpetuarsi, dipende da un certo grado di altruismo degli individui del gruppo, se non di tutti almeno di alcuni. L'esistenza di qualche forma di altruismo è cioè una condizione necessaria perché la vita in società rechi vantaggio al gruppo.

In gruppi ampi come quelli in cui viviamo, non basta l'altruismo verso le persone imparentate (si regredirebbe alle microcomunità dei "propri cari"); serve un altruismo più generalizzato. Un altruismo anche non corrisposto?

La teoria matematica dei giochi, con il "dilemma del prigioniero", ha cercato di dimostrare quale fosse la strategia più efficiente per ottenere la cooperazione fra individui e vincere la possibile defezione (un altruismo non corrisposto) di un interlocutore in una società (animale o umana). In una successione nel tempo di rapporti fra due "giocatori avversari", la fredda matematica ha dimostrato che la strategia migliore è: cooperare come prima mossa e, in tutte quelle successive, fare la stessa mossa che ha appena fatto l'avversario la volta prima. Provare per credere.

Ma per un l’Homo sapiens sapiens ancora più sapiente, la vittoria della cooperazione e dell'altruismo sulla violenza non potrà basarsi su tentativi ed errori; dovrà, con forte determinazione rifarsi a quella parte della potente trasmissione culturale che va sotto il nome di educazione.

Può sembrare una conclusione banale, in cui sempre andiamo a parare noi che di educazione siamo appassionati. Ma se ancora una volta riguardiamo alle 24 ore della giornata umana e ai 6 minuti scarsi di tentativi di cooperazione, forse l'educazione, come specificazione della trasmissione culturale, ha solo pochi secondi di esperienza, con solo alcuni decimi di secondi vissuti all'interno di una esperienza di democrazia (in parti molto limitate del mondo).

Dunque non è irragionevole pensare che l'evoluzione prosegua, grazie anche all'educazione, verso l’allargamento della cooperazione e l'inibizione della violenza.

NOTA

(1) Per le considerazioni che seguono ho ampiamente saccheggiato, soprattutto per la parte dedicata a "Le strade della natura", un testo di cui consiglio vivamente la lettura: Francesco e Luca Cavalli-Sforza, La scienza della felicità. Ragioni e valori della nostra vita, Milano, Oscar Mondadori, 1997. Ho evitato nel mio articolo di riportare correttamente le citazioni (virgolettandole, ecc.), perché il mio scritto non ha ambizioni di pubblicazione scientifica, poi perché la frequenza delle virgolette avrebbe complicato la lettura e, infine, perché nei saccheggi è facile usare gli oggetti del bottino per fini diversi (una scodella per il cibo che diventa un portavaso) e non ho voluto correre il rischio che affermazioni testuali dei Cavalli-Sforza sostenessero argomentazioni eventualmente da loro non condivisibili. Spero che questo minor male spinga i lettori a leggere quel testo completo, che è davvero interessante.

(da Servire n. 4 – ottobre-dicembre 2003)

 

 

 

 

Letto 3535 volte Ultima modifica il Domenica, 18 Settembre 2011 19:05
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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