Formazione Religiosa

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Lunedì, 02 Gennaio 2006 23:57

A scuola interculturalmente (Adel Jabbar)

Nella scuola la sfida (una delle sfide) è oggi rappresentata dalla presenza dell'alunno straniero, presenza che viene sostanzialmente affrontata secondo due modalità/approcci.

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Lunedì, 02 Gennaio 2006 23:38

Ciascuno cresce solo se sognato (Danilo Dolci)

Ciascuno cresce solo se sognato
di Danilo Dolci



C'è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c'è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C'è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c'è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C'è pure chi educa, senza nascondere
l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d'essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.

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Naturalmente gli angeli della storia profana sono, all’apparenza, diversissimi da quelli della storia sacra; e tuttavia al di là delle apparenze, gli angeli della storia (cioè le grandi forze morali positive che la percorrono) condividono con gli angeli della Bibbia, le più importanti caratteristiche...

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Mercoledì, 07 Dicembre 2005 00:57

Multiculturalismo (Tamar Pitch)

Universalismo e relativismo sono dunque strettamente intrecciati, due facce di una stessa medaglia e possono ambedue legittimare politiche contraddittorie. In ambedue coesistono il riconoscimento delle differenze.

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L’educazione alla mondialità è la capacità di cogliere i nessi, di leggere le interconnessioni, di svelare i legami tra il microlivello dell'azione quotidiana e il macrolivello planetario: un "pensare globalmente e agire localmente".

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Giovedì, 10 Novembre 2005 01:28

La pace dentro la guerra (Gad Lerner)

La pace dentro la guerra

di Gad Lerner

Da tempo non provavo una commozione così intensa. Quella donna che invoca Dio di maledire gli ebrei, fra le macerie della sua casa distrutta in Cisgiordania. E poi scura in volto come paralizzata dall'ansia durante il trasbordo al check point fra un'ambulanza con la mezzaluna rossa e l'altra con la stella di Davide. Infine, un dialogo sorridente, fra le tecnologie di un ospedale avveniristico di Tel Aviv, col medico israeliano felice di avere salvato la vita a un bambino palestinese. Quel fagotto dai grandi occhi neri, che la donna aveva disperatamente accudito con l'aiuto di pediatri della sua terra, coraggiosi e ironici anche nel dialogo con quegli "psicotici" degli israeliani.

E poi i volontari del centro Peres. Manuela Dviri, che si prodiga nel costruire relazioni di pace perché non riesce a star ferma, dopo che le hanno ammazzato un figlio soldato ventenne in Libano. Litigando con suo marito Avraham, incapace di far suoi l'ottimismo e la disponibilità al dialogo. Senza dimenticare l'angelo ispiratore di questo miracolo, il mio amico Massimo Toschi (ma lui obbietterebbe che l'angelo ispiratore è sua moglie Piera, dal cielo), che va e viene dalla Toscana, disposto perfino a sedersi su una sedia a rotelle pur di correre più in fretta.

Sto parlandovi del meraviglioso documentario realizzato da Unicoop sull'esperienza di un annodi "Saving childrens", molto semplice a dirsi, un po' meno a farsi: bambini palestinesi curati negli ospedali israeliani, dialogo permanente fra medici delle due sponde, famiglie che passano i posti di blocco e si riconoscono, umanità reciproca dentro la guerra, oltre l'odio.

Il documentario è un'avventura col cuore in gola. Anzi, è tutto suspense di operazioni a cuore aperto, merito di équipe scientifiche d'altissimo livello, messe in relazione con la miseria dei vicini-nemici. Tutto vero, niente fiction. Gli attori recitano sé stessi e narrano come si possa agire contro la guerra stando dentro la guerra. In questo primo anno di attività, finanziata dalla Regione Toscana e dalla fondazione Monte dei Paschi di Siena, fortemente voluta da Shimon Peres e dal suo Centro per la pace, dovevano essere curati 300 bambini palestinesi, fra gli ospedali di Gerusalemme e di Tel Aviv. In realtà, ne sono stati curati 700. Grazie all'impegno di altre regioni (Emilia Romagna, Umbria, (Calabria), dal 2005 in poi saranno mille all'anno.

Ci voleva una scintilla di fede e di speranza da fuori per accendere un'energia di pace già diffusa fra persone costrette assurdamente a odiarsi.

Ve ne parlo, con sincero entusiasmo, ben sapendo che l'azione umanitaria e l'impegno delle organizzazioni non governative in zone di guerra - e in particolare nell'inferno irakeno - oggi subiscono la battuta d'arresto del terrorismo e della militarizzazione del territorio.

Non dappertutto è ripetibile l'esperienza di "Saving childrens". Altrove bisogna ripensare il modo e il senso stesso della presenza volontaria dentro ai conflitti. Ci sono state inevitabili e dolorose ritirate. Ma la testimonianza di una cultura di pace, capace di coinvolgere direttamente la popolazione a partire dai bambini, resta l'unica via della speranza.

(da Nigrizia, dicembre, 2004, p. 74)

 
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Martedì, 08 Novembre 2005 00:22

La salvezza è la pace (Enrico Peyretti)

La salvezza è la pace
di Enrico Peyretti




«Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio ma da come parla delle cose terrestri, che si vede se la sua anima ha soggiornato in Dio», dice Simone Weil, citata dal teologo torinese Oreste Aime nel (...) convegno sulla salvezza nell’Ortodossia e nel Cristianesimo occidentale, indetto dal Centro di studi religiosi comparati Edoardo Agnelli. Sembra per lo più che i teologi ortodossi volino nei cieli, senza toccare terra. Sembra di ascoltare una spiritualità così unicamente concentrata in Dio da non vedere più il mondo amato da Dio. Ora, noi siamo in terra, e aspettiamo la Gerusalemme celeste che, nelle figure del libro dell’Apocalisse, scenderà sulla terra, e non saremo noi a salire dalla terra al cielo.

La salvezza che speriamo e attendiamo è oggetto di una speranza tutta formale, oppure comincia realmente e si può intravedere in parzialità e contraddizioni, ma in realtà incoativa, già in questo tempo? Soltanto la mistica e la liturgia sono profezia del mondo risanato, o non anche la vita quotidiana nell’amore per il prossimo, che certamente è parte essenziale del cristianesimo orientale?

Dio ci salva dal peccato. E il peccato in definitiva è ogni offesa al prossimo, ogni violazione della relazione umana, ogni atto di dominio e disprezzo, che oscurano il senso dell’esistenza e creano dolore e paura, cioè morte, non-vita. Il nostro stare col prossimo è la misura del nostro stare davanti a Dio. Il prossimo è il primo sacramento di Dio, che dunque è onorato oppure offeso in esso, e di esso Dio si fa difensore e vindice.

Non c’è storia della salvezza senza salvezza della storia, diceva Ellacuria. E per Sobrino non è solo nella vita dopo la morte, ma nelle opere del Gesù storico che si attua il regno di Dio. La salvezza si realizza e si fa conoscere nel mondo delle relazioni, ha detto nel convegno Yannaras: nelle buone relazioni. Se il peccato è inimicizia, offesa e violenza nella nostra relazione con l’altro, Cristo è l’uomo senza inimicizia, è l’uomo nuovo, nonviolento nell’umanità violenta, è lui la pace vissuta, che abbatte le divisioni, è l’uomo-per-gli-altri, è il Salvatore.

Salvezza nella storia, cammino fuori dal peccato, è ogni riduzione della violenza (in tutte le sue forme, dirette, strutturali, culturali, esterne ed interne), ogni passo di pace. La parte di pace che riusciamo a costruire, come «figli di Dio», con la sua azione in noi, che lo sappiamo o no, è la profezia nella storia della piena salvezza finale.

Poiché l’amore del prossimo è l’elemento comune e la misura di fedeltà in tutte le vive religioni umane, la pace è la salvezza che Dio (comunque lo conosciamo) costruisce in noi e con noi, su tutte le vie religiose e umane autentiche. Quando Aldo Capitini esprime il pensiero che la vita senza morte (la salvezza) comincia col non uccidere, dice questo. Per Panikkar la pace è il nuovo mito emergente (mito in senso positivo), è la nuova etica universale, quasi una religione comune, nel rispetto delle differenze (la pace è pluralismo, insiste Panikkar); la pace è un valore che giudica oggi tutte le etiche, filosofie, politiche e religioni. Ci sarà il compimento della vita umana, non ci saranno molte salvezze come molte sono le teorie della salvezza. La pace è il contrario del dominio, è la carità concreta, è rispettare e amare il valore dell’altro.

Bisogna che anche la salvezza cristiana impari ad esprimersi così. Ciò non toglie nulla a Dio. Non ci si salva senza Dio, ma neppure senza il mondo, e desiderarlo non è bene. Ci si salva nella pace, la quale va all’infinito, cominciando dai passi qui difficili ma possibili, passi profetici da riconoscere con venerazione.

La salvezza è la pace. E ciò non va capito come riduzione della salvezza a qualche buona e giusta azione politica umana, come se non ci fosse Dio nell’uomo che pratica la giustizia. Va inteso nel senso che la vita buona, fragile e preziosa, nostro compito quotidiano nel piccolo e nel grande, è segno nei nostri giorni della salvezza che, nonostante la forza del male, viene, verrà, e sarà pace piena.


(da
Il foglio, n. 294, settembre 2002)
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Un commento su Mt 22,15-22
Dio o Cesare?
 Il dovere della disobbedienza civile
di
François Vaillant



Se c'è una frase di Gesù citata per diritto e per rovescio nel corso dei secoli è la celeberrima: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Il più delle volte è stata interpretata come l'esistenza di una separazione fra due poteri: quello temporale e quello spirituale. «Date a Cesare quel che è di Cesare» dovrebbe implicate per ognuno l'obbedienza allo Stato, mentre «date a Dio ciò che è di Dio» dovrebbe consistere nella pratica religiosa senza alcuna interferenza che possa turbare l'integrità fra questi due poteri. Le parole di Gesù a proposito del tributo a Cesare assumono un significato completamente diverso se si ha l'onestà di non estrapolarle dal contesto in cui vennero pronunciate.

Siamo a Gerusalemme il lunedì successivo alla domenica delle Palme, Gesù ha appena scacciato i mercanti dal Tempio; … i farisei vanno e vengono in compagnia degli erodiani per tendere una nuova trappola al profeta di Galilea. Lo scopo dei farisei è sempre lo stesso: far cadere Gesù screditandolo agli occhi della folla. I partigiani della dinastia di Erode hanno come principale preoccupazione quella di adulare Cesare per poter vivere a loro agio in Palestina. I farisei superano qui la loro ripulsa nei confronti degli erodiani, il cui peccato di impurità è grande, perché sono dei collaboratori dell'occupante romano. Ma i farisei hanno un vantaggio immenso compromettendosi con questa gente una volta ogni tanto, perché se Gesù dicesse che non si deve pagare il tributo a Cesare, gli erodiani sarebbero nella posizione ideale per testimoniare davanti alle autorità romane sull'ostilità di Gesù nei confronti dell'imperatore. Se Gesù dice che bisogna pagare il tributo a Cesare i farisei sono ancora una volta vincenti, perché agli occhi del popolo Gesù apparirebbe come uno che accetta l'occupazione straniera e perderebbe ipso facto tutto il suo credito popolare. E ancora una volta la trappola tesa a Gesù sembra perfetta.

I farisei pongono a Gesù la seguente domanda: «Dicci il tuo parere. È lecito o no pagare il tributo a Cesare?» …. Gesù va dritto allo scopo per stabilire la verità: chiede di vedere il denaro del tributo, un fariseo si mette una mano in tasca e ne trae un denaro e presenta a Gesù questa moneta tenendola sul palmo della mano; Gesù la guarda senza toccarla … «Di chi è questa effigie e l’iscrizione?» chiede loro. «Di Cesare» rispondono in coro! Il denaro mostrato a Gesù reca l'effigie di Cesare con la seguente iscrizione: «Figlio del divino Augusto, pontefice massimo». Chi porta con sé questa moneta coopera di fatto al culto pagano reso al divino Cesare. …… Gesù non dice affatto ai farisei di pagare l'imposta, ma soltanto di rendere la moneta idolatra al legittimo proprietario. L'imposta è un contributo che si versa allo stato, non la restituzione di qualcosa … Gesù non prende posizione sul tributo da pagare o meno all'occupante romano; egli ordina soltanto ai farisei di smetterla di collaborare al culto del divino Cesare e il cessare questa collaborazione passa attraverso la restituzione di ciò che gli appartiene, vale a dire la sua moneta.

Avremmo torto se oggi interpretassimo quel «date a Cesare quel che è di Cesare» come un incitamento a pagare tutte le tasse, poiché aggiungendo nella medesima frase «date a Dio ciò che è di Dio» Gesù ci ordina di vivere compiendo azioni che onorano Dio. Poiché non è possibile onorare Dio compiendo degli atti che lo disonorano - a meno di essere ipocriti come gli scribi e i farisei -, il Vangelo costringe i cristiani a rompere certi legami con il mondo, e ciò vale soprattutto per il potere delle armi. I primi cristiani l'avevano capito perfettamente perché scelsero di essere obiettori di coscienza verso il servizio militare confermando in pieno la profezia di Isaia: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci: un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Is 2, 4).

Ieri come oggi il Vangelo invita gli uomini di buona volontà a non collaborare con lo stato quando questo ordina di compiere atti contrari alle esigenze morali del Regno di Dio. Se alcuni teologi hanno abusato della frase «date a Cesare quel che è di Cesare» per obbligare la gente ad obbedire allo stato in qualunque circostanza, non si può fare a meno di constatare che essi citavano una frase di Gesù in modo parziale, senza tener conto né del contesto «né dei limiti che l'autentico bene comune fissa per l'esercizio di qualsiasi autorità, né del dovere di disobbedienza che può rendersi necessario in alcuni casi per motivi di coscienza». Citiamo qui una frase di P. Grelot che ha scritto pagine fondamentali sulla questione del tributo a Cesare.

(…) Se lo stato chiede ai cristiani di obbedire a leggi che, in coscienza, essi giudichino ingiuste in quanto contrarie all'etica nonviolenta del Vangelo, devono disobbedire a tali leggi. Come potrebbero infatti continuare ad onorare il Dio vivente se altrove accettassero di fare il male che viene loro richiesto? Non è certo perché l'espressione «disobbedienza civile» viene associata a Gandhi che si può pensare che tale concetto sia assente nel Vangelo. Al contrario, proprio come strategia di lotta la disobbedienza civile è ben presente. Quando non è possibile obbedire contemporaneamente alle istituzioni umane e a Dio, «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).

(tratto da François Vaillant, La Nonviolenza nel Vangelo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1994, pp. 46-49)

Pubblicato in Dossier Pace
Martedì, 06 Settembre 2005 22:53

Guerra e pace nell' Ebraismo (Rav Roberto Della Rocca)

Guerra e pace nell'Ebraismo
di Roberto Della Rocca
rabbino capo di Venezia

Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.

Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.

Lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie.

In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati.

Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.

Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica.

Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace".

Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero" (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.

Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10).

Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.

Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?"

Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani.

Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.

Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.

La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.

In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza.

Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace…".

Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente.

Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogni sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona.

Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom" pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).

Tratto dal sito www.morasha.it


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Siamo chiamati ad elaborare
una nuova cultura di pace
di Massimo Toschi




Noi sappiamo che nel secolo XX la guerra è radicalmente cambiata. Dalla guerra di Spagna non c'è più lo scontro tra eserciti, ma il vero e sempre più crescente obiettivo diventa l'uccisione deliberata dei civili. Nelle guerre combattute dal 1945 ad oggi sono stati uccisi 25 milioni di civili. Negli ultimi dieci anni, su 100 morti nelle decine di guerre in atto, 7 sono militari e 93 civili, di cui 34 bambini. Sempre più le guerre non finiscono con la firma di un trattato, perché le mine anti-uomo continuano a ferire e a uccidere ben oltre gli armistizi, e l'inquinamento ambientale prodotto dalle bombe ha effetti devastanti sulla vita della popolazione civile sopravvissuta, com'è avvenuto nel caso dell'Iraq, nel caso Kosovo e probabilmente nella stessa vicenda dell'Afghanistan ancora in atto.

Il magistero di Giovanni XXIII

È questo orizzonte che spinge Giovanni XXIII nel 1963, con la Pacem in terris, non solo a porre fine alla teologia della guerra giusta, ma anche a rifiutare in radice ogni futura possibilità di guerra. Dice Roncalli, in quello che appare il suo testamento, che, scritto due mesi prima di morire, è la pienezza della sua parola per la chiesa e per il mondo: "Riesce impossibile pensare (alienum est a ratione) che nell'era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia". Egli comprende con assoluta chiarezza che l'era atomica cambia totalmente la qualità della guerra, non solamente nel senso che viene aumentata in senso geometrico la sua potenzialità distruttiva, ma che a causa di questo i civili e la loro uccisione diventano l'obiettivo primario dell'azione militare. Questo è stato vero a Hiroshima, ma anche in tutte le guerre successive, dove pure non è stata usata direttamente la bomba atomica. Questa intuizione porta papa Giovanni a spezzare definitivamente il legame tra guerra e giustizia: la guerra senza aggettivi, dunque ogni guerra.

Egli non contrappone dottrina a dottrina, ma, leggendo in profondità la storia, assume e fa proprio il grido muto delle vittime innocenti che la guerra sempre produce. È da qui che viene la sua consapevolezza della pace come parola assoluta e indivisibile, che contiene in sé l'unità e la radicalità di tutto il Vangelo. Questo grido diventa come il segno dei tempi che domanda alle chiese di convertirsi, di chiedere perdono per aver giustificato la guerra, di comprendere meglio il Vangelo della pace.

Oltre la dottrina sociale

Il Concilio è stato l'evento per mezzo del quale Giovanni XXIII ha rimesso il Vangelo al cuore della storia e ha chiesto alla Chiesa di vivere il servizio all'Evangelo, condividendo la sorte e il patire dei popoli, in particolare di quelli più piccoli e più poveri. Perciò la pace ha abbandonato per sempre i capitoli della teologia morale e della logora dottrina sociale, per tornare ad essere luogo decisivo della confessione della fede.

La Parola di Dio deve essere assunta come sostanza viva e vitale di tutto quello che la chiesa e i cristiani sono chiamati a dire sulla pace. Questo avviene quando le vittime hanno autorità sulla chiesa che legge la Scrittura.

Così si comprende con assoluta chiarezza che la pace è al cuore della cristologia, la pace è una persona, è Gesù nella totalità del suo mistero. Dunque la pace evangelica è coestensiva alla presenza del Messia povero e pacifico in tutta la storia degli uomini. In questo senso la centralità assoluta della pace diventa coestensiva alla centralità assoluta dell'Eucarestia. E la pace e l'Eucarestia diventano coestensive nel mistero della Vittima, che nella storia si rivela nel volto concreto delle vittime della violenza. E la loro voce che la chiesa deve assumere, è a partire dal loro grido che essa è chiamata a comprendere meglio il Vangelo della pace e a testimoniarlo in debolezza, senza appoggi e sostegni umani.

Nasce da qui il drammatico senso di responsabilità e di coerenza spirituale che non fa indietreggiare la chiesa e il credente di fronte alle conseguenze della fedeltà all'Evangelo, riletto dentro i conflitti della storia.

Se la guerra, ogni guerra è l’antivangelo, nessuna guerra può essere più giustificata dal punto di vista della fede, né quelle compiute contro il diritto internazionale, né quelle avvallate dalle organizzazioni internazionali, neanche quelle costruite con l'avvallo di una mozione dell'Onu. Questo significa percorrere altre vie per risolvere i conflitti internazionali, per piegare dittature e regimi violenti, per combattere il terrorismo. Arrendersi alla cultura della guerra come extrema ratio, significa fare della guerra la ratio di ogni politica. A maggior ragione con la guerra preventiva, quando essa diventa la prima ratio di ogni politica, e dunque il fallimento e la sconfitta della politica.

A tutto questo la chiesa e i cristiani partecipano, testimoniando l’alterità del Vangelo ad ogni guerra e ad ogni sua giustificazione. [……]

Uuna nuova cultura della pace

Elaborare una nuova cultura di pace è compito di molti. Ciascuno è chiamato a portare l'originalità del suo pensiero, la ricchezza della sua tradizione culturale e spirituale. Anche le chiese e i cristiani non possono sottrarsi a questa fatica. Ecco alcuni punti essenziali da cui partire:

1) il non uccidere

La parola biblica deve di nuovo assumere tutta la sua forza profetica. Si spezza davvero il circolo della violenza quando si decide di dare la vita per i nemici. Dunque il non uccidere i nemici ha il suo punto d'arrivo nel dare la vita per essi. Solo così la violenza non diventa più padrona della nostra vita. Quando si uccide, anche se questo avvenisse per un motivo giusto e nobile, si moltiplica l'odio e l'inimicizia nel mondo e dunque si rilancia la causa della violenza, di quella violenza che vorremmo colpire e reprimere.

2) il fare la pace con mezzi pacifici

Sta qui la grande questione della nonviolenza attiva. La pace non può essere costruita con qualunque mezzo: dev'essere costruita con mezzi coerenti con il suo fine. Tutto questo porta a rifiutare i mezzi violenti, le armi, a maggior ragione le armi con devastante potere distruttivo. Oggi, rispetto a cinquant’anni fa, si può dire che il regime sovietico, come diversi regimi autoritari in Asia e America latina sono caduti, senza uso delle armi o della guerra. Lo stesso muro di Berlino, che è stato il simbolo dell'inimicizia e del mondo diviso in due, è caduto a partire dalle manifestazioni nonviolente dei giovani evangelici della Germania Est. Il regime dell'apartheid in Sud Africa si è frantumato quando Mandela ha scelto la nonviolenza.

Tutto questo ci dice che sono possibili altre vie rispetto all’azione militare, alla violenza e alle armi. I regimi autoritari spesso sono rafforzati dalla guerra, mentre sono sempre destabilizzati dal dialogo della nonviolenza, che punta non a distruggere, ma a cambiare le coscienze. Se pensiamo per un attimo alla Palestina, è sempre più chiaro oggi che l'affermazione dei diritti dei palestinesi non passa attraverso il terrorismo o l'insurrezione militare. Il terreno delle armi e delle azioni militari sta sfigurando l'anima e il cuore d'Israele, ma la lotta violenta, promossa da molte organizzazioni politiche dei palestinesi, ha ottenuto l'unico risultato di distruggere la vita e la speranza di un popolo. …

3) stare nella storia dalla parte delle vittime

Quando si legge e interpreta la guerra dalla parte di un computer o di una sala ovale o dalla stanza dei bottoni o di una facoltà di teologia o di un palazzo di curia, è facile dimenticare che oggi la guerra significa, prima di tutto e innanzitutto, uccidere delle vittime innocenti, che sono l'obiettivo deliberato di ogni azione militare.

La guerra diventa impossibile se siamo capaci di guardare il volto dei bambini delle donne, degli anziani iracheni o afgani o di qualunque altra parte del mondo. Il loro volto e la loro sofferenza invocano pace non guerra. Il loro patire diventa il discernimento più grande sulla guerra e sulle sue apparenti e sofisticate ragioni.

4) il perdono e la riconciliazione

Solo una cultura del perdono e della riconciliazione può sanare le ferite dell'inimicizia e dell'odio. L'esperienza del Sudafrica con la “Commissione sulla verità e la riconciliazione” ha indicato una strada decisiva per fare la pace. Non la via della vendetta, che mai costruisce, ma quella del riconoscimento del dolore dell'altro, il confessare la propria colpa rispetto ad esso. Allora ci si accorge che la divisione non passa più tra bianchi e neri, ma all’interno del cuore di chiunque abbia condiviso la violenza contro il fratello. Questo apre un processo profondo dì ricomposizione del tessuto della vita comune, senza il quale l'odio non è sconfitto.

Una strada analoga dovrebbe essere con coraggio intrapresa nei Balcani, per spezzare il muro di separazione delle coscienze, ancora oggi molto evidente. Lo stesso accadrà tra israeliani e palestinesi, se davvero avranno il coraggio di scommettere sulla pace, che nasce dalla fiducia e non dal potere delle armi.

Sono quattro punti. Indicano la ”via stretta della pace” senza la quale non c'è futuro. Si legge nell'introduzione della Leggenda Maggiore, a proposito di Francesco d'Assisi: "Angelo della vera pace, anch'egli a imitazione del Precursore, fu predestinato da Dio a preparargli la strada nel deserto dell'altissima povertà e a predicare la penitenza con l'esempio e la parola".

Le chiese oggi sono chiamate ad essere angeli della vera pace, facendosi povere, ponendo la parola della conversione e imparando dalle vittime. Ci sono già cristiani che indicano, con la loro vita e con la loro morte martiriale, questa strada.

(in L’Angelo della Pace, Il Vangelo nel tempo della guerra, Brescia, Quaderni di Missione Oggi, Ottobre 2002, pp. 2-7)


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