Formazione Religiosa

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 Famiglie che si sostengono tra loro:

Una risorsa personale e sociale

Una risorsa personale e sociale

Nella cultura odierna non c’è una disponibilità diffusa né un interesse a stabilire relazioni interfamiliari significative, a causa della difficoltà crescente nei rapporti interpersonali al di fuori dell’ambiente familiare. Questo è segnalato da ricerche sociologiche, da testimonianze, dai numerosi ricorsi alla "posta del cuore" e soprattutto dall’instaurarsi di relazioni virtuali: cresce sempre di più l’isolamento individuale e l’incapacità di stabilire rapporti veri con l’altro.

A volte questa difficoltà si riflette anche nella famiglia: i rapporti all’interno della famiglia allargata sono spesso obbligati e quindi difficili, ad esempio i nonni sono visti come baby sitter e non come educatori.

L’ASSOCIAZIONISMO: OCCASIONE UMANA E CRISTIANA

La difficoltà nei rapporti interpersonali è uno dei tanti effetti secondari del nuovo assetto della civiltà nel passaggio della cultura contadina alla cultura urbana. Infatti, nella società contadina i rapporti di aiuto nascevano spontanei, mentre nella società urbana anche se la distanza fisica tra famiglie e persone si è ridotta, la spontaneità dei rapporti è venuta meno, mentre sono aumentate le richieste d’aiuto. L’associazionismo è nato proprio per promuovere l’aiuto tra le persone. La Chiesa l’ha sempre favorito da quando la spontaneità relazionale delle prime comunità cristiane ha cominciato a non essere più possibile; l’associazionismo nasce dalla vocazione naturale degli uomini a condividere, collaborare, organizzarsi, anche se non è sempre facile cogliere questa dimensione comunitaria. Anche Paolo VI incoraggiava "gli sposi a farsi apostoli e guida di altri sposi" chiedendo ai laici sposati di attivare una solidarietà educativa e di aiuto.

DALLA PROMOZIONE DELL’ASSOCIAZIONISMO AL FORUM DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

Con il Concilio c’è una radicale modifica del ruolo della Chiesa, che apre prospettive altissime ed entusiasmanti alla vita degli sposi e delle famiglie; la coppia diventa trainante e per gestire questo compito occorre un’indispensabile ed urgente attività capillare di formazione e un’esperienza di iniziative pedagogiche. Per questo motivo nascono gruppi, movimenti, associazioni finalizzate all’auto formazione degli sposi, stimolati da sacerdoti illuminati e convinti. Nel 1993 queste numerose piccole aggregazioni di associazionismo familiare si riunirono in un Forum permanente per fare udire una voce collettiva sulle grandi questioni che interessano la vita umana. Si passa così da una dimensione spirituale ad una dimensione operativa, sociale, politica, come espressione di quella stessa spiritualità. Il Forum ha promosso iniziative di portata politica e sociale attraverso documenti, dichiarazioni, sit—in, concentrando però a volte troppa attenzione sugli aspetti organizzativi e gestionali.

AGGREGARE LE ASSOCIAZIONI FAVORISCE L’AGGREGAZIONE TRA FAMIGLIE?

Oggi è sempre più urgente promuovere e favorire uno spirito di comunione che esprime nel quotidiano, in esperienze modeste e sotterranee, un costante aiuto. Un vantaggio offerto dall’aggregazione tra associazioni è la maggiore visibilità dei problemi, il pensare grandi progetti e obiettivi. Tra le famiglie nasce una solidarietà autentica, il dialogo, l’accoglienza del diverso, il confronto tra posizioni diverse nella società familiare: questi legami si creano nell’esperienza quotidiana del mutuo aiuto, con la disponibilità al confronto e all’incontro in un ambiente dove c’è una paziente e capillare trasmissione dei valori propri della spiritualità evangelica.

POSSIBILI AMBITI DI ATTIVITA’ DELLE ASSOCIAZIONI FAMILIARI

  • La promozione e lo sviluppo dell’istituto dell’affidamento familiare

Con la legge 184/ 83 la famiglia è stata ufficialmente e giuridicamente spinta ad assumersi responsabilità sociali precise. Fino ad allora una famiglia poteva aiutare un bambino orfano adottandolo; i bambini non adottabili restavano in istituto fino alla maggiore età, costretti ad un anonimato sociale e personale e ad una povertà affettiva che evolveva in disfunzionalità psicologiche e carenze cognitive. Ma con la legge del 1983, preceduta dall’istituzione del Tribunale per i Minorenni (1934), si apre una nuova epoca in cui l’attenzione ai minori è concreta e istituzionalizzata, attraverso l’affermazione del diritto del bambino a crescere nella famiglia, la propria quando possibile, oppure in una disponibile ad adottarlo o ad accoglierlo in affido temporaneo secondo l’età, le circostanze e le risorse economiche. Per le famiglie si apre cosi’ una prospettiva di impegno sociale ampio ed interessante: ma tutto ciò avviene con molti ostacoli, specialmente di natura culturale.

Infatti, l’affidamento non può essere realizzato senza aver accertato l’idoneità della coppia potenzialmente affidataria o adottiva, allo scopo di conoscere le motivazioni, le intenzioni e il quadro complessivo della famiglia. Un secondo ostacolo è costituito dal fatto che l’affidamento, proprio per la sua temporaneità, prevede il mantenimento dei rapporti con la famiglia biologica del bambino e quindi l’instaurarsi di buoni rapporti tra le famiglie, prevedendo quindi un’alta disponibilità di entrambe. Inoltre il problema della temporaneità dell’affidamento tronca in modo doloroso rapporti di affettività nati tra la famiglia e il bambino.

Per risolvere questi problemi nasce l’associazionismo tra famiglie affidatarie, che permette la crescita delle stesse e la consapevolezza del proprio valore sociale.

Nel giro di pochi anni quindi, molti bambini hanno trovato una sistemazione oltre che un sostegno culturale e un affetto fino ad avere l’adozione definitiva o a mantenere i contatti con la famiglia affidataria una volta tornati in quella biologica.

  • L’aiuto tra famiglie numerose o dove anche mamma lavora

L’apertura della famiglia nell’affidamento familiare si è sviluppata anche in altri ambiti, instaurando tra i vari nuclei familiari rapporti di mutuo aiuto, con l’invenzione di nuove modalità di incontro e di servizio come l’aiuto diurno, il dopo-scuola familiare, accompagnamenti collettivi a scuola; contemporaneamente sono caduti i muri culturali, di diffidenza e pregiudizi tra le famiglie. Senza le associazioni questo sarebbe stato difficilmente realizzabile, visto che spesso le associazioni sono l’unico luogo e momento di incontro tra le famiglie.

  • Una rete di conoscenze stabili e adeguate per i figli

L’associazionismo permette ai genitori anche di avere meno preoccupazioni riguardo le possibili amicizie "cattive" che possono incontrare i figli: attraverso le amicizie familiari i bambini fin da piccoli si frequentano e instaurano relazioni che spesso proseguono fino all’adolescenza e oltre; i figli trovano cosi’ un ambiente già preparato alle amicizie.

  • La creazione di strutture familiari ad integrazione delle strutture pubbliche, talora insufficienti o assenti

L’aggregazione dei bambini piccoli è un diritto e una risposta al loro precoce bisogno di socializzazione e di confronto tra pari. Purtroppo per questa fascia di età le strutture pubbliche sono carenti, per questo motivo è fondamentale il supporto dell’associazione di famiglie, delle scuole materne parrocchiali e di asili nido gestiti spesso dalle stesse mamme grazie a contributi statali o da parte della CEE.

Il valore più forte dell’associazionismo tra famiglie è quello di incoraggiarle ad aprirsi tra di loro, superando le differenze e creando dal basso un tessuto sociale di solidarietà che lega insieme le famiglie e le persone secondo il criterio evangelico dell’incontro, della messa in comune dei beni sia materiali sia psicologici e spirituali.

Tratto da "Famiglia oggi- 9/12- 2001"

Riduzione e adattamento a cura di Simona Internullo

Giovedì, 30 Dicembre 2004 19:54

Tutti lo chiamano welfare

"Welfare state" significa, letteralmente, "stato del Benessere", modello d’importazione anglosassone che in versione italiana diventa "stato sociale", attribuendo il nome al ministero che si occupa di lavoro e di politiche sociali.

Giovedì, 30 Dicembre 2004 19:47

Educare alla Politica - Giuseppe Goisis -

 Educare alla politica

· Per educare alla politica occorre educare a gestire il potere, e dunque a conseguire la dote della maturità · La "com-passione", radice prima nel cammino verso l’impegno politico · Conoscenza e padronanza di sé · Il giudizio politico: "pensare globalmente, operare localmente" · Raccogliere la sfida, nonostante le difficoltà, ma se vogliamo la città pulita dobbiamo imparare a pulire sotto casa nostra…

Prima parte

1. Per capire i termini

Si può definire politica quell'azione - personale e collettiva - protesa ad orientare una società verso finalità già potenzialmente condivise dai suoi membri, alla ricerca di realizzare, almeno parzialmente, tali finalità; quest'azione si manifesta, simultaneamente, a livello di valori ideali ed anche a livello di amministrazione, governo, (ri)-distribuzione dei poteri, di alcune risorse e di certi beni.

Nella definizione che ho proposto, il richiamo alle "finalità condivise" suggerisce un nesso con la tradizione classica, con Aristotele in particolare; mentre il riferimento ai poteri può richiamare una definizione del filosofo-sociologo Max Weber: "Per politica s'intende ogni sorta di attività direttiva autonoma che influisce sulla direzione di un'associazione politica, cioè, oggi, di uno Stato".

Collegarsi a Weber, significa considerare la politica come vocazione/professione, come dimensione "per" la quale si vive piuttosto che come dimensione "di" cui si vive; ma significa altresì comprendere la centralità del potere, la sua ambigua inesorabilità: il tema del potere, nella considerazione politica, non può essere aggirato, nè tantomeno ignorato.

Dunque, a me pare che nell'educazione alla politica non si possa prescindere dall'educare a gestire il potere, abituandosi a considerarlo con occhio disincantato, a comprenderlo nelle sue odierne principali articolazioni: l'informazione, il controllo su certe risorse economiche, infine il monopolio della forza legittima e della coercizione.

Il potere non è un feticcio pauroso, da fuggire a causa del suo volto demoniaco; e non è neppure un idolo da adorare. Il perfettismo politico, che aspira alla realizzazione di meccanismi politici stabilmente compiuti, è un atteggiamento sterile e rischioso: e tuttavia altrettanto infecondo si rivela quell'angelismo della purezza disincarnata che disprezza la realtà vivente, ed aspra, della politica, cercando di sfuggire alla sua stretta implacabile.

GIUSEPPE GOISIS

Docente di filosofia della politica all’Università di Venezia

Da "famiglia domani" 3/99

 

Parte seconda

 2. Che cosa significa maturità in politica

 2. Che cosa significa maturità in politica

Parte seconda

 2. Che cosa significa maturità in politica

 2. Che cosa significa maturità in politica

Parte seconda

 2. Che cosa significa maturità in politica

 2. Che cosa significa maturità in politica

 2. Che cosa significa maturità in politica

Stare in faccia ai poteri senza adulazione nè viltà, senza la trepidazione dei sudditi o la frenesia dei ribelli: bel segno di quella maturità che l’educazione politica dovrebbe mirare a farci conseguire. Maturazione come acquisto di una consistenza interiore, di una sostanza spirituale che si forma al calore di convinzioni ben radicate; non trovano più spazio i dilettantismi avventurosi, le "sensazioni" romantiche; il politico maturo è quello che, superato il narcisismo, avverte con tutta l'anima la sua responsabilità, e dunque agisce seguendo l'etica che incarna quotidianamente. Nonostante il valore di una certa flessibilità, che può spingere il politico intuitivo ad adattarsi al profilo mutevole degli avvenimenti, la maturità fa comprendere l'importanza della fermezza, del non mollare di fronte alle avversità, con la capacità di tirar diritto: crollino tante cose intorno, la voce che risuona nel profondo suggerisce: "non importa, continuiamo!".

Quanto ho ricordato, rivela l'importanza della formazione del carattere: senso della realtà, sicurezza basilare da acquisire, io confidente e disponibile alla compassione, alla giustizia. Ciascuno, questa parte essenziale del cammino la deve percorrere in solitudine, in virtù della propria energia interiore, ma contano gli stimoli, i confronti, la suggestione di qualche esempio che incarni ideali e valori. Un carattere ben saldo non un è un dono grazioso, è una quotidiana conquista personale, che conduce a superare il narcisistico rifiuto degli altri ed anche la tentazione della loro strumentalizzazione. In un'educazione politica che si eleva ad autoeducazione - cioè a formazione di sé presa nella, cura di se stessi -, si passa gradualmente dalla semplice accettazione degli altri ad una dialettica che ci fa interagire, in maniera sempre più piena, con le altre persone, imparando a cooperare, ma anche a competere senza violenza e distruttività.

GIUSEPPE GOISIS

Docente di filosofia della politica all’Università di Venezia

Da "famiglia domani" 3/99

 

Parte terza

 3. La compassione come prima radice del cammino verso l'impegno politico

Parte terza

 3. La compassione come prima radice del cammino verso l'impegno politico

Parte terza

 3. La compassione come prima radice del cammino verso l'impegno politico

Si può ben dire, io penso, che la compassione è all'origine di molte scelte per la politica; è proprio lo spettacolo dell'intollerabile che ci toglie il respiro e ci spinge, per così dire, con le spalle al muro: si crea così quel clima iniziale che avvia, sempre più risolutamente, verso l'azione politica. Ricordo quel "tripode delle virtù" che alcuni pensatori politici delineano, con riferimento ai valori della fortezza, della prudenza ed intravedendo, come stella polare dei valori medesimi, la solidarietà; intendendo, in ultima analisi, per fondamento della solidarietà: "l'umanesimo dell'altro uomo", una concezione fondata sulla reciproca simpatia, capace di porre al centro i bisogni e le aspettative delle altre persone, nell'assidua ricerca di una simmetria diritti/doveri.

GIUSEPPE GOISIS

Docente di filosofia della politica all’Università di Venezia

Da "famiglia domani" 3/99

 

Parte quarta

4. La conoscenza di sé come primo livello dell'educazione alla politica

Parte quarta

4. La conoscenza di sé come primo livello dell'educazione alla politica

Parte quarta

4. La conoscenza di sé come primo livello dell'educazione alla politica

Il cammino della formazione politica prende le mosse da un primo livello, che si presenta come condizionante: la conoscenza di sé, che conduce, progressivamente, alla padronanza di sé.

Con Platone, alle scaturigini del pensiero occidentale, si manifesta l'importanza del primo livello ricordato sopra; Platone è il primo grande educatore politico, scegliendo un terzo cammino tra l’adulazione delle folle, praticata dai demagoghi, e la coercizione violenta, operata dai tiranni. Il buon politico dovrebbe saper discernere entro le domande che presenta il popolo, cercando d'essere l'educatore del popolo stesso. Nel Gorgia, nel Protagora ed in altri dialoghi cruciali, Platone evidenzia la premessa che soggiace ad ogni arte del governare; la padronanza di sé, che postula, a sua volta, la conoscenza di sé.

Occorre considerare l’azione politica come una forma di comunicazione: comunicazione spontanea di emozioni, ma anche empatia esercitata consapevolmente, che rinvia all’integrazione necessaria con la razionalità.

La comunicazione e l'empatia si aprono ad una ricerca di mediazione (nel senso più alto del termine!), attorno a degli obiettivi consensualmente precisati e razionalmente convalidati. Solo una tale mediazione consente l'impostazione realistica dei grandi dilemmi della politica, senza sottrarle, tuttavia, una certa sua aura di tragicità. Solo una tale mediazione può evitare l'intolleranza che può generarsi da un riferimento tirannico a dei valori, non convenientemente applicabili in realtà aspre e, a volte drammaticamente refrattarie.

La premessa della necessaria conoscenza di sé consiste nel rifiuto di trasmettere (ed accogliere) conoscenze preconfezionate, e alla ricerca di un vero sapere, che miri a raggiungere una ricomposizione unitaria dell’uomo. Colui che vuole prepararsi rigorosamente alla politica, dovrebbe riesaminare i modelli ereditati, dei quali non sa dar ragione. S'intraprende un cammino al termine del quale la conquistata capacità di autogoverno abilita al governo della città.

La politica non dovrebbe recuperare solo l'ispirazione etica, ma arricchirsi di tutti quei supporti che vengono dall’ampio ventaglio delle tradizioni meditative e religiose; naturalmente, non confondendo una tale ricerca di profondità con un assemblaggio di segmenti, di esperienze religiose a buon mercato, ridotte a tecniche salutiste.

GIUSEPPE GOISIS

Docente di filosofia della politica all’Università di Venezia

Da "famiglia domani" 3/99

 

Parte quinta

5. Una parola sul giudizio politico

Parte quinta

5. Una parola sul giudizio politico

Parte quinta

5. Una parola sul giudizio politico

La filosofa tedesca H. Arendt ha riflettuto sulla natura del giudizio politico accostato da lei al giudizio estetico. Solo una riarticolazione dell'intelligenza che procede lontano sia dalle forze dell’irrazionalità sia dagli abusi del razionalismo può condurre la persona alla pienezza articolata del giudizio politico, sintesi di colpo d'occhio intuitivo e di ponderazione, capace di misurare in anticipo le conseguenze di certe azioni; Si può, infine; sottolineare la connessione tra il giudizio politico e la responsabilità: al giudizio politico ci si prepara affrancandosi, in una certa misura, dal condizionamento delle situazioni, riuscendo ad intravedere, oltre la stretta tormentosa del presente, la catena delle conseguenze possibili. Alla radicale presa di coscienza che sostiene l'assunzione di responsabilità, reca un contributo decisivo la memoria del passato, che può salvaguardare gli uomini da tanti errori ed anche dalle brusche cadute nella barbarie.

In una parola colui che si prepara alla politica sembra doversi dotare di un bagaglio tale da aiutarlo nell'intelligenza degli avvenimenti, in modo da poter congiungere la pronta freschezza delle risposte con procedimenti cognitivi ed argomentativi rigorosi; tra i progetti politici generali e l’operatività politica si collocano degli schemi intermedi, tali da saldare l'astrazione obbligata dei processi politici con la concretezza dell’esperienza quotidiana.

La formazione del cittadino alla politica potrebbe dunque configurarsi come sintesi dinamica tra l'universale e il particolare; è fin troppo nota la formula - che rinvia a "New Age" - suggerente: "pensare globalmente, operare localmente". E tuttavia, in tale formula si nasconde una certa positività; nella concretezza del momento amministrativo si può risanare davvero il costume politico operando una rivoluzione della sincerità e della trasparenza; ma senza un raggio globale di considerazione, anche le maggiori questioni che travagliano la dimensione locale non possono venire neppure impostate. Di fronte alla diade: locale/globale, lo Stato tradizionale ¡ ultraburocratizzato - è troppo dilatato e, in pari tempo, troppo ristretto. Di fronte ad una tale situazione, si enuclea una formazione basata sui diritti/doveri di cittadinanza, che non vogliono né sudditi né ribelli, ma persone partecipi perché responsabili, educate alla complessità e ad un senso vivente della legalità.

GIUSEPPE GOISIS

Docente di filosofia della politica all’Università di Venezia

Da "famiglia domani" 3/99

 

Parte sesta

 6. Qualche difficoltà conclusiva

Parte sesta

 6. Qualche difficoltà conclusiva

Parte sesta

 6. Qualche difficoltà conclusiva

Di fronte alle difficoltà crescenti, inerenti alle prospettive politiche che finora si sono disputate il mondo, si chiarisce un compito: riorientare e rifondare una cultura politica che unisca il respiro dell'ideale con la concretezza dell'esperienza amministrativa, supportando tale cultura politica col contributo di una riflessione dinamica, aperta e capace di comprendere l'attualità.

La formazione sociopolitica è richiesta da quella necessaria selezione, da quel ricambio la cui crisi comporta la sclerosi, coi rischi del notabilato e delle troppo facili cooptazioni all’interno del ceto politico. Gli intrecci affaristici, i gruppi di pressione soprattutto occulti e l'opportunismo trasformistico sembrano i tre rischi mortali di un sistema politico col fiato corto che potrebbe ridurci, inavvertitamente a "cittadini ombra". Deve, forse mutare il nostro atteggiamento; in Italia in particolare, tendiamo con leggerezza a gettar discredito sulla politica, per poi servircene, spesso in una logica clientelare. La nostra società appare stanca, non più pensosa del suo futuro europeo e planetario; e delle istituzioni, tendiamo a servirci con egoismo distratto: le usiamo senza complessi, per poi lamentarcene senza pudore. Non basta mostrate la necessità della politica, anche ad un mondo giovanile in ricerca; bisogna aiutare a passare dalla politica come destino alla politica come opzione etica, incoraggiando la fedeltà come la virtù cardine dell'impegno, nella dimensione della continuità e della coerenza.

Concludo affermando che quella della formazione sociopolitica è un'opportunità grande, anche se ci si deve interrogare - realisticamente - su quanti cittadini possono essere davvero raggiunti dalle varie proposte formative. Penso, comunque, che si debba raccogliere la sfida di un'autentica vocazione per la politica tale da delinearsi e resistere al di là del diffuso cinismo ("così fan tutti") o, a volte, di abbandoni e crolli personali. Individuo due livelli per la formazione: formazione di base e permanente per ogni cittadino che sì prepari all'esercizio di una democrazia compiuta, e formazione più specialistica ed approfondita, allo scopo di procurare un livello di maturazione e coinvolgimento più intenso e duraturo. Si manifesta a tale proposito la necessità di una sinergia tra le diverse agenzie formative (partiti, sindacati, scuola, movimenti religiosi, associazioni...), pur in una corretta distinzione che eviti confusioni e pasticciate sovrapposizioni.

GIUSEPPE GOISIS

Docente di filosofia della politica all’Università di Venezia

Da "famiglia domani" 3/99

 

Parte settima

7. Caratteristiche dell'educazione politica

Parte settima

7. Caratteristiche dell'educazione politica

Parte settima

7. Caratteristiche dell'educazione politica

Si tratta di non improntare l'educazione politica soltanto alla denuncia, ma di incoraggiare una sensibilità propositiva ed affermativa, capace di progettualità pronta a secondare il mutamento, lungo il filo degli avvenimenti. Non basta dunque il nozionismo dell'istruzione, occorrono momenti di vera e propria educazione, tali da incoraggiare il giudizio politico, nel quadro di un sano realismo. I quattro valori orientativi di tale itinerario educativo: mentalità legata al bene comune, fedeltà alle persone e alla realtà concrete, lealtà verso la dimensione etica ed infine - ma decisiva - la lealtà verso la politica stessa, con le sue regole. Né astrattismo (la formazione senza impegno è vuota), né attivismo (l'impegno senza formazione è cieco).

Si dovrebbe, a mio giudizio, operare una sintesi tra i due modelli di educazione politica che hanno, finora, prevalso: modello accademico, col suo spiegare e discutere in astratto una gran mole di nozioni, e quello del laboratorio, che inclina e si sporge, anche con momenti di simulazione, verso i mondi vitali della politica operativa.

Comunque, mi sembra si manifesti una diffusa domandi sociale circa la necessità di dare a tutti ma soprattutto all’ambito giovanile un’informazione sociopolitica di base, un'attrezzatura di carattere storico e valoriale, fornendo elementi comparativi sulle diverse matrici e tradizioni sociopolitiche, facendo nel contempo avvertire lo stimolo ad un impegno rinnovato, e sempre più doverosamente consapevole.

Il filosofo della scienza K. Popper ha sostenuto che è sufficiente, in una democrazia liberale, "esser tutti giudici", ed un tale minimalismo sembrava, nella sua società aperta, plausibile ed agevole; oggi si tratta di riattivare, vivificare nuovamente un tale atteggiamento, che necessita di una maturazione, di uno stile vibrante di coinvolgimento personale. Invece che deprecare la notte che si addensa, cercare di rischiarla passo dopo passo; con analogo ma ancor più realistico minimalismo alcuni odierni autori anglosassoni ammoniscono: "Se vuoi la città pulita, incomincia a spazzare la strada davanti a casa tua".

GIUSEPPE GOISIS

Docente di filosofia della politica all’Università di Venezia

Da "famiglia domani" 3/99

Giovedì, 30 Dicembre 2004 19:35

Le braccia tese - Giovanni Scalera -

 Le braccia tese

· Una spirale di violenza. Come uscirne?· Superando il narcisismo e quegli stereotipi di normalità che ci imbrigliano · Cercando di scoprire le fonti vere della violenza · Convertendoci ogni giorno alla pace · E testimoniando la bella notizia dell’amore.

Prima parte

Basterebbe soffermarsi qualche minuto a riflettere sui contenuti dei fatti di cronaca, per convincersi che siamo irrimediabilmente immersi in un mondo di violenza. L'antropologia ci insegna che la sopraffazione e l'aggressività fanno parte delle componenti che si sono evolute nel comportamento umano durante la selezione naturale: una risposta indispensabile al bisogno essenziale delle società primitive che dovevano cacciare, procurarsi il cibo, scegliere e difendere un partner. Accanto alle conferme che ci pervengono dagli studi di neuroscienze che hanno individuato nel sistema limbico, uno dei lobi in cui si divide il cervello, il centro responsabile dei comportamenti aggressivi, non possiamo trascurare la componente ambientale, responsabile del continuo strutturarsi di condotte violente. L'interazione fra natura e cultura rimane uno dei labirinti più affascinanti per chi desidera andare alla riscoperta del vero volto dell'uomo. Dalla prima manifestazione di pianto del neonato alla simultanea comparsa di angoscia e aggressività come conseguenza della privazione di cure materne, la nostra vita è un continuo modellarsi di risposte che procedono verso una pericolosa spirale. La frustrazione di un bisogno determina aggressività, sottolineando un modello comportamentale che tende a rinforzarsi nel tempo. Una visione con tante sfumature di grigio e niente rosa. La domanda più spontanea è: a chi spetta e come si può spezzare questa spirale?

Giovanni Scalera

Psicologo £ Siena

Da "famiglia domani" 3/99

 

Seconda parte

Oltre il narcisismo

In tutte le filosofie che hanno fatto da punto di riferimento per il cammino dell’uomo la presenza di contrapposizioni sembra il tema più visitato. Il bene e il male, l'attrazione e l'odio, la vita e la morte stanno a rappresentare i dualismi classici che l'uomo identifica con i colori bianco e nero, per giungere ai più tenui come desiderio e discrezione, intimità e riserbo, pudore e compartecipazione. A fare da sfondo alle molte variabili di questa tavolozza, sembra esistere l'amore come entità dai tratti che rimandano alla creatività e all'assoluto, molla incontrastata di tutte le culture, le etnie e le discipline che caratterizzano l'esistenza dell'uomo. Alla base di tutto c'è sempre questa spinta che non può prendere le mosse da un semplice slancio verso l'altro come oggetto desiderato e accettato in quanto "altro". L’amore risponde al bisogno di riconoscersi nell'altro - quasi un riflesso - in una finestra che apre il cuore, ma che in realtà diventa ancor più uno specchio. Lo stesso Freud, dopo aver intuito che la nostra crescita affettiva avveniva attraverso il superamento di varie fasi della nostra vita, approda alla conclusione che l'amore adulto è reso possibile dalla scoperta del narcisismo: in pratica siamo spinti ad amare ciò che si è stati e che non si è più o ciò che possiede le attitudini per sostituirsi ad un ideale dell'io non raggiunto. È facile intravedervi il paradosso e la contraddizione di un disegno misterioso: qualcosa che nasce e va oltre la metafora del narcisismo. Questo specchio, allora, può fare molto di più: permette alle figure che vi si riflettono di creare una adesione particolare l'una all'altra, fino al punto di fondersi insieme; permette di colmare uno spazio vuoto, sfuggendo da una sorta di scontentezza interiore e dal senso di inadeguatezza che ognuno, nella solitudine, prima o poi sperimenta. Per entrare in questo clima di festa, diventa indispensabile uscire dagli stereotipi di normalità nei quali siamo regolarmente imbrigliati; una cosa clic possiamo fare se riusciamo a coniugare il paradigma essenziale sul quale si snoda il filo conduttore di ogni storia d'amore: la passione. Il termine - passio dal latino, e pathos dal greco - ci riporta letteralmente al concetto di sofferenza e sopportazione il che la dice lunga sui molti ingredienti che compongono il poliedrico mondo delle attrazioni totali: affetto, desiderio, collera, gelosia, erotismo, competizione, fiducia, abbandono, odio, confidenza… e la serie potrebbe continuare con chissà quali arricchimenti, se la nostra cultura non definisse l'amore il più multiforme e creativo dei sentimenti. Da qui prende le mosse il requisito principale per la stabilità della coppia e, al tempo stesso, il pericolo più concreto per ogni tranquillità ed armonia. La versatilità con cui sappiamo creare può farci consapevoli dei confini che ci rendono individui unici e separati e contemporaneamente ci fa avvertire il desiderio struggente di diventare una cosa sola con la persona amata. E la condizione più eccitante e più commovente di questa umana tendenza è quella che si identifica con le pene d'amore: fonte di dolore ogni volta che si scoprono i confini dell'Altro e, nel tentativo di trascenderli, si arriva a constatare che alla totale intimità dei corpi fa riscontro una impenetrabilità delle coscienze.

Giovanni Scalera

Psicologo £ Siena

Da "famiglia domani" 3/99


 

Terza parte

Dove nasce la violenza

La società moderna può vantare un grosso successo: quello di aver teorizzato sulla inopportunità della violenza e di averla bandita dal contesto sociale. Ma davvero possiamo dire di averla sconfitta? Dopo aver passato in rassegna le opposte polarità come istruzione e ignoranza, ricchezza e povertà, ed avervi intravisto i segni della contrapposizione alla civile convivenza, i teorici dell'antropologia e della sociologia scoprono la esistenza di grosse sacche di questa piaga nell'ambiente dai tratti più insospettati: la famiglia. E la spiegazione appare semplice e plausibile: nelle strutture in cui esiste intimità, dove il vissuto biografico è maggiormente partecipato, esistono i maggiori attriti perché lì e soltanto lì si è capaci di superare la soglia del pudore e manifestarsi senza le maschere delle formalità e delle convenzioni. Così, il quadretto familiare che ogni nucleo mostra con orgoglio all'esterno delle proprie mura, ha la possibilità di trasformarsi in un polittico nel quale trovano spazio scene dal sapore discontinuo e illeggibili all'apparenza. A differenza di una pala d'altare, infatti, i cui pannelli ricostruiscono una storia incentrata sulla vita di un Santo o della Vergine, qui i momenti si alternano nella instabilità, nella imprevedibilità delle ricadute quotidiane. Una scoperta deludente, ma con qualche risvolto di speranza. Se l'intimità è il luogo che permette lo scatenarsi degli attriti, deve essere anche quello da cui partono le buone proposte: quelle che comunemente definiamo di buona volontà. Ed a questo richiamo, che è anche una proposta per cercare di mettere i figli in pace tra di loro, si rifanno ormai tutte le voci più autorevoli ed influenti del nostro pianeta. Ma quello dell'uomo di fine millennio sembra essere il destino di chi ha deciso di rinnegarsi continuamente: interessi sovranazionali, ricerche avanzate, invenzioni programmate, hanno ratto dell'uomo un essere non più attento alla sofferenza che lo circonda, ma distratto dalla tecnologia e dal superamento dei continui traguardi che gli si parano davanti. Dalla scoperta del meccanismo di caduta delle foglie ha intuito che si potevano creare erbicidi e defolianti; dallo studio sulla migrazione degli uccelli, ha intuito che agli stessi volatili potevano essere affidati agenti chimici e biologici da spargere impunemente. E ci si continua a spremere la mente nel tentativo di creare il cannone più intelligente o lo slogan capace di reclamizzare i prodotti da guerra destinati alle zone calde della terra, magari con un pizzico di ironia e umorismo macabro. Il pragmatismo e l'efficienza americana assicurano che "il carrarmato Phantom distrugge l’obiettivo con uno solo dei suoi razzi": la buona tradizione della tedesca Rheinmenal ricorda "novanta anni di armi e di munizioni: il progresso attraverso l'esperienza"; lo spirito turistico francese garantisce che "l'automitragliera Panhard funziona a meraviglia in ogni clima e latitudine". Non può essere questo il mondo di pace che ognuno di noi sogna, nè possiamo giustificarlo con l'esigenza di equilibrio che si regge sulla paura. In rapporto pubblicato dall'istituto internazionale di Stoccolma per le ricerche sulla pace si afferma che "tutte le guerre e guerriglie scoppiate dal 1945 ad oggi, all'interno delle regioni più povere del mondo, sono state combattute con armi fornite dalle potenze mondiali". I forti si fanno ormai la guerra per procura. Raoul Follereau si raccomandava con insistenza: "Datemi il corrispettivo del costo di un vostro aereo da guerra e vi debellerò la lebbra nel mondo intero". La terra è ormai piena di ferite, molte delle quali gliele ha procurate l'uomo, ferendosi a sua volta e decretando la propria distruzione. Esiste la guarigione? Pregare per la pace e non fare niente per difenderla è un controsenso. Le categorie della salvezza presuppongono un pericolo, un salvatore, un aiuto, una richiesta, un compagno di viaggio, un maestro, un testimone. Il tutto si può ricondurre ad un breviario di piccole azioni da seguire con umiltà: fare, imparare e insegnare. E l'ora della salvezza suona per tutti: basta ricordarsi che viviamo costantemente sotto il rischio di essere colonizzati dalle influenze altrui per non arrendersi e ritrovare nel piccolo dell'intimità il seme di un grande progetto di pace.

Giovanni Scalera

Psicologo ¢ Siena

Da "famiglia domani" 3/99

 

Quarta parte

Quarta parte

Quarta parte

Dove si costruisce la pace

L'amarezza delle analisi che siamo costretti a fare per guardare in faccia la realtà ci porta lontano da ogni angolo di serenità e ci immerge in un ritmo che ci nasconde le piccole, innumerevoli gemme di cui si cosparge il nostro cammino. Ma la terra guarisce dai propri mali perché gli uomini sanno stringere i pugni e rimettersi all'opera con uno zelo degno degli insetti: quello strano termine che in infinite altre occasioni crea imbarazzante incertezza tra ammirazione e stupidità. La nostra vita procede a meraviglia fin quando si muove tra le cose piccine. Quante volte un foglio, un fiore secco, fissando il ricordo di un luogo o di un incontro, sanno riproporre la follia delle emozioni apparentemente sopite!? E il pezzo di carta o l'appunto che assumono il posto di un talismano o della medaglietta del santo protettore!? E che dire della capacità con cui sappiamo scorgere, nei vari momenti della natura, il mutare delle epoche e degli affanni che si nascondono dentro di noi!? Il "duplice filar" dei cipressi contemplati con nostalgia dal Carducci, cambia fisionomia con il cambiare delle stagioni del poeta più che con quelle della natura. Non dobbiamo arrenderci alla scoperta delle cose semplici solo perché i grandi, con ostentata sufficienza, definiscono retorico questo atteggiamento. Viviamo immersi in un mondo troppo adulto e che pretende così tanto che alla fine è capace di farci sentire spogli come le piante nella stagione invernale. Un mondo così segnato dai documenti ufficiali che sa muoversi con la capacità di annullare ogni tendenza all'emozione. Ma la bellezza del creato è ancora lì ad attendere che l'uomo decida per la propria conversione (o inversione?). E una colpa credere ancora nelle cose che ci hanno dato gioia? C'è un pane rotondo che lentamente imbiondisce e che ad ogni istante della sua cottura porta sulla crosta la luce del giorno e il profumo dell'infanzia: c'è una notte piena di stelle perché l'aurora non perda la strada e perché, nella sua leggerezza, porti ogni mattina un paniere di rugiada; c’è una fiamma che scalda una canzone cantata ad un monello sulle ginocchia del nonno: e se quel carbone parlasse sarebbe orgoglioso di dirci che un giorno era figlio del bosco più bello: c'è un fiume che trotta e che, con la voce che gli hanno dato la neve e il vento, porta anelli e gemme ai fiori e mantelli d'argento alle cascate. Ma l'età dell'uomo sa portare anche brutti risvegli: troppo giovani per essere assolutamente semplici o tanto giovani da non sospettare che l'esistenza non è fatta di slanci improvvisi o di costanza ostinata, ma assai spesso di compromessi e dimenticanze. Fra l’egoismo di chi si arrocca sul progetto ambizioso di possedere sempre di più e chi sente che la propria vita potrebbe acquistare un sapore sempre nuovo se i propri sforzi fossero indirizzati a costruire rapporti più umani con gli altri uomini, la nostra antica saggezza sa venirci in aiuto, ricordandoci che la bellezza delle cose è legata alla loro caducità.

Giovanni Scalera

Psicologo ¡ Siena

Da "famiglia domani" 3/99

 

Quinta parte

Quinta parte

Quinta parte

Una bella notizia

Andiamo sempre alla ricerca di qualcosa che ci dia vitalità e ci faccia sentire interessati alle vicende di cui si compone il percorso umano. A volte anche un pizzico di curiosità per la cronaca può arricchire di sapore le nostre giornate, come accade per gli spiriti volubili che si sentono attratti da ogni novità, ma per i quali ogni novità scivola addosso senza lasciare traccia. Così come accade per chi ama la storia anche o solamente per andare a ricercarvi esempi di eleganza o spavalderia nelle disgrazie. Forse non abbiamo ancora scoperto la fonte più autentica della vitalità e ci contentiamo troppo spesso dei surrogati di gioia con i quali riusciamo a muoverci tra i vari impegni che i nostri ritmi ci impongono. Mi sono domandato spesso come vivremmo se fossimo circondati da belle notizie: un telegiornale che non conoscesse la cronaca nera, una politica basata sull'onestà, uno scambio interpersonale in cui fosse bandito il sospetto e l'obbligo della prudenza. Di sicuro, per una parte di umanità sarebbe un’utopia, o, forse peggio, una ipotesi da beoti. Per l'altra parte, sarebbe il mondo dei beati: quello che, dall'annuncio della Buona Notizia, crede che si possa raggiungere la gioia attraverso la purificazione operata dalla tribolazione. Un passaggio difficile e poco praticabile, soprattutto se lo si considera alla luce di quel comandamento che, letteralmente, il Signore consegnò alle folle assetate di belle notizie. "Beati i poveri, beati quelli che piangono, beati quelli che soffrono..." Oggi, in un linguaggio più moderno, attuale e laicizzato ci potremmo esprimere così: "Fortunati..., fortunati..., fortunati...". E, umanamente, verrebbe anche da domandarci quale risonanza sia lecito dare a questa invocazione della fortuna: di certo la bella notizia deve stare da qualche altra parte. C'è mai qualcuno che ringrazia il Signore per avergli messo accanto una persona che gli riempie la vita? Ecco: gli sposi sono per tutti una bella notizia e lo sono dal primo momento in cui fanno la loro gioiosa comparsa in pubblico. Ogni volta che danno una testimonianza d'amore, vanno, con le braccia tese, incontro al mondo per partecipare la gioia che è in loro e portare un messaggio di speranza. Lo sono quando presentano i figli e si impegnano ad essere i loro educatori; lo sono quando mostrano coesione contro le difficoltà e volontà di ricominciare; lo sono quando si tengono per mano per prepararsi all'ultimo distacco. Questa è la bella notizia che c'è in ogni storia e che può affascinare lontano dai rumori e dalla curiosità morbosa. Ogni persona porta in sé l'incanto di una magia, ben sapendo che il senso del reale e delle responsabilità deve prendere sempre il sopravvento perché, alla fine, niente è più insopportabile che essere condannati a vivere in una fiaba.

Giovanni Scalera

Psicologo ¡ Siena

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L’INNOVAZIONE RELIGIOSA NELLA SOCIETA’ SECOLARE. IL RELIGIOSO "NON DI CHIESA"

·Un processo di innovazione religiosa si avvia a trasformare le forme diappartenenza religiosa o Se l’80% degli italiani si dichiara ancora"cattolico" che cosa è questo "religioso" che si sta formando fuoridalla chiesa cattolica? · Nuove visioni soggettive per "credere senza appartenere" · Un contributo della sociologia della religione per porre le basi di una riflessione pastorale ancora da avviare.

Prima parte

L'esperienza quotidiana di questa fine secolo portacon sé l'idea che stiamo vivendo in un mondo nuovo per le acquisizionidella tecnologia, della scienza, della cultura e anche per la presenzadi nuove forme religiose. Parte di queste innovazioni nel camporeligioso riguarda l'arrivo anche in Europa delle grandi tradizionireligiose dell'Oriente e dell'estremo Oriente, dei nuovi movimentireligiosi, di nuove credenze e di quel fenomeno ancora più esteso epoco organizzato che è la New Age. In Italia questo processod'innovazione religiosa sta silenziosamente trasformando interi settoridi credenze, di pratiche, di esperienze e dì interessi spirituali. Fraqualche tempo, forse, trasformerà anche le forme di appartenenzareligiosa.

L'"inerzia" dell'appartenenza

Per ora non si può non constatare lasostanziale continuità dell'identità cattolica, la sua relativa tenuta,quasi per inerzia, a confronto del trasformarsi molto più veloce dellecredenze e delle altre dimensioni della religiosità. Si può concludereche l'individuo vada incontro a molti più problemi e difficoltà quandoabbandona la sua identità-appartenenza cattolica, a confrontodell'abbandono di alcune credenze o pratiche religiose. Inoltre questoprincipio dell'inerzia dell'appartenenza è anche confermato dal fattoche un'identità sociale ha tendenza a scomparire solo quando vienesostituita da un'altra. Ma nell'attuale contesto italiano l'individuoche si dichiari appartenente ad un'altra religione non cattolica vaancora incontro, perlopiù, a molte più difficoltà, e a maggiordissonanza cognitiva, di un altro che incorpori in modo sincretisticoaltre credenze e pratiche tra quelle cattoliche. E’ da considerareinoltre che l'inerzia dell'appartenenza religiosa dipende anche dallanatura specifica dei beni religiosi, i quali consistono anche in uninsieme di conoscenze, esperienze ed emozioni che possono essereconsiderati come una forma di "capitale umano". Poiché ogni cambiamentodi religione rende inutile gran parte del precedente "capitale umano",l'individuo è molto riluttante a cambiare la propria affiliazionereligiosa. Ma l'attuale livello di autonomia delle credenze, delleesperienze e delle pratiche religiose, oltre che delle convinzionietico-morali, potrebbe ormai preludere anche a una trasformazione delleappartenenze. É' la previsione che preoccupa sempre più le chiesestoriche.

Il "religioso non di chiesa"

Il dato più singolare della situazione italiana è,dunque, che oggi, nonostante le trasformazioni religiose in atto, oltrel'8O% degli italiani si dichiara ancora cattolico. Di qui nascel'interesse, non solo dei sociologi della religione, di capire checos'è questo "religioso" che si sta formando fuori della chiesacattolica. Si può definire questo "religioso non di chiesa" l'insiemedi credenze, esperienze, rituali e conoscenze religiose che individui opiccoli gruppi coltivano in libertà nei confronti delle religionistoriche. Si tratta di un effetto della secolarizzazione, la quale nonha solo prodotto i segni dell'oblio e della perdita del sacro, ma anchequelli dell'innovazione e della emancipazione del sacro dalle religionidi chiesa. Quanti intendono riferirsi alla secolarizzazione non comeprocesso dissolutivo, ma come fenomeno positivo ed emancipativo,analizzano, infatti, la nuova disponibilità alla ricerca, all'ascolto,all'esperienza religiosa o a quanto teorizzava, paradossalmente,Nietzsche nella Gaia Scienza, parlando della necessità di "continuare asognare" sapendo di sognare. La secolarizzazione ha prodotto lasoggettività delle esperienze, la frammentazione dei "racconti" e dellecredenze religiose, la pluralizzazione dei messaggi di salvezza e delleforme per realizzarli, il confronto e la competizione tra le tanteproposte religiose. Si direbbe che, dissolti i dogmi e contestati irigidi sistemi dottrinali, si moltiplichino le nuove visionisoggettive. Tutti gli avvenimenti della vita individuale e collettivasi muovono su uno sfondo religioso libero a disposizionedell'individuo. La visione prevalente del cristianesimo quale realtàecclesiale e quella del cristiano quale membro di una istituzione, sidirebbe che viene meno presso una parte del mondo giovanile: Chiesa ecristianesimo non coincidono più. C'è un cristianesimo che va oltre lechiese storiche e ci sono dei cristiani senza rapporti visibili con lacomunità della Chiesa. Si tratta di realtà sicuramente ambigue eteologicamente non precise; ma i dati confermano questi tipi dicredenti nel vangelo, ma che vivono extra muros ecclesiae. Ilfenomeno riguarda tutte le chiese, comprese quelle protestanti.Componendo insieme i molti dati di questa realtà si possono individuarequattro poli principali attorno ai quali si stanno strutturandoaltrettante tendenze religiose: quelle della conciliazione tra tutte lereligioni, della fluttuazione, dell'autorealizzazione, dell'esperienzapersonale.

LUIGI BERZANO

Sociologo - Università di Torino. Parroco di Valleandona (Asti)

Da "famiglia domani" 4/99

L’INNOVAZIONE RELIGIOSA NELLA SOCIETA’ SECOLARE. IL RELIGIOSO "NON DI CHIESA"

L’INNOVAZIONE RELIGIOSA NELLA SOCIETA’ SECOLARE. IL RELIGIOSO "NON DI CHIESA"

Seconda parte

La conciliazione tra tutte le religioni

La tendenza a Conciliare tutte le religioni ha l'effetto di produrre una forma di koinèreligiosa in cui ciascuno trova la sua via, i suoi temi, il suomaestro, le sue devozioni. Huxley definì questo fondo comune di tuttele religioni "filosofia perenne", sostenendo che il fatto che perdefinire la Realtà Ultima il cristiano usi la parola Dio, il buddistala parola sunyata o nirguna, l'islamico sufi la parola AI Haqq,ecc, è dovuto soltanto alla differenziazione culturale. Le religionicontengono in sé tanta più verità, quanto più danno risalto al fondocomune con le altre religioni. Di qui si formano molti modi dirisolvere individualmente i rapporti con le singole religioni storiche.Non manca chi mantiene un rapporto diretto con una specifica religione,ma non lo fa più per ragioni dogmatiche. La propria religione èconsiderata una via tra le tante, ma non è l'unica vera,necessaria o definitiva. Altri rappresentanti ritengono invece che siautile la rinuncia all'appartenenza formale a ogni chiesa o grupporeligioso, pur ispirandosi e attingendo ancora ai patrimoni dellediverse tradizioni cristiane, buddiste, taoiste, sciamaniche, ecc. Nerisultano valorizzati così più i miti e le tradizioni che i dogmi e leteologie. La recente rivalorizzazione dei miti dà modo a ognuno diincontrare in sé il proprio mito, proiettandovi le proprie aspirazioni,le difficoltà, i conflitti. Ognuno coltiva dunque in sé il propriopanteon da cui attingere per arricchire e di versificare il propriovissuto.

La fluttuazione delle esperienze

Nel campo religioso molte delleesperienze, degli interessi, delle pratiche, delle credenze, dellesuggestioni sono fluttuanti. La loro natura è eclettica, sempre menoancorata a una memoria fondatrice e a un'unica istituzione. Lo stessovale anche per coloro che si identificano ancora nella Chiesacattolica, pur autonomizzandosi dalle cure del magistero cattolico. Lecredenze di questi soggetti si individualizzano in molteplici direzionie si alimentano di più tradizioni e culture religiose. Si colgonotendenze di una religiosità non irrigidita in chiese gerarchiche, incaste sacerdotali, in dogmatiche rigide. Jacques Maitre in base ai datidi una ricerca in Francia ritiene che questo allontanamento dallaistituzione lascerà spazio, nella prossima era successiva a quellacristiana, a una "nebulosa di religione deconfessionalizzata". Questatendenza verso la fluttuazione religiosa anche presso i cattolicipotrebbe in futuro aumentare ancora, in concomitanza a processi socialiquali l'economia di mercato e il pluralismo etnico religioso, cheoperano in questa direzione e differenziano bisogni e forme disoddisfacimento.

L'autorealizzazione

Il terzo polo attorno a cui si struttura la nuova religiosità giovanile è quello dell' autorealizzazione. Questa istanza della self-realizationera già presente nel periodo tardo-industriale, ma era contrastata daun assetto sociale che non lasciava "molto spazio alle forme diauto-realizzazione dissonanti rispetto alle finalità generali delsistema". Divenuta legittima nel contesto della post-modernità, taleistanza coinvolge, ora, nuovi campi di esperienze e di espansione nellavoro, nella conoscenza, nelle relazioni sociali, nella vita intima.Anche l'esperienza religiosa individuale è stata coinvolta in questopiù vasto processo di "rivoluzione delle aspettative crescenti" negliambiti della realizzazione personale nel lavoro, nelle relazioni disocievolezza, nell'esperienza dell'intimità, nel corpo e nelleespressioni sensoriali. Molti stimoli creativi per quanto riguarda lanatura, il corpo, la salute e la salvezza sono venuti dall'oriente edalle sue tradizioni religiose. Nella visione della New Age, peresempio, l'auto-realizzazione diventa soprattutto espansione dellapropria coscienza. L’ideale è prendere sempre più coscienza del proprioposto nell'universo e del proprio Sé divino che trascende e unisce traloro tutte le forme personali. Questa coscienza cosmica va ben oltrel'arricchimento psicologico dell'individuo nella conoscenza delleproprie emozioni, sentimenti e comportamenti ripetitivi, spostandosi,piuttosto, verso l'attenzione alle trasformazioni biochimiche degliemisferi del cervello. Le discipline della meditazione (buddismo, zen,yoga, misticismo cristiano, tecniche di concentrazione) sarebberosoprattutto tecniche per la modificazione delle funzioni del cervello.

L'esperienza personale

Il quarto polo attorno a cui sisviluppa la nuova religiosità è quello della esperienza personale. Il"fare esperienza" personale è il primo principio conduttore di tutte leattività spirituali. Il senso dell'esperienza religiosa si costruisce apiccoli passi e attraverso la sperimentazione diretta. Alla esecuzionedi pratiche formalizzate si preferisce la ricerca del vissuto,dell'emozionale, delle pratiche che procurino un contatto diretto conil mistero e la fusione con la coscienza cosmica (channelling ocomunicazione con le identità dell'aldilà, sciamanesimo o viaggiodentro altri piani della coscienza e del reale, astrologia o tecnica diaccordo tra l'esistenza personale e i ritmi del cosmo, ecc.). Ne emergeuna concezione narcisistica e autoreferenziale dell'esperienzareligiosa, cioè propensa a darsi da sola le sue coordinate di salute edi salvezza. Questo soggettivismo riproduce una religiosità ispirata amolteplici religioni e in cui confluiscono credenze e pratiche secondole preferenze di ciascuno, ma non organizzate in istituzioni. Nascecosì una religione personale che il sociologo Robert Bellah ha definitoSheilaismo, dal nome (Sheila) di una donna intervistata:ci sarebbero tante religioni quanti sotto gli abitanti del pianeta.Secondo una tendenza tipica di questa religiosità (believing without belonging:credere senza appartenere), la dimensione esperienzialistica accordasempre meno rilievo alle religioni organizzate con i loro sistemi didogmi, credenze e riti da accettare per autorità. Quanto poi allalibertà di scelta di queste molteplici esperienze personali, non èpossibile assegnarle un'eccessiva connotazione di autonomia. Anchequesti nuovi credenti sono molto più eterodiretti di quanto essi stessipossano pensare. I mercati della società dei consumi indicano a loroquanto devono consumare anche nel campo religioso; ed essi nonresistono sempre con grande convinzione alle lusinghe del mercato.

LUIGI BERZANO

Sociologo - Università di Torino. Parroco di Valleandona (Asti)

Da "famiglia domani" 4/99

Giovedì, 30 Dicembre 2004 19:18

LE POVERTÀ GRIGIE:

LE POVERTÀ GRIGIE:

UNA REALTÀ CHE TOCCA SEMPRE PIÙ DA VICINO MOLTE FAMIGLIE

Basta poco: la cassa integrazione, ilpassaggio ad un lavoro atipico, la malattia grave di un familiare, ilfallimento del matrimonio, perché molte famiglie si trovino a rischiodi povertà.

L’attualità di questi mesi, segnata dalla crisiFIAT che ha interessato diverse zone d’Italia, ha occupato le primepagine dei giornali e ha visto coinvolte migliaia di famiglie, haportato in primo piano un argomento di cui si preferisce parlare pocoma che tocca molti da vicino: la precarietà del lavoro e, con questa,l’insorgere di nuove forme di povertà. A questo proposito è uscito, afine dello scorso anno, un libro che raccoglie i dati di una ricercadelle ACLI di Torino sulle vecchie e nuove povertà che interessano lacittà. Il libro, curato da Emanuele Rebuffini, che è autore anche di uncapitolo dal significativo titolo: "La maledizione di Ford", riportauna serie di interviste a figure significative della cultura e dellasolidarietà cittadina da cui abbiamo tratto alcuni spunti su un aspettoche ci è molto prossimo: la famiglia.

IL LAVORO CHE NON C’È PIÙ

"Stiamo assistendo al declino diquello che per decenni è stato il lavoro "normale", ovvero il lavoro atempo pieno e indeterminato. Oggi in Italia grosso modo troviamoquattro milioni di persone fuori dal lavoro normale" scrive LucianoGallino, sociologo. "Il lavoro decente non è destinato a scomparire, maa diventare un privilegio per pochi eletti, intorno al quale ruotano ilavoratori nomadi, precari e intermittenti. Temo che questa tendenzasia incontrastabile ma ciò non significa che non si debba cercare diintrodurre delle regole che riescano a temperare il fenomeno, affinchéatipicità non voglia dire solo precarietà e marginalità".

"Dire lavoro atipico è usare un termine improprio, perché queste forme di lavoro stanno diventando sempre più ‘tipiche’.

Troviamo lavoratori autonomi forti, ma soprattuttodeboli: gli interinali, la galassia della micro-consulenza, lecollaborazioni coordinate e continuative, le partite IVA" afferma dirimando Marco Revelli, politologo. "Sono situazioni caratterizzate daun’alta volatilità del rapporto di lavoro, da un alto grado disofferenza e quindi di indigenza: ma non nel senso del reddito o dellecondizioni di lavoro, ma come mancanza di garanzie e di prospettive".Queste persone fanno magari un lavoro gratificante ma vivononell’incubo di perderlo da un momento all’altro. Continua Revelli"Queste persone sono ‘tritate’ dal bisogno di essere sempre su piazza equindi non possono permettersi la malattia e, se sono donne, nonpossono permettersi la maternità. È questa la nuova indigenza: unatotale mancanza di sicurezza".

LE NUOVE FORME DI ESCLUSIONE

Le fasce di povertà su cui si hannomeno conoscenze sono quella della povertà relativa o "povertà grigia" equella a "rischio di povertà". "Nella maggior parte dei casi si trattadi singoli o di nuclei familiari che oggi vivono in una situazioneeconomica di sufficienza ma che possono passare ad uno stato diinsufficienza permanente a seguito di un solo episodio di emergenza"precisa Pierluigi Dovis, direttore della Caritas di Torino. "Sitrovano, tra gli altri, in questa fascia quei ‘colletti bianchi’ chehanno avuto per lunghi anni la sicurezza del posto lavorativo e che orasi trovano a fronteggiare la cassa integrazione, intaccando nel giro dipochissimi mesi il patrimonio acquisito negli anni. I soldi accumulatisono di solito finiti nell’acquisto della casa, quella in cui abitano eche non possono di certo vendere. Penso anche alle famiglie separate odivise che si trovano in situazioni difficili proprio a motivo dellamancanza di uno dei partner. I figli di queste famiglie possono contaresu un minor reddito rispetto al passato cui si sommano le difficoltàper entrare nel mondo del lavoro. Penso alle famiglie che si fannocarico di un anziano che diventa non autosufficiente. La carenza distrutture residenziali per anziani, l’insufficienza dell’assistenzadomiciliare, la necessità di farsi aiutare da badanti, rischiano di farentrare la famiglia non in una povertà estrema ma in uno stile di vitaradicalmente diverso".

PER UNA FLESSIBILITÀ SOSTENIBILE

"Parlare di povertà oggi significaparlare di lavoro e di cambiamenti nel mondo del lavoro" riprende LuigiBobba, presidente nazionale delle ACLI, "Per questo come associazioneabbiamo lanciato una petizione popolare per rendere sostenibile laflessibilità, per promuovere e tutelare i diritti dei lavoratori, anchequelli atipici. Contiamo così di fare pressione sul Parlamento affinchéadotti un nuovo Codice dei diritti del lavoro che preveda nuove formedi tutela e promozione legate alla centralità della persona umana,intesa non come uno dei tanti parametri in gioco ma come criteriochiave di ogni scelta, politica, economica e sociale".

"La povertà interpella la politica nel modo piùcompleto e per questo la lotta alla povertà deve essere condotta sulpiano delle politiche del lavoro, della famiglia, della scuola, dellaformazione, dell’edilizia, della sanità, del fisco, ecc." confermaEmanuele Rebuffini, curatore del libro, che conclude citando unoscritto di padre Ernesto Balducci: "Qual è l’unico tesoro dei poveri?La speranza che il mondo cambi. Ed essi lo sperano. E che cosa è unapolitica seria? La politica è l’organizzazione storica della speranza"

GRUPPI FAMIGLIA

marzo 2003

Giovedì, 30 Dicembre 2004 19:17

PARROCCHIA E CARITÀ

PARROCCHIA E CARITÀ

La carità non è solocura dei poveri, di chi è nel bisogno, è soprattutto l’elementocaratterizzante la vita del cristiano, in parrocchia, nel lavoro e, inprimo luogo, in famiglia.

Scrive mons. Angelini(1) : "Lacarità, nella vita del cristiano, non si riduce certo all’elemosina, maha almeno altre due caratteristiche, che identificano la caritàcristiana su modello di quella di Cristo: il perdono del nemico e ilservizio a favore del fratello". Continua ancora l’autore: "Lamia pur recente esperienza di parroco mi ha consentito di toccare conmano quanto poco incoraggiante sia, per gran parte della gente,l’immagine di coloro che sono gli ‘animatori’ più assidui della vitaparrocchiale. Appena si accorgono che sei un prete non proprio‘clericale’ accade che ti confessino in fretta: ‘Sa, in Chiesa io nonvado; ma la compagnia che lì si trova è così poco incoraggiante, che vaa finire che uno trascuri anche la Chiesa’".

Carissimi: e se fossimo noi questi animatori che,come la folla che sgrida il cieco Bartimeo perché disturba Gesù (Mc10,48), impediamo alla gente di incontrare Cristo? È facile farel’elemosina, è molto più difficile servire il fratello e praticare ilperdono.

Ne abbiamo fatto esperienza come coppia e comefamiglia nelle scorse feste di Natale. Di là dalla melassa con cuiqueste feste di fede vengono rivestite dalla società dei consumi, pertutti noi questi momenti sono stati occasioni per ritrovarsi con iparenti, per avere più tempo come coppia, come genitori.

Pensiamo che queste occasioni siano state per moltianche momenti di sofferenza: di là del ricordo di persone care che nonci sono più, sono venuti al pettine tanti nodi irrisolti nei rapportiinterparentali: tra fratelli e sorelle, generi e cognate, suocere enuore e che si sono tradotti sovente in inviti mancati, in pranzisilenziosi, in qualche scatto di nervi di troppo. Come coppia siamostati capaci di regalarci qualcosa di bello, non il solito più o menoprezioso dono, ma una frase tipo: "Come farei senza di te?", "ti vogliobene"? E ancora: ci siamo limitati a riempire i nostri figli di doni,presto accantonati, oppure giocando con loro abbiamo preso l’impegno dilavorare un po’ di meno e di occuparci un po’ più di loro, di smetterladi delegare e cominciare a ‘servire’?

Se, come diciamo, la famiglia è piccola chiesa e laparrocchia deve diventare famiglia di famiglie sappiamo doveincominciare per rendere la nostra comunità parrocchiale una comunitàcredente e accogliente.

Noris e Franco Rosada

(Gruppi famiglia n° 42 - marzo 2003)

(1) G. Angelini, Parrocchia e carità, La rivista

del clero italiano, LXXVIII (1997), 2, pag. 85-

102. Mons. Giuseppe Angelini è Preside della

Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, Milano.

Giovedì, 30 Dicembre 2004 19:16

VIVERE NEL MONDO E NON ESSERE DEL MONDO

VIVERE NEL MONDO E NON ESSERE DEL MONDO

I Gruppi famiglia rappresentano un aspetto importante delle realtà di vita parrocchiale e comunitaria in generale

Per cogliere spunti di riflessione e confronto siritiene utile segnalare, fra i tanti, un documento curato dalCoordinamento Nazionale Gruppi Famiglia in occasione del "GIUBILEO2000" dal titolo "VIVERE NEL MONDO E NON ESSERE DEL MONDO" di cuipubblichiamo di seguito la presentazione. Il dossier è reperibile escaricabile in formato pdf direttamente dal sito di GRUPPI FAMIGLIA all'indirizzo http://digilander.libero.it/formazionefamiglia/

PRESENTAZIONE

Guardando, e preparandoci, alGiubileo ormai imminente le nostre riflessioni si sono indirizzateverso una tematica che certamente ci coinvolge tutti, come persone ecome famiglie.

Il titolo del fascicolo che offriamo quest'anno come sussidio per gli incontri dei Gruppi Famiglia è: "Vivere nel mondo, e non essere del mondo".

Come già nel sussidio precedente ("FEDE, donodi Dio e forza dell'uomo") si procede partendo da un annuncio legatoalla Parola di Dio cui seguono citazioni di brani utili per la LectioDivina e domande per la riflessione individuale, di coppia e di gruppo(Revisione di Vita).

Le tracce per i primi tre incontriservono a focalizzare il tema e prendono spunto da due versetti dellalettera di S. Paolo ai Romani: " Vi esorto dunque, fratelli, per lamisericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente,santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Nonconformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevirinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciòche è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,1-2).

I tre successivi trattano delle attese dell'uomo, seguendo quanto ci suggerisce il brano di Matteo 24,38-39: "Comefu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti,come nei giorni che precedettero il diluvio... non si accorsero dinulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche allavenuta del Figlio dell'uomo".

Gli ultimi incontri approfondiscono la vocazione dell'uomo alla felicità, a partire dalle Beatitudini (Mt 5,1-12).

Torino, dicembre 1999

Anna e Guido Lazzarini

PARROCCHIA E FAMIGLIA: DAL DIALOGO ALLA CORRESPONSABILITA‘

Una proposta per affrontare la pastorale familiare eparrocchiale in un ottica nuova, che consideri la famiglia comesoggetto e non più come oggetto di pastorale.

La riflessione che presentiamo è una breve sintesi di undocumento di mons. Renzo Bonetti, pubblicato l’anno scorso alla vigiliadel convegno di Cagliari su: "Progettare la pastorale con la famigliain parrocchia".

Il tema in esame sembra, a una prima lettura,orientato a fornire dei suggerimenti per l’interazione tra la pastoralefamiliare e quella parrocchiale; non è questo il mio obiettivo:rischierei di proporvi qualche buon consiglio di carattereorganizzativo e di valore limitato, oltreché di grande debolezza.Infatti, da una parte, la pastorale parrocchiale ha una tradizioneconsolidata, con la figura del sacerdote al centro, mentre la pastoralefamiliare ha fatto i primi passi negli anni ’70 quando sono iniziati iprimi segni di difficoltà per la famiglia (referendum sul divorzio elegge sull’aborto). In questi trent’anni abbiamo al nostro attivo icorsi di preparazione al matrimonio, qualche iniziativa per le giovanicoppie, i gruppi sposi e poco altro ancora.

In compenso sono state prodotte, da parte delmagistero, una valanga di indicazioni pastorali che, molto spesso, sonorestate lettera morta. Ci troviamo di fronte ad una pastorale familiareche vede la famiglia oggetto passivo e non pensata come soggetto:perché non è preparata, perché le coppie disponibili sono poche, ecc. Eciò è normale in un contesto ecclesiale che concepisce solo duesoggetti per la pastorale: il parroco e i fedeli, il parroco e gruppidi vario genere. Non che la famiglia sia ignorata, ma viene consideratasolo a livello di singoli membri e non in virtù della propria identità.

LA SITUAZIONE OGGI

Storicamente la famiglia è sempre stata unastruttura molto forte ed influente, che ha retto ai passaggi piùcritici della storia. Così la pastorale, dando giustamente per scontataquesta soggettività forte, si è articolata per fasce d’età collocandosiaccanto alla famiglia. Ma negli ultimi decenni la situazione èradicalmente cambiata: la famiglia non è più così ma, nella maggiorparte dei casi, abbiamo ignorato la sua crescente debolezza.

Quindi, tornando al tema in esame, la domanda piùprofonda che ci poniamo è: perché ci deve essere interazione tra le duepastorali? Quale è l’obiettivo finale? Dietro le due pastorali vi sonodue soggetti: i presbiteri e gli sposi. Ma non si tratta di costruirerelazioni tra sacerdoti e sposati perché, per grazia di Dio, non cimancano esempi di legami profondi tra essi; si tratta di aprirsi ad unanuova progettazione della pastorale che veda interagire sacerdoti esposi in virtù del dono che scaturisce dalla loro rispettiva identitàsacramentale.

E’ questo il punto: riscoprire, ridare dignità alsacramento del matrimonio e rendere gli sposi e presbiteri consapevolidel ruolo del ministero matrimoniale nella chiesa.

I DETTATI DEL MAGISTERO

Per una serie di motivi storici e culturali, maanche ecclesiali, si è sviluppata una produzione teologica e pastoraleabbondantissima riguardo al ministero ordinato, molto meno per quantoriguarda il matrimonio e il rapporto tra i due ministeri. Possiamo direche entrambi hanno la comune vocazione battesimale e una direttafinalità di costruzione e dilatazione del popolo di Dio; proprio perquesto vengono chiamati sacramenti sociali.

Il sacramento dell’ordine è conferito ad una solapersona per il servizio, il sacramento del matrimonio per il servizio èdato ad una "unità" di persone: è la "relazione" che diventasacramento. Come il sacerdote esprime sacramentalmente la presenza diCristo sposo della Chiesa, così il matrimonio si colloca come luce cheillumina il mistero nuziale di Cristo e della Chiesa. Entrambiesprimono il mistero nuziale di Cristo, che affonda la sua origine nelmistero stesso della Trinità, comunione di Amore tra Persone.

LA PRASSI PASTORALE

Senza voler sminuire la diversità essenziale cheesiste tra i due sacramenti e il ruolo completamente diverso che hannonella chiesa e nella società, a livello pastorale sappiamo bene quantodiversi sono i percorsi di formazione di coloro che sono chiamati alministero consacrato e di coloro che sono chiamati al matrimonio.L’obiettivo, nella preparazione di un futuro sacerdote, è quello diformare un soggetto attivo nella Chiesa per il mondo, in grado ditestimoniare il "mistero di Cristo" che è in lui. Questo non dovrebbevalere, fatte le debite proporzioni, anche per i futuri sposi? Invece i"corsi" di preparazione al matrimonio hanno obiettivi ben più modesti:creare un minimo di consapevolezza che quello che si sta per ricevere èun sacramento della fede, riconciliare e riavvicinare alla Chiesa,ricordare le norme morali a cui sono tenuti gli sposi.

Sono tutti obiettivi che stanno sotto la sogliadella verità del matrimonio sacramento. Analogo discorso vale perquanto riguarda la formazione permanente: attenta e assidua neiconfronti del presbitero, per aiutarlo fin dai primi anni a tenere vivala sua dimensione sacramentale; praticamente assente nei confrontidegli sposi, per i quali l’aspetto sacramentale si riduce al solo datonaturale del volersi bene quel tanto che basta per restare insieme.

VERSO LA COMPLEMENTARIETÀ'

Complementarietà non vuol dire che ciascuno dei duesacramenti è incompleto senza la presenza dell’altro ma che sonocomplementari per il fine che entrambi si propongono: doni essenziali epermanenti per la costruzione del Regno. "Insieme al sacramentodell’ordine il matrimonio è costante punto di riferimento per la vitadella comunità cristiana". Ma come si realizza questo "insieme"? Comeil ruolo specifico del presbitero si articola su tre punti: ilministero della Parola, quello dei sacramenti e dell’Eucarestia, quellodell’edificazione della Chiesa (Presbiterorum Ordinis, 4.5.6), così lafamiglia cristiana è chiamata a essere: comunità credente edevangelizzante, in dialogo con Dio, a servizio dell’uomo (FamiliarisConsortio, 50).

Una lettura in parallelo di queste tre funzioninell’ordine e nel matrimonio potrà mettere in evidenza come famiglia esacerdote possono far crescere l’autentica comunità cristiana che vivein un territorio.

UNA PASTORALE "CON" LA FAMIGLIA

La prospettiva pastorale che abbiamo sopra descrittopassa dalla conversione. Va quindi ripensata la relazione tra verginitàe matrimonio per riscoprire che in ciascuna delle due forme di vita sicompie il disegno di Dio. Va promosso un approfondimento teologicodella relazione tra i due sacramenti in vista della missione. Questoconsentirà di affrontare meglio alla radice la motivazione sottesa alla"corresponsabilità" dei due sacramenti per il Regno. Senza questocontributo rischiamo di ridurre la relazione ad un "coordinamento"pastorale. Va promossa l’acquisizione di una dimensione sponsale nellaspiritualità dei presbiteri in modo che i sacerdoti possano vedere conpiù facilità nel sacramento del matrimonio una forma elettiva delmistero nuziale che eucaristicamente essi celebrano e guardare allarealtà della coppia/famiglia come al modello per una ecclesialitàrelazionale e viva.

Una proposta concreta è quella di differenziare ipercorsi di preparazione al matrimonio, cominciando ad offrire, almenoa qualche coppia disponibile, "tutto" del sacramento e mettendola poinelle condizioni reali per poterlo vivere con un accompagnamento ed unaspiritualità specifica. Non si può infatti ipotizzare di promuovere lasoggettività del sacramento del matrimonio se poi non vi è unaformazione adeguata.

Si può progettare la pastorale prescindendo dalla famiglia o parlando solo genericamente di laici?

UN "SEGNO" PER LA SOCIETA’ ATTUALE

"Un tempo vi era un unico modello di nucleofamiliare, ora le famiglie sono molte: oltre a quelle tradizionali, visono quelle formate da un solo genitore, separate, risposate, adottive,affidatarie… I bambini, che sono i primi a cogliere i mutamenti,l’hanno ormai capito: il matrimonio o la convivenza dei loro genitorinon sono necessariamente eterni…"

(da "Vado a scuola" edito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento degli Affari Sociali, 2000).

Questo testo evidenzia, con drammaticità, quanto ilmatrimonio e la famiglia cristiana sono in questo momento storico il"buon annuncio" che viene offerto per "salvare" l’uomo e la donna nellaloro identità e relazione.

don Renzo Bonetti

"GRUPPI FAMIGLIA" n° 4 / dicembre 2002

Giovedì, 30 Dicembre 2004 19:10

CONSIGLI PASTORALI E AFFINI: SONO "SOLO" CONSULTIVI?

CONSIGLI PASTORALI E AFFINI: SONO "SOLO" CONSULTIVI?

intervista a don Lucio Casto, direttore dell’ISSR di Torino

Il ruolo dei laici nellenostre comunità è nella maggior parte dei casi quello di essere"oggetto" della pastorale. Ma anche coloro che si impegnanoconcretamente, nelle varie attività parrocchiali sono effettivamente"soggetti", o solo esecutori della pastorale definita dal sacerdote?

 

Uno dei modi concreti con cui i laici sono presenticome "soggetto" nella Chiesa sono i consigli pastorali. Ma coloro chevi partecipano sovente hanno l’impressione che gl’incontri servano apoco, siano spesso solo momenti d’incontro e di scambi d’opinione, conscarsa incidenza operativa. Abbiamo rivolto, su questo e altriargomenti, alcune domande a don Lucio Casto, direttore dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Torino.

 

Qual è la sua opinione sui consigli pastorali?

A mio parere c’è un vizio di fondo inquesto genere di assemblee e questo rende fin troppo palese quella cheè anche la mentalità prevalente nella Chiesa. "I Consigli pastoralisono solo organi consultivi": quest’affermazione è una delle piùribadite e più gelosamente difese, di conseguenza i parroci o ilVescovo ne adottano spesso le conclusioni con largo margine didiscrezionalità e così si pongono le premesse per ridurre di molto ilvalore di questi organismi.

 

Più in generale qual è, secondo Lei, il ruolo dei laici nella Chiesa?

La mia impressione è che a tutt’oggiquando abbiamo parrocchie efficienti e con numerosi laici, e ciò stadiventando ogni giorno di più una prospettiva e una speranza, questolaicato continua ad essere voluto e coinvolto così come si coinvolgonoi minorenni. Quanti sono a credere fino in fondo che lo Spirito Santonon è stato dato solo ai pastori e che il vero soggetto-protagonistadell’azione pastorale è la comunità cristiana tutta, con il presbiteroe il vescovo che hanno in essa un compito autorevole di discernimento?

 

Ma allora quale dovrebbe essere, rispettivamente, il ruolo del sacerdote e dei laici?

Non voglio assolutamente mettere indiscussione il ruolo specifico affidato ai pastori della Chiesa. Voglioperò ricordare che nella vita delle Chiese raccontateci dagli Attidegli Apostoli, pur essendoci già chiaramente il ruolo insostituibiledell’apostolo, degli episcopi e dei presbiteri, non contava solo ilparere di chi presiedeva nella comunità. A me sembra che una buonaecclesiologia dovrebbe almeno correggere notevolmente una impostazione,che vede i laici come eterni minorenni, sempre bisognosi della tutelapastorale dei sacerdoti.

 

Da dove deriva la dignità ministeriale dei laici?

Tutto il popolo di Dio è Popolo regale esacerdotale ed è di qui che bisogna partire per individuare un piùesatto rapporto tra clero e laici. Bisogna invece assolutamenteabbandonare una visione piramidale della Chiesa con al vertice lagerarchia in posizione di comando, come va abbandonata un’altraedizione più recente, per cui si parlava di "Chiesa docente" e di"Chiesa discente". Il Vaticano II, ritornando a parlare di sacerdozioregale dei fedeli sulla base del Nuovo Testamento, non ha certo volutoproporre un tipo di Chiesa "dal basso" che non riconosce il ruolodeterminante dei ministri ordinati, quale abbiamo ad esempioall’interno del Protestantesimo. Ma ha voluto ridire che il ministeroordinato è un servizio da rendere al sacerdozio regale dei fedeli, nonun dominio sacrale su di esso, quale eserciterebbe una castasacerdotale.

 

Ma i sacerdoti a loro volta si lamentano dei laici, o perché assenti o perché poco preparati…

Non sono rari i casi in cui il sacerdotesi deve confrontare con una comunità cristiana ancora immatura o con unlaicato non ancora educato ad assumersi le sue responsabilità. E’chiaro che in questo caso il presbitero deve fare un’azione disupplenza. Ma l’obiettivo non può esser quello di rimanere "padre-padrone" in mezzo a una comunità di minorenni, esecutori più o menoobbedienti delle direttive del parroco o del Vescovo.

 

Questo vale certo per i sacerdoti formati prima del Concilio, ma ora la situazione non dovrebbe essere migliorata?

Purtroppo la mentalità paternalistica nonè solo un attributo dei preti delle generazioni passate, è già prontaper i giovani (e i meno giovani) la nuova edizione dello stesso viziodi fondo, ed è la mentalità manageriale: lì di nuovo siamo alle presecon un paternalismo illuminato che sa utilizzare i mezzi moderni dellaefficienza organizzativa: ma il modello di Chiesa degli Atti degliApostoli rimane lontano ed ampiamente disatteso.

 

Quali sono le prospettive di crescita per la Chiesa che è in Torino e per il laicato?

Certamente la grande stagione pastoraleche si è aperta per la Chiesa torinese con la Missione diocesana e conil varo delle unità pastorali sarà un momento propizio per continuare emigliorare questa riflessione. Anche le iniziative da tempo in corsoper rendere sempre più maggiorenne il laicato, quali i corsi per glioperatori pastorali e, ora, anche l’indirizzo pastorale all’IstitutoSuperiore di Scienze Religiose, sono uno strumento provvidenziale perringiovanire la nostra diocesi: soprattutto per renderla adulta intutte le sue membra.

don Lucio Casto

(su Gruppi Famiglia n° 41 / dicembre 2002)

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